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diritto dell'Unione europeaForum COVID-19

[N]on tutto ciò che è tecnologicamente possibile è anche socialmente desiderabile, eticamente accettabile e giuridicamente legittimo» (Rodotà, 2004). Le parole dell’allora Garante italiano per la protezione dei dati personali Stefano Rodotà risultano particolarmente calzanti rispetto all’istituzione in Italia, per mezzo del decreto legge 30 aprile 2020, n. 28, di una piattaforma unica nazionale per la gestione di un sistema di allerta COVID-19 per tutti coloro che installeranno l’app ‘Immuni’ (Ordinanza n.10/2020 del Commissario straordinario per l’emergenza Covid-19). 

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La pandemia di Covid-19 sta mettendo a dura prova la tenuta dei sistemi sanitari nazionali. Se, in un primo momento, tra i problemi maggiormente pressanti si annoverava l’approvvigionamento rapido dei dispositivi di protezione individuale (DPI), ben presto l’attenzione si è spostata sull’insufficienza dei posti letto in terapia intensiva. Secondo i dati più recenti, precedenti la pandemia e risalenti al settembre 2019, in Italia erano disponibili 5.090 posti letto di terapia intensiva (8,42 per 100.000 ab.). Tuttavia, questo dato sembra non riuscire a fotografare esattamente la realtà ospedaliera nella misura in cui le Regioni sono state colpite asimmetricamente dalla pandemia. Inoltre, come noto, la tutela della salute è una materia di legislazione concorrente ex art. 117, co. 2, Cost. 

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Il post di Simone Benvenuti illustra con grande lucidità le ricadute sulla tutela dello Stato di diritto derivanti dall’adozione della legge organica ungherese n. 12, del 30 marzo 2020, relativa alla protezione contro il Coronavirus. Si tratta di misure abnormi, che non possono certo esser fatte rientrare nel novero delle decisioni che gli Stati dell’Unione sono legittimati ad adottare, in situazioni di emergenza, per derogare all’applicazione del diritto sovranazionale. De Sena ne delinea poi le criticità alla luce della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

In effetti, tali misure, che vanno a sommarsi ad una serie di riforme introdotte nel Paese europeo a partire dal 2011 – l’ultima delle quali, sostanzialmente contestuale alla legge del 30 marzo, volta a proibire la registrazione sui documenti di identità del cambio di sesso –, sembrano dar corpo in via definitiva (o quanto meno per un periodo di tempo indefinito) a quel modello di democrazia illiberale promosso con forza da Viktor Orbán, ponendosi così in netto contrasto con l’impianto valoriale su cui si fonda l’Unione europea (art. 2 TUE).

È dunque opportuno compiere alcune considerazioni sulle conseguenze che rispetto ad esse dovrebbero determinarsi sul piano sovranazionale.

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Oblio
diritto dell'Unione europea

Il 24 settembre 2019, con due sentenze emesse nei casi C-136/17, GC e altri c. Commission nationale de l’informatique et des libertés (CNIL) e C-507/17, Google LLC c. Commission nationale de l’informatique et des libertés (CNIL), la Corte di giustizia è tornata a pronunciarsi sul «diritto all’oblio», a oltre cinque anni di distanza dalla sentenza Google Spain del 13 maggio 2014 (C-131/12), con la quale, in buona sostanza, la Corte aveva stabilito che, in seguito a specifica richiesta di cancellazione da parte degli interessati, i gestori dei motori di ricerca sono obbligati a eliminare dall’elenco dei risultati di ricerca i link verso pagine web, pubblicate da terzi, contenenti informazioni sugli interessati, anche qualora tali informazioni non vengano o non possano essere cancellate dalle stesse pagine web (sul caso v. il contributo su SIDIBlog di Natoli, oltre ai commenti, tra gli innumerevoli comparsi in dottrina, di Lynskey, Crowther, Valvo, Castellaneta, Kranenborg,Spiecker, Stute).

Le due pronunce sono state anticipate dalle conclusioni dell’Avvocato generale Szpunar, pubblicate per entrambi i casi il 10 gennaio 2019 (v. qui e qui).

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Il 31 ottobre 2019 l’Avvocato generale Eleanor Sharpston ha reso le proprie conclusioni nelle cause attivate dalla Commissione europea ai fini dell’accertamento delle presunte violazioni commesse da Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca rispetto a obblighi di ricollocazione di richiedenti asilo derivanti dalla decisione (UE) 2015/1601 (C-715/17, C-718/17, C-719/17). Come prevedibile, l’Avvocato generale ha ravvisato la sussistenza dei profili di responsabilità individuati dalla Commissione. Tuttavia, vuoi per l’originalità dell’oggetto, vuoi per il delicato contesto di riferimento, le conclusioni dell’Avvocato Sharpston meritano di essere analizzate già prima della sentenza che la Corte di giustizia pronuncerà a breve. Prima di addentrarsi nei contenuti dell’opinione è però opportuno ripercorrere, benché per sommi capi, gli eventi più significativi che hanno indotto la Commissione ad attivare la procedura prevista dall’art. 258 TFUE.

