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Non-refoulement e cambiamento climatico: il caso Teitiota c. Nuova Zelanda
Le considerazioni (Views) sul caso Teitiota c. Nuova Zelanda (comunicazione n. 2728/2016), adottate dal Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite (d’ora in avanti, “il Comitato”) nell’ambito della sessione tenutasi dal 14 ottobre all’8 novembre 2019, e pubblicate il 7 gennaio 2020, costituiscono una pronuncia di notevole importanza in materia di cambiamento climatico e dell’impatto di tale fenomeno sui diritti umani. In particolare, come si vedrà, nel quadro della decisione in oggetto, il Comitato ha – per la prima volta – avuto l’occasione di prospettare l’applicazione del divieto di refoulement in caso di rischio per la vita derivante da disastri ambientali legati a cambiamenti climatici.
La sentenza N.D. e N.T. della Corte europea dei diritti umani: uno “schiaffo” ai diritti dei migranti alle frontiere terrestri?
Con sentenza resa il 13 febbraio 2020 nel caso N.D. e N.T. c. Spagna, la Grande Camera della Corte europea dei diritti umani ha affrontato per la prima volta la questione dei respingimenti sommari di migranti alle frontiere terrestri che separano la città autonoma di Melilla, énclave spagnola di circa 12 km2 situata sulla costa nord-africana, dal Regno del Marocco. La pronuncia in esame rappresenta l’epilogo di una vicenda processuale iniziata il 12 febbraio 2015, con il deposito, da parte di due cittadini di nazionalità maliana e ivoriana, di due ricorsi volti ad accertare se la misura di rimpatrio immediato adottata nei loro confronti dalla Guardia civile spagnola di stanza a Melilla costituisse una violazione dell’obbligo di non respingimento, del diritto a non essere sottoposti a espulsioni collettive e del diritto a un ricorso effettivo, come affermati, rispettivamente, nell’art. 3, nell’art. 4 del IV Protocollo e nell’art. 13 CEDU.
Un gioco delle parti sulla pelle delle persone. L’insostenibilità delle ragioni greche, turche ed europee nella crisi migratoria in corso.
Il Governo turco ha fatto transitare i potenziali richiedenti asilo (stimati in centomila dal Ministro degli Interni) per il proprio Paese, permettendo loro di giungere al confine (anzi: ai confini) con la Grecia. Quest’ultima ha deciso di ‘militarizzare’ le aree di confine, dichiarando di non accettare ulteriori richieste di asilo, respingendo potenziali richiedenti con ogni mezzo, e invocando l’art. 78, comma 3, del TFUE, il quale stabilisce che il Consiglio può adottare misure temporanee a beneficio di uno Stato membro dell’Unione che affronti una situazione di emergenza.
Nel frattempo, gli individui che hanno tentato di attraversare il confine greco-turco sono stati oggetto di violenze inaccettabili (per un resoconto, v. l’articolo di Annalisa Camilli su Internazionale) e – notizia di tre giorni fa – trattenuti in località segrete e sottoposti a trattamenti inumani e degradanti.
Sebbene tale ultimo aspetto sia il più drammatico e l’attenzione della società civile sia giustamente rivolta ad assicurare il rispetto dei diritti umani e della Convenzione di Ginevra del 1951 (v. ad esempio il richiamo di ECRE), il presente contributo ha l’obiettivo di fare chiarezza su alcuni aspetti generali della vicenda. Dal punto di vista del diritto internazionale e del diritto dell’Unione europea, infatti, le posizioni dei tre attori coinvolti – Grecia, UE e Turchia – sollevano pesanti interrogativi in ordine alla legittimità delle rispettive azioni e reazioni.
A tal fine, il post si concentrerà, analizzandole criticamente, sulle dichiarazioni ufficiali rese dai tre attori appena menzionati, in particolare: la dichiarazione del Primo ministro greco del 3 marzo 2020; la dichiarazione dei Ministri degli affari esteri dell’UE del 6 marzo 2020 e quella del Governo turco, rilasciata lo stesso giorno.
Genocidio dei Rohingya? Sulle misure cautelari della Corte internazionale di giustizia nel caso Gambia c. Myanmar
Il 23 gennaio 2020 la Corte internazionale di giustizia (CIG) ha adottato un’ordinanza in risposta alla richiesta di misure provvisorie presentata dal Gambia l’11 novembre 2019 nel quadro del contenzioso che lo oppone a Myanmar, accusato di violare la Convenzione del 9 dicembre 1948 per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio. Con il ricorso, fondato sui (presunti) illeciti commessi nello Stato di Rakhine dall’esercito di Myanmar (noto come Tatmadaw) e da vari gruppi armati (supportati, sostenuti o quanto meno tollerati dallo Stato) contro il gruppo etnico musulmano dei Rohingya, il Gambia ha chiesto l’accertamento della violazione degli articoli I, III, IV, V e VI della Convenzione suddetta e la conseguente condanna di Myanmar alla cessazione dell’illecito, alla punizione dei colpevoli, alla riparazione dei danni nei confronti delle vittime e alla prestazione di adeguate garanzie di non ripetizione.
L’ordinanza, adottata all’unanimità (con due opinioni separate, l’una della Vice-Presidente Xue e l’altra del giudice Cançado Trindade) contiene spunti interessanti, che probabilmente incideranno sulla prosecuzione del giudizio.
In questo breve scritto esamineremo la questione tanto sotto il profilo sostanziale, quanto sotto quello procedurale.