diritto dell’Unione europea
La libertà di espressione e le norme internazionali, ed europee, prese sul serio: sempre su CasaPound c. Facebook
1. Secondo Corrado Caruso, la decisione resa dal Tribunale civile di Roma (sezione specializzata per l’impresa) il 12 dicembre scorso, in sede cautelare, nella controversia fra Facebook e CasaPound sarebbe da considerarsi conforme all’assetto costituzionale della libertà di manifestazione del pensiero e dei suoi limiti. Ingiungendo a Facebook di riattivare il profilo dell’associazione (disattivato in settembre, perché ritenuto non conforme agli Standard del “social network”, concernenti organizzazioni che incitano all’odio), il giudice avrebbe correttamente dato attuazione al principio del pluralismo politico, ricavabile dall’articolo 21 della Costituzione. Quest’ultimo, infatti, al pari di tutti i principi costituzionali, non solo vincola organi pubblici, ma dispiega i suoi effetti anche nei confronti di privati (Drittwirkung), per di più quando si tratti di privati che forniscano un servizio di rilievo pubblico – qual è Facebook – ed indipendentemente dalla natura privatistica dei rapporti ai quali l’erogazione di tale servizio si ricollega. Non ricorrendo, inoltre, con riferimento a CasaPound e alle sue attività, né l’ipotesi della ricostituzione del disciolto partito fascista, né quella dell’apologia di fascismo, nessun altro limite potrebbe ritenersi derivante, in relazione alla libera esplicazione di queste attività dall’ordinamento italiano. In assenza di altri specifici divieti di natura penale, violati dall’associazione in questione, neppure la stessa, “generica” contrarietà alla Costituzione degli obbiettivi politici da essa perseguiti potrebbe considerarsi, infine, come un motivo legittimo di limitazione del fondamentale diritto a partecipare al dibattito politico, (anche) mediante l’accesso al servizio forniti da Facebook.
Qui di seguito vorremmo verificare se analoghe conclusioni siano effettivamente sostenibili, anche alla luce di una sintetica considerazione del quadro normativo internazionale ed europeo rilevante (2), nonché di un approfondimento della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, concernente sia l’ipotesi dell’abuso di diritti previsti dalla Convenzione europea, che la libertà di espressione (3).
IL REGOLAMENTO (UE) 2019/1896 RELATIVO ALLA RIFORMA DI FRONTEX E DELLA GUARDIA DI FRONTIERA E COSTIERA EUROPEA: DA “FIRE BRIGADE” AD AMMINISTRAZIONE EUROPEA INTEGRATA?
Lo scorso 4 dicembre è entrato in vigore il regolamento (UE) 2019/1896 del 13 novembre 2019, relativo alla guardia di frontiera e costiera europea. Il nuovo statuto dell’Agenzia della guardia di frontiera e costiera europea (Frontex) è frutto di un iter legislativo “lampo”, che prende le mosse dalla proposta della Commissione del 12 settembre 2018, elaborata a partire dalle conclusioni del Consiglio europeo del 28 giugno 2018 (su cui v. Di Filippo, in questo blog). In quelle conclusioni si auspicava, tra l’altro, il rafforzamento del mandato e delle risorse dell’Agenzia, inteso ad assicurare un controllo efficace delle frontiere esterne e l’effettivo rimpatrio dei migranti irregolari, anche per mezzo dell’intensificazione della cooperazione con i paesi terzi.
REVOCA DELLE CONDIZIONI MATERIALI DI ACCOGLIENZA E MINORI RICHIEDENTI PROTEZIONE: L’ORIENTAMENTO DELLA CORTE DI GIUSTIZIA NEL CASO HAQBIN
Nella recente sentenza Haqbin, la Corte di giustizia (GS) si è pronunciata per la prima volta sulla portata dell’articolo 20(4) della Direttiva accoglienza, relativo al potere degli Stati membri di adottare sanzioni nei confronti di richiedenti protezione internazionale che si siano resi responsabili di “gravi violazioni delle regole del centro di accoglienza” presso cui si trovano.