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diritto dell'Unione europeadiritto internazionale pubblico

Il 20 giugno 2019 l’Unione europea, constatata l’impossibilità di giungere a una soluzione mutuamente accettabile mediante la fase conciliativa già avviata il 15 gennaio 2019, ha attivato per la prima volta la fase contenziosa del sistema di soluzione delle controversie contemplato nell’Accordo di associazione con l’Ucraina e chiesto, quindi, la costituzione di un panel di esperti volto a verificare la compatibilità, con l’Accordo stesso, delle misure di restrizione all’esportazione di varie tipologie di legname non trattato adottate dalla controparte.

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1. Non si può dire che la disciplina dell’ingresso, soggiorno e allontanamento dello straniero rispetto al territorio italiano non sia bisognosa di urgente riordino: frutto della stratificazione alluvionale di normative dettate da ragioni occasionali, spesso solo propagandistiche; ulteriormente confusa dall’adozione di atti di adattamento a direttive europee inserite come corpi estranei in un sistema con esse non coordinato, tale materia appare oggi come un groviglio di norme disordinato e spesso incoerente. Si potrebbe pertanto comprendere la fretta di intervenire da parte dell’attuale governo, a costo di forzare un po’ i presupposti del ricorso allo strumento del decreto legge (suscitando i rilievi critici dei costituzionalisti per i quali v. qui). Appare tuttavia assolutamente inadeguata, e anzi controproducente, la tecnica legislativa adottata e del tutto illusoria la ratioche la supporta.

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All’esito di una lunga maratona negoziale, preceduta da aspre scaramucce dialettiche tra gli Stati membri e da un pre-vertice tenutosi nella capitale belga la domenica precedente, il Consiglio europeo del 28-29 giugno ha adottato alcune Conclusioni sulle migrazioni. Il documento finale pretende di offrire un quadro di riferimento per l’azione dell’UE in materia per i mesi e gli anni a venire, integrando precedenti conclusioni tematiche approvate in occasione delle riunioni succedutesi con una certa frequenza a partire dalla primavera del 2015. Per questo motivo esso tocca svariate questioni. Non torneremo qui sulle attività di ricerca e soccorso in mare operate dalle imbarcazioni delle ONG e sul controverso rapporto tra l’Italia e Libia in materia di prevenzione dei flussi migratori irregolari, su cui rinviamo al recente post di Vitiello. Ci occuperemo piuttosto di due aspetti affrontati nelle conclusioni, che sono entrambi sintomatici della persistente difficoltà di orientare lo sviluppo della politica UE sulle migrazioni secondo linee coerenti con il dettato del diritto primario (e in particolare con l’art. 80 TFUE): l’ipotesi di condurre le persone soccorse in mare in hotspot collocati in Paesi terzi o sul territorio UE; la riforma del sistema Dublino.

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Se un essere razionale di avanzata evoluzione (evidentemente un marziano), osservando le vicende di questo “atomo opaco del male”, avesse seguito negli ultimissimi tempi le cronache sui movimenti di persone nel Mediterraneo e le reazioni politiche e giuridiche ad esse, sicuramente ne sarebbe rimasto a dir poco esterrefatto. Difatti, è difficile trovare una successione di eventi così drammaticamente irrazionali – prima ancora, e oltre che, illeciti – quali quelli che si sono susseguiti a partire dall’adozione, il 13 maggio 2015, dell’Agenda europea per le migrazioni (su cui v. il post di Cherubini in questo blog). In essa, un po’ occultata da una paccottiglia di routinarie dichiarazioni di dolore per le tante vittime e di burocratiche preoccupazioni umanitarie per la sorte dei futuri soggetti in partenza – sotto il titolo Collaborare con i paesi terzi per affrontare a monte la questione della migrazione – si trova la misura centrale della gestione dei flussi da parte dell’Unione europea e dei suoi Stati membri: la c.d. esternalizzazione delle frontiere (sulla quale v. Frelick, Kysel, Podkul ). Lanciata gloriosamente dal governo italiano con il Processo di Kartoum del novembre 2014 (per un commento v. qui il quale vedi qui); successivamente sviluppata dalla Commissione europea nella Comunicazione sulla creazione di un nuovo quadro di partenariato con i Paesi terzi nell’ambito dell’Agenda europea sulla migrazione del 7 giugno 2016; sostenuta dal Summit UE/OUA, tenutosi alla Valletta nel novembre 2015 (anche con la creazione di uno strumento economico, il Fondo fiduciario per l’Africa); trionfalmente sbandierata nel Vertice di Parigi sulle migrazioni, l’esternalizzazione delle frontiere è ormai la pietra angolare delle politiche migratorie (anche se rischia di divenirne la pietra d’inciampo), ormai di gran lunga preferita rispetto a misure parimenti perspicue, anche se ancillari, proposte dall’Italia,  quali il bombardamento dei barconi di migranti (per il quale si rinvia ad un nostro precedente post) o la chiusura dei porti alle imbarcazioni cariche di persone salvate da naufragi (su cui v. il post di De Sena e De Vittor).

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Mauro Gatti, Università del Lussemburgo La Corte di giustizia dell’UE ha emesso il 16 maggio 2017 l’atteso Parere 2/15, riguardante l’Accordo di libero scambio tra l’UE e la Repubblica di Singapore. La domanda di parere, proposta dalla Commissione europea sulla base dell’art. 218(11) TFUE, mirava a chiarire se l’Accordo rientrasse

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