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L’impatto devastante dell’epidemia da COVID-19 sta imponendo agli Stati (e alle organizzazioni internazionali competenti) l’introduzione di misure vieppiù incisive per tentare di arginarne l’avanzata e mitigarne gli effetti. Alcuni dei provvedimenti adottati comportano restrizioni al pieno godimento dei diritti individuali: l’imposizione di quarantene e le ospedalizzazioni coatte costituiscono chiare interferenze col diritto alla libertà personale; la creazione di zone dalle quali non è concesso allontanarsi incide sulla libertà di movimento; la requisizione di beni privati limita il diritto di proprietà. In alcuni casi i governi hanno fatto ricorso a tecniche di sorveglianza capaci di limitare fortemente il diritto alla vita privata e familiare.

I diritti in questione sono garantiti dagli ordinamenti interni degli Stati, ma anche da numerosi trattati a tutela dei diritti umani. Sia i primi che i secondi prevedono tuttavia la possibilità di introdurre restrizioni al pieno esercizio dei diritti individuali, allorché debbano essere protetti interessi collettivi (quali la salute e l’ordine pubblico), interessi essenziali dello Stato o i diritti e le libertà di altri individui.

Scopo di questo post è di esaminare rapidamente quali restrizioni siano permesse nelle circostanze attuali, e quali siano i requisiti formali e sostanziali che vanno rispettati nella loro attuazione. L’analisi si concentrerà sul quadro giuridico fissato dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali (CEDU).

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Il Forum “COVID-19, diritto internazionale e diritto dell’Unione europea” è immaginato come uno spazio di dibattito, confronto e approfondimento aperto, in continuo aggiornamento anche in ragione dell’incedere tumultuoso della situazione. Particolare attenzione sarà riservata al ruolo delle organizzazioni internazionali e dell’Unione europea nella lotta alla pandemia, e alle ripercussioni di quest’ultima sulla tutela dei diritti umani, sul diritto internazionale dell’economia, sul diritto internazionale privato. Invitiamo pertanto studiosi e pratici italiani e stranieri interessati a intervenire nel Forum a inviare un breve contributo, di massimo 1500 parole, all’indirizzo sidiblog2013@gmail.com.

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Con sentenza resa il 13 febbraio 2020 nel caso N.D. e N.T. c. Spagna, la Grande Camera della Corte europea dei diritti umani ha affrontato per la prima volta la questione dei respingimenti sommari di migranti alle frontiere terrestri che separano la città autonoma di Melilla, énclave spagnola di circa 12 km2 situata sulla costa nord-africana, dal Regno del Marocco. La pronuncia in esame rappresenta l’epilogo di una vicenda processuale iniziata il 12 febbraio 2015, con il deposito, da parte di due cittadini di nazionalità maliana e ivoriana, di due ricorsi volti ad accertare se la misura di rimpatrio immediato adottata nei loro confronti dalla Guardia civile spagnola di stanza a Melilla costituisse una violazione dell’obbligo di non respingimento, del diritto a non essere sottoposti a espulsioni collettive e del diritto a un ricorso effettivo, come affermati, rispettivamente, nell’art. 3, nell’art. 4 del IV Protocollo e nell’art. 13 CEDU.

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Il Governo italiano è obbligato a rendere pubblico l’accordo di cooperazione sottoscritto con il Niger nel settembre 2017 (v. qui e qui) che non è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale e nemmeno reso disponibile nell’Archivio dei Trattati Internazionali Online (ATRIO) del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale (MAECI). Così ha deciso il TAR del Lazio accogliendo il ricorso di alcuni avvocati dell’Associazione Studi Giuridici per l’Immigrazione (ASGI) avverso un diniego opposto dal MAECI.

La sentenza pronunciata dalla Terza Sezione del TAR è importante per varie ragioni. In primo luogo, sancisce un obbligo generale a carico del Governo di rendere pubblico il testo di accordi internazionali che non siano espressamente coperti da segreto di Stato, sia quando questi siano conclusi in forma semplificata, sia quando questi siano applicati in pendenza dell’iter di autorizzazione alla ratifica. L’affermazione di tale obbligo giunge in un periodo storico in cui il Governo italiano conclude diversi accordi di cooperazione con gli Stati di provenienza e di transito dei migranti, finalizzati alla gestione dei flussi migratori, seguendo procedure semplificate di conclusione, che non prevedono autorizzazione parlamentare, e, in taluni casi, omettendo di pubblicarne i relativi testi.

L’accordo col Niger – e la sua applicazione – rappresentano per un verso un caso del tutto peculiare e, per un altro, sono sintomatici di alcune tendenze problematiche che verranno esposte per sommi capi in questo post, anche con riferimento, nel finale, alla recente posizione del Governo italiano sul Global Compact sulle migrazioni.

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A recent post on this blog has highlighted a certain trend among European states towards an opening of their courts to foreign direct liability cases. Meanwhile, the US Supreme Court has just struck another blow against transnational human rights litigation against corporations.

On 24 April 2018, the United States Supreme Court rendered its long-awaited judgment in Jesner et al v. Arab Bank PLC (Jesner, 584 U.S.).

The claim adds to the extensive list of lawsuits filed under the Alien Tort Statute (ATS), an 18th-century statute which grants US courts jurisdiction over “any civil action by an alien for a tort only, committed in violation of the law of nations or a treaty of the United States.” (28 U.S.C. para 1350).

