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L’impatto devastante dell’epidemia da COVID-19 sta imponendo agli Stati (e alle organizzazioni internazionali competenti) l’introduzione di misure vieppiù incisive per tentare di arginarne l’avanzata e mitigarne gli effetti. Alcuni dei provvedimenti adottati comportano restrizioni al pieno godimento dei diritti individuali: l’imposizione di quarantene e le ospedalizzazioni coatte costituiscono chiare interferenze col diritto alla libertà personale; la creazione di zone dalle quali non è concesso allontanarsi incide sulla libertà di movimento; la requisizione di beni privati limita il diritto di proprietà. In alcuni casi i governi hanno fatto ricorso a tecniche di sorveglianza capaci di limitare fortemente il diritto alla vita privata e familiare.

I diritti in questione sono garantiti dagli ordinamenti interni degli Stati, ma anche da numerosi trattati a tutela dei diritti umani. Sia i primi che i secondi prevedono tuttavia la possibilità di introdurre restrizioni al pieno esercizio dei diritti individuali, allorché debbano essere protetti interessi collettivi (quali la salute e l’ordine pubblico), interessi essenziali dello Stato o i diritti e le libertà di altri individui.

Scopo di questo post è di esaminare rapidamente quali restrizioni siano permesse nelle circostanze attuali, e quali siano i requisiti formali e sostanziali che vanno rispettati nella loro attuazione. L’analisi si concentrerà sul quadro giuridico fissato dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali (CEDU).

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Il Forum “COVID-19, diritto internazionale e diritto dell’Unione europea” è immaginato come uno spazio di dibattito, confronto e approfondimento aperto, in continuo aggiornamento anche in ragione dell’incedere tumultuoso della situazione. Particolare attenzione sarà riservata al ruolo delle organizzazioni internazionali e dell’Unione europea nella lotta alla pandemia, e alle ripercussioni di quest’ultima sulla tutela dei diritti umani, sul diritto internazionale dell’economia, sul diritto internazionale privato. Invitiamo pertanto studiosi e pratici italiani e stranieri interessati a intervenire nel Forum a inviare un breve contributo, di massimo 1500 parole, all’indirizzo sidiblog2013@gmail.com.

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Le considerazioni (Views) sul caso Teitiota c. Nuova Zelanda (comunicazione n. 2728/2016), adottate dal Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite (d’ora in avanti, “il Comitato”) nell’ambito della sessione tenutasi dal 14 ottobre all’8 novembre 2019, e pubblicate il 7 gennaio 2020, costituiscono una pronuncia di notevole importanza in materia di cambiamento climatico e dell’impatto di tale fenomeno sui diritti umani. In particolare, come si vedrà, nel quadro della decisione in oggetto, il Comitato ha – per la prima volta – avuto l’occasione di prospettare l’applicazione del divieto di refoulement in caso di rischio per la vita derivante da disastri ambientali legati a cambiamenti climatici.

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Con sentenza resa il 13 febbraio 2020 nel caso N.D. e N.T. c. Spagna, la Grande Camera della Corte europea dei diritti umani ha affrontato per la prima volta la questione dei respingimenti sommari di migranti alle frontiere terrestri che separano la città autonoma di Melilla, énclave spagnola di circa 12 km2 situata sulla costa nord-africana, dal Regno del Marocco. La pronuncia in esame rappresenta l’epilogo di una vicenda processuale iniziata il 12 febbraio 2015, con il deposito, da parte di due cittadini di nazionalità maliana e ivoriana, di due ricorsi volti ad accertare se la misura di rimpatrio immediato adottata nei loro confronti dalla Guardia civile spagnola di stanza a Melilla costituisse una violazione dell’obbligo di non respingimento, del diritto a non essere sottoposti a espulsioni collettive e del diritto a un ricorso effettivo, come affermati, rispettivamente, nell’art. 3, nell’art. 4 del IV Protocollo e nell’art. 13 CEDU.

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Il Governo turco ha fatto transitare i potenziali richiedenti asilo (stimati in centomila dal Ministro degli Interni) per il proprio Paese, permettendo loro di giungere al confine (anzi: ai confini) con la Grecia. Quest’ultima ha deciso di ‘militarizzare’ le aree di confine, dichiarando di non accettare ulteriori richieste di asilo, respingendo potenziali richiedenti con ogni mezzo, e invocando l’art. 78, comma 3, del TFUE, il quale stabilisce che il Consiglio può adottare misure temporanee a beneficio di uno Stato membro dell’Unione che affronti una situazione di emergenza.

Nel frattempo, gli individui che hanno tentato di attraversare il confine greco-turco sono stati oggetto di violenze inaccettabili (per un resoconto, v. l’articolo di Annalisa Camilli su Internazionale) e – notizia di tre giorni fa – trattenuti in località segrete e sottoposti a trattamenti inumani e degradanti.