Il rinvio pregiudiziale ha avuto origine da una controversia tra Zubair Haqbin, di cittadinanza afgana, richiedente protezione internazionale in Belgio in qualità di minore non accompagnato e la Fedasil, vale a dire l’agenzia federale belga per l’accoglienza dei richiedenti asilo. A seguito di reiterati comportamenti aggressivi e particolarmente violenti posti in essere da Haqbin nel centro di accoglienza in cui era stato collocato, le autorità belghe hanno adottato nei suoi confronti una sanzione disciplinare, implicante l’esclusione temporanea del minore dal centro di accoglienza e da tutti i servizi ad esso associati e la cessazione dell’assistenza medica, sociale e psicologica. Avverso tali provvedimenti, il tutore di Haqbin ha proposto ricorso al fine di ottenere la sospensione del provvedimento di esclusione e il risarcimento del danno subito, sostenendo che, durante il periodo di esclusione temporanea dal centro di accoglienza, la Fedasil avrebbe comunque dovuto assicurare accoglienza e garantire il rispetto della dignità umana del richiedente, costretto a trascorrere le notti in un parco o a trovare riparo presso conoscenti, fino al successivo inserimento in un altro centro di accoglienza. A fronte del respingimento delle istanze per assenza di estrema urgenza e per mancata evidenza del danno subìto, il tutore ha proposto appello e il giudice del rinvio ha sollevato dinnanzi alla Corte tre questioni pregiudiziali inerenti al problema della compatibilità dell’applicazione del regime di restrizione o revoca del beneficio delle condizioni materiali di accoglienza con la tutela dei diritti fondamentali dei richiedenti protezione internazionale, in considerazione soprattutto della condizione di particolare vulnerabilità del richiedente nel caso di specie, in quanto minore non accompagnato. Più in generale, il problema di fondo, che evoca peraltro, seppur in un diverso contesto, la giurisprudenza in tema di cause di revoca e diniego dello status di rifugiato (in proposito B.D., H.T., Lounani e, più recentemente, M.X.X.) risiede essenzialmente nella ricerca di un equilibrio delicato per comporre e contenere la tensione costante tra l’esigenza di assicurare il rispetto delle norme preordinate, nello Stato di accoglienza, a preservare sicurezza e ordine pubblico, esigenza peraltro intimamente connessa con la natura umanitaria e pacifica del concetto di asilo, e la necessità di garantire in ogni circostanza il rispetto dei diritti fondamentali dei richiedenti protezione (UNHCR, Note on the Exclusion Clauses).
FORGET ME…OR NOT? LA CORTE DI GIUSTIZIA TORNA SUL DIRITTO DI FARSI DIMENTICARE. PRIMA LETTURA DI DUE RECENTI PRONUNCE SUL «DIRITTO ALL’OBLIO»
Il 24 settembre 2019, con due sentenze emesse nei casi C-136/17, GC e altri c. Commission nationale de l’informatique et des libertés (CNIL) e C-507/17, Google LLC c. Commission nationale de l’informatique et des libertés (CNIL), la Corte di giustizia è tornata a pronunciarsi sul «diritto all’oblio», a oltre cinque anni di distanza dalla sentenza Google Spain del 13 maggio 2014 (C-131/12), con la quale, in buona sostanza, la Corte aveva stabilito che, in seguito a specifica richiesta di cancellazione da parte degli interessati, i gestori dei motori di ricerca sono obbligati a eliminare dall’elenco dei risultati di ricerca i link verso pagine web, pubblicate da terzi, contenenti informazioni sugli interessati, anche qualora tali informazioni non vengano o non possano essere cancellate dalle stesse pagine web (sul caso v. il contributo su SIDIBlog di Natoli, oltre ai commenti, tra gli innumerevoli comparsi in dottrina, di Lynskey, Crowther, Valvo, Castellaneta, Kranenborg,Spiecker, Stute).
Le due pronunce sono state anticipate dalle conclusioni dell’Avvocato generale Szpunar, pubblicate per entrambi i casi il 10 gennaio 2019 (v. qui e qui).
L’ASSASSINO È IL MAGGIORDOMO? PRIMI RILIEVI SULLE CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE NEL GIUDIZIO DI INFRAZIONE CONTRO POLONIA, UNGHERIA E REPUBBLICA CECA IN MATERIA DI RICOLLOCAZIONI
Il 31 ottobre 2019 l’Avvocato generale Eleanor Sharpston ha reso le proprie conclusioni nelle cause attivate dalla Commissione europea ai fini dell’accertamento delle presunte violazioni commesse da Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca rispetto a obblighi di ricollocazione di richiedenti asilo derivanti dalla decisione (UE) 2015/1601 (C-715/17, C-718/17, C-719/17). Come prevedibile, l’Avvocato generale ha ravvisato la sussistenza dei profili di responsabilità individuati dalla Commissione. Tuttavia, vuoi per l’originalità dell’oggetto, vuoi per il delicato contesto di riferimento, le conclusioni dell’Avvocato Sharpston meritano di essere analizzate già prima della sentenza che la Corte di giustizia pronuncerà a breve. Prima di addentrarsi nei contenuti dell’opinione è però opportuno ripercorrere, benché per sommi capi, gli eventi più significativi che hanno indotto la Commissione ad attivare la procedura prevista dall’art. 258 TFUE.
KNOCK ON WOOD. IL CONTENZIOSO UE/UCRAINA SUL DIVIETO DI ESPORTAZIONE DI LEGNAME TRA TUTELA AMBIENTALE E LIBERA CIRCOLAZIONE DELLE MERCI
Il 20 giugno 2019 l’Unione europea, constatata l’impossibilità di giungere a una soluzione mutuamente accettabile mediante la fase conciliativa già avviata il 15 gennaio 2019, ha attivato per la prima volta la fase contenziosa del sistema di soluzione delle controversie contemplato nell’Accordo di associazione con l’Ucraina e chiesto, quindi, la costituzione di un panel di esperti volto a verificare la compatibilità, con l’Accordo stesso, delle misure di restrizione all’esportazione di varie tipologie di legname non trattato adottate dalla controparte.