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Questo contributo compie una ricognizione dei recenti e importanti sviluppi relativi ai c.d. foreign direct liability claims promossi contro imprese transnazionali e le loro controllate estere nello Stato di domicilio della capogruppo, focalizzandosi in particolar modo sul panorama europeo. Mentre negli Stati Uniti l’applicabilità dell’Alien Tort Claims Act ai crimini d’impresa viene messa in discussione (v. Kiobel v Shell e Jesner v Arab Bank), cause innovative vengono intentate in altre giurisdizioni, tra cui il Canada (v. Choc v Hudbay) e alcuni Stati europei.

Gli esempi più significativi di questo tipo di azioni legali sono di seguito illustrati partendo dalla giurisprudenza inglese, che ha prodotto un importante precedente relativo al dovere di diligenza dell’azienda madre con la sentenza Chandler.

Il contributo si conclude con una riflessione sulle principali barriere che i ricorrenti devono fronteggiare nel promuovere questo tipo di cause; sui possibili incentivi avversi che potrebbero scaturire dall’affermazione giudiziale del duty of care dell’azienda madre e sulla possibilità, auspicata da molti, che l’attuale discussione di un trattato internazionale su imprese e diritti umani porti a un’affermazione giuridicamente vincolante del duty of care dell’azienda madre.

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Cala il sipario della Corte europea dei diritti dell’uomo sulle violenze commesse in occasione del G8 di Genova del 2001. Con due sentenze “gemelle” nei casi Azzolina et. al. e Blair et al. del 26 ottobre 2017, la Corte di Strasburgo ha nuovamente condannato l’Italia per la violazione del divieto di trattamenti inumani e degradanti di cui all’art. 3 CEDU, stavolta in relazione alle violenze perpetrate dalle forze di polizia all’interno della caserma di Bolzaneto.

Chiuso così il contenzioso europeo sulle violenze del G8, è ora possibile tracciare un bilancio complessivo della vicenda. Un bilancio non certo lusinghiero per lo Stato italiano, reduce da quattro pesantissime condanne (alle due pronunce che qui si annotano si aggiungono le sentenze Cestaro del 14 aprile 2015 e Bartesaghi Gallo et al. del 22 giugno 2017 relative ai fatti nella scuola “Diaz-Pertini”, nonché le due decisioni di radiazione dal ruolo per componimento amichevole nei casi Alfarano e Battista et al. del 14 marzo 2017), che hanno censurato il carattere drammaticamente deficitario del sistema sanzionatorio italiano (quantomeno quello dell’epoca), puntando apertamente il dito contro la colpevole inerzia del legislatore (per un commento alla sentenza Cestaro, si rinvia ad un nostro precedente post).

Su questo scenario desolante si innesta la recente novella legislativa che, colmando l’imbarazzante e prolungato vuoto normativo, ha finalmente dotato l’ordinamento penale di una nuova fattispecie incriminatrice, l’art. 613-bis c.p., tesa a sanzionare atti di tortura e trattamenti inumani e degradanti. Eppure, come si dirà, questo intervento non ci pare di per sé idoneo a mettere lo Stato italiano al riparo da nuove condanne per violazione dell’art. 3 CEDU.

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 «Rachele vedendo che non le era concesso di procreare figli a Giacobbe, [disse]: «Ecco la mia serva Bila: unisciti a lei, così che partorisca sulle mie ginocchia e abbia anch’io la mia prole per mezzo di lei» (Genesi, 30, 1-3). Pur di biblica memoria, la gestazione per altri rappresenta una pratica estremamente controversa (in particolare quando essa abbia natura commerciale, ovvero preveda il pagamento di un compenso per la gestante) e pare dunque lecito dubitare della compatibilità con i diritti fondamentali dell’individuo quanto meno di alcune sue applicazioni (vedi Gerber e O’Byrne, Poli, Ergas, Stark).

La decisione della Grande Camera nel caso Paradiso e Campanelli offre, fra le righe, alcune indicazioni sulla valutazione della Corte di Strasburgo in materia, ma lascia aperte questioni tutt’altro che secondarie. In particolare, la posizione dei bambini nati da madre surrogata rimane particolarmente critica, e le profonde diversità di approccio tra gli Stati non prospettano una soluzione a breve termine.

A due anni dalla sentenza con cui riconosceva una violazione dell’art. 8 CEDU nell’allontanamento e affidamento ai servizi sociali di un minore, nato attraverso maternità surrogata all’estero e non legato geneticamente agli intended parents, la Corte europea dei diritti umani, questa volta in formazione allargata, è tornata ad esprimersi sul caso Paradiso e Campanelli ed ha escluso che l’Italia abbia violato i diritti dei ricorrenti.

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Alice Ollino, Università degli Studi di Milano-Bicocca In her post on the burkini and the crisis of (international) law, Bérénice Schramm warned us against the limits of mainstream legal narratives that accommodate discrimination against women, and suggested revisiting the foundations of international law in order to attain full equality. The

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Bérénice K. Schramm, Centre for Gender Studies, SOAS | CÉDIM, UQÀM   « Nous étions sur la plage en famille avec mes enfants, comme tout le monde. Trois policiers se sont avancés vers nous et m’ont stipulé qu’un arrêté avait été émis par le maire de Cannes qui exigeait d’avoir une

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