Sebbene tale ultimo aspetto sia il più drammatico e l’attenzione della società civile sia giustamente rivolta ad assicurare il rispetto dei diritti umani e della Convenzione di Ginevra del 1951 (v. ad esempio il richiamo di ECRE), il presente contributo ha l’obiettivo di fare chiarezza su alcuni aspetti generali della vicenda. Dal punto di vista del diritto internazionale e del diritto dell’Unione europea, infatti, le posizioni dei tre attori coinvolti – Grecia, UE e Turchia – sollevano pesanti interrogativi in ordine alla legittimità delle rispettive azioni e reazioni.

A tal fine, il post si concentrerà, analizzandole criticamente, sulle dichiarazioni ufficiali rese dai tre attori appena menzionati, in particolare: la dichiarazione del Primo ministro greco del 3 marzo 2020; la dichiarazione dei Ministri degli affari esteri dell’UE del 6 marzo 2020 e quella del Governo turco, rilasciata lo stesso giorno.

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Il 23 gennaio 2020 la Corte internazionale di giustizia (CIG) ha adottato un’ordinanza in risposta alla richiesta di misure provvisorie presentata dal Gambia l’11 novembre 2019 nel quadro del contenzioso che lo oppone a Myanmar, accusato di violare la Convenzione del 9 dicembre 1948 per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio. Con il ricorso, fondato sui (presunti) illeciti commessi nello Stato di Rakhine dall’esercito di Myanmar (noto come Tatmadaw) e da vari gruppi armati (supportati, sostenuti o quanto meno tollerati dallo Stato) contro il gruppo etnico musulmano dei Rohingya, il Gambia ha chiesto l’accertamento della violazione degli articoli I, III, IV, V e VI della Convenzione suddetta e la conseguente condanna di Myanmar alla cessazione dell’illecito, alla punizione dei colpevoli, alla riparazione dei danni nei confronti delle vittime e alla prestazione di adeguate garanzie di non ripetizione.

L’ordinanza, adottata all’unanimità (con due opinioni separate, l’una della Vice-Presidente Xue e l’altra del giudice Cançado Trindade) contiene spunti interessanti, che probabilmente incideranno sulla prosecuzione del giudizio.

In questo breve scritto esamineremo la questione tanto sotto il profilo sostanziale, quanto sotto quello procedurale.

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Con una decisione di qualche giorno fa, il Tribunale di Roma ha ordinato a Facebook di riattivare le pagine della «Associazione di promozione sociale CasaPound Italia» e del suo amministratore, Davide Di Stefano, oscurate lo scorso settembre (per un commento a caldo, v. R. Bin su laCostituzione.info).

L’ordinanza, pronunciata in sede cautelare, avverso la quale è già stato annunciato reclamo da parte del social network, presenta molteplici profili di interesse, non solo per l’inquadramento del servizio prestato dalle piattaforme social, ma anche per le considerazioni relative ai discorsi d’odio (cd. hate speech) e al pluralismo politico.

Il giudice della cautela riconosce la natura contrattuale del rapporto che l’utente intrattiene con la piattaforma e dei relativi obblighi, risultanti dalle condizioni generali del contratto (c.d. condizioni di uso) che il primo si impegna a rispettare al momento della registrazione. Tra queste ultime, ricoprono una posizione peculiare i cd. Standard della Community, volti a limitare le opinioni inneggianti all’odio, e cioè, ai sensi dello Standard n. 13, i «discors[i] violent[i] o disumanizzant[i]», «dirett[i] alle persone sulla base di aspetti tutelati a norma di legge, quali razza, etnia, nazionalità di origine, religione, orientamento sessuale, casta, sesso, genere o identità di genere e disabilità o malattie gravi».

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1. Secondo Corrado Caruso, la decisione resa dal Tribunale civile di Roma (sezione specializzata per l’impresa) il 12 dicembre scorso, in sede cautelare, nella controversia fra Facebook e CasaPound sarebbe da considerarsi conforme all’assetto costituzionale della libertà di manifestazione del pensiero e dei suoi limiti. Ingiungendo a Facebook di riattivare il profilo dell’associazione (disattivato in settembre, perché ritenuto non conforme agli Standard del “social network”, concernenti organizzazioni che incitano all’odio), il giudice avrebbe correttamente dato attuazione al principio del pluralismo politico, ricavabile dall’articolo 21 della Costituzione. Quest’ultimo, infatti, al pari di tutti i principi costituzionali, non solo vincola organi pubblici, ma dispiega i suoi effetti anche nei confronti di privati (Drittwirkung), per di più quando si tratti di privati che forniscano un servizio di rilievo pubblico – qual è Facebook – ed indipendentemente dalla natura privatistica dei rapporti ai quali l’erogazione di tale servizio si ricollega. Non ricorrendo, inoltre, con riferimento a CasaPound e alle sue attività, né l’ipotesi della ricostituzione del disciolto partito fascista, né quella dell’apologia di fascismo, nessun altro limite potrebbe ritenersi derivante, in relazione alla libera esplicazione di queste attività dall’ordinamento italiano. In assenza di altri specifici divieti di natura penale, violati dall’associazione in questione, neppure la stessa, “generica” contrarietà alla Costituzione degli obbiettivi politici da essa perseguiti potrebbe considerarsi, infine, come un motivo legittimo di limitazione del fondamentale diritto a partecipare al dibattito politico, (anche) mediante l’accesso al servizio forniti da Facebook.

Qui di seguito vorremmo verificare se analoghe conclusioni siano effettivamente sostenibili, anche alla luce di una sintetica considerazione del quadro normativo internazionale ed europeo rilevante (2), nonché di un approfondimento della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, concernente sia l’ipotesi dell’abuso di diritti previsti dalla Convenzione europea, che la libertà di espressione (3).

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Lo scorso 4 dicembre è entrato in vigore il regolamento (UE) 2019/1896 del 13 novembre 2019, relativo alla guardia di frontiera e costiera europea. Il nuovo statuto dell’Agenzia della guardia di frontiera e costiera europea (Frontex) è frutto di un iter legislativo “lampo”, che prende le mosse dalla proposta della Commissione del 12 settembre 2018, elaborata a partire dalle conclusioni del Consiglio europeo del 28 giugno 2018 (su cui v. Di Filippo, in questo blog). In quelle conclusioni si auspicava, tra l’altro, il rafforzamento del mandato e delle risorse dell’Agenzia, inteso ad assicurare un controllo efficace delle frontiere esterne e l’effettivo rimpatrio dei migranti irregolari, anche per mezzo dell’intensificazione della cooperazione con i paesi terzi.

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Nella recente sentenza Haqbin, la Corte di giustizia (GS) si è pronunciata per la prima volta sulla portata dell’articolo 20(4) della Direttiva accoglienza, relativo al potere degli Stati membri di adottare sanzioni nei confronti di richiedenti protezione internazionale che si siano resi responsabili di “gravi violazioni delle regole del centro di accoglienza” presso cui si trovano.

Il rinvio pregiudiziale ha avuto origine da una controversia tra Zubair Haqbin, di cittadinanza afgana, richiedente protezione internazionale in Belgio in qualità di minore non accompagnato e la Fedasil, vale a dire l’agenzia federale belga per l’accoglienza dei richiedenti asilo. A seguito di reiterati comportamenti aggressivi e particolarmente violenti posti in essere da Haqbin nel centro di accoglienza in cui era stato collocato, le autorità belghe hanno adottato nei suoi confronti una sanzione disciplinare, implicante l’esclusione temporanea del minore dal centro di accoglienza e da tutti i servizi ad esso associati e la cessazione dell’assistenza medica, sociale e psicologica. Avverso tali provvedimenti, il tutore di Haqbin ha proposto ricorso al fine di ottenere la sospensione del provvedimento di esclusione e il risarcimento del danno subito, sostenendo che, durante il periodo di esclusione temporanea dal centro di accoglienza, la Fedasil avrebbe comunque dovuto assicurare accoglienza e garantire il rispetto della dignità umana del richiedente, costretto a trascorrere le notti in un parco o a trovare riparo presso conoscenti, fino al successivo inserimento in un altro centro di accoglienza. A fronte del respingimento delle istanze per assenza di estrema urgenza e per mancata evidenza del danno subìto, il tutore ha proposto appello e il giudice del rinvio ha sollevato dinnanzi alla Corte tre questioni pregiudiziali inerenti al problema della compatibilità dell’applicazione del regime di restrizione o revoca del beneficio delle condizioni materiali di accoglienza con la tutela dei diritti fondamentali dei richiedenti protezione internazionale, in considerazione soprattutto della condizione di particolare vulnerabilità del richiedente nel caso di specie, in quanto minore non accompagnato. Più in generale, il problema di fondo, che evoca peraltro, seppur in un diverso contesto, la giurisprudenza in tema di cause di revoca e diniego dello status di rifugiato (in proposito B.D., H.T., Lounani e, più recentemente, M.X.X.) risiede essenzialmente nella ricerca di un equilibrio delicato per comporre e contenere la tensione costante tra l’esigenza di assicurare il rispetto delle norme preordinate, nello Stato di accoglienza, a preservare sicurezza e ordine pubblico, esigenza peraltro intimamente connessa con la natura umanitaria e pacifica del concetto di asilo, e la necessità di garantire in ogni circostanza il rispetto dei diritti fondamentali dei richiedenti protezione (UNHCR, Note on the Exclusion Clauses).

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