Il lato positivo: Commissione c. Polonia e l’inizio di una fase per la tutela dello stato di diritto nell’Unione Europea
Per un lungo periodo, le risposte dell’Unione europea alle cosiddette ‘crisi costituzionali’ sono state generalmente considerate insufficienti e inefficaci: le istituzioni non hanno saputo trovare risposte adeguate al consolidamento del potere nelle mani di Viktor Orban e Fidesz in Ungheria e alla ‘cattura’ dell’ordinamento giudiziario polacco da parte della maggioranza di governo. Solo negli ultimi mesi, con l’attivazione delle procedure dell’articolo 7(1) TUE, prima da parte della Commissione, nei confronti della Polonia, e poi da parte del Parlamento europeo, nei confronti dell’Ungheria, l’Unione ha finalmente dimostrato la volontà di prendere una posizione più decisa; ma anche queste iniziative hanno avuto un peso più significativo sul piano simbolico che su quello concreto, e non hanno prodotto un cambiamento sostanziale delle politiche dei due Stati membri.
Ci sono però finalmente notizie positive. La recente decisione della Corte di Giustizia nella procedura di infrazione riguardante parte delle riforme del sistema della Corte Suprema polacca dimostra come l’Unione europea possa essere incisiva, qualora agisca in modo deciso, puntuale e ben coordinato, sfruttando al pieno le possibilità previste dai Trattati, come già accaduto della pronuncia della Corte sul caso delle ‘foreste polacche’ e nelle due ordinanze cautelari che hanno preceduto la decisione finale nel caso della Corte Suprema. Nella sentenza del 24 giugno 2019, la Corte di Giustizia ha riscontrato una violazione dell’articolo 19 TUE rispetto a entrambi i profili contestati dalla Commissione: da un lato, la Corte ha concluso che la decisione di ridurre l’età pensionabile dei giudici della Corte Suprema lede il principio dell’inamovibilità del giudice; dall’altro, la facoltà accordata al Presidente della Repubblica di concedere ai giudici di continuare il loro mandato viola l’aspetto ‘esterno’ del principio di indipendenza dei giudici (sulla distinzione tra l’aspetto esterno e quello interno, si veda il caso Wilson).
L’intervento della Commissione e della Corte nel caso della Corte Suprema polacca, come si vedrà, ha già prodotto risultati concreti, e una serie di altre procedure già aperte offriranno nuove opportunità di tutelare lo stato di diritto in Polonia e nell’Unione. La nuova giurisprudenza sull’articolo 19 TUE, se inquadrata nel quadro complessivo dei recenti sforzi compiuti dalle istituzioni europee, potrebbe quindi segnare l’inizio di una nuova, più positiva, fase di tutela dei valori fondamentali europei.
“IMPERATIVITÀ” DELLA NORMA DI CONFLITTO UE E PRINCIPIO DISPOSITIVO NEL PROCESSO CIVILE ITALIANO
Le norme sui conflitti di leggi adottate dall’UE sulla base dell’art. 81, par. 2, lett. c, Tratt. FUE mirano fondamentalmente a far sì che un rapporto giuridico sia disciplinato dalla medesima legge quale che sia lo Stato membro dal cui punto di vista esso viene osservato. Tale obiettivo rischia di non essere soddisfatto allorché le norme in questione ricevano negli Stati membri un’applicazione non uniforme. Accresce questo rischio il fatto che le norme di conflitto, quando sono evocate nel quadro di un processo, possono subire l’influenza delle regole processuali del foro: regole di fonte interna, che variano talora in modo molto marcato da uno Stato membro a un altro.
Lo sfuggente articolo 3, paragrafo 3, del regolamento Roma I: tra autonomia delle parti e salvaguardia degli interessi statali
Il regolamento n. 593/2008 (c.d. Roma I), che disciplina la legge applicabile alle obbligazioni contrattuali nei processi celebrati dinnanzi ai giudici degli Stati dell’Unione europea, si fonda sul principio dell’autonomia delle parti. Quest’ultimo, secondo quanto affermato nel considerando 11 del regolamento stesso, è la «pietra angolare» del sistema europeo dei conflitti di leggi. Conferma di quanto appena detto è data dal fatto che il regolamento consente che due soggetti aventi la medesima nazionalità possano decidere che un contratto relativo a una situazione interamente interna a uno Stato sia disciplinato da un diritto straniero. Ciò perché, nel mondo degli scambi commerciali, sovente accade che un sistema giuridico sia percepito come particolarmente sviluppato nella regolamentazione di un dato tipo di rapporti (si pensi, ad es., al diritto inglese con riguardo alle materie della navigazione o dei mercati finanziari).
Ciononostante, il legislatore europeo ha comunque voluto astrattamente scongiurare il rischio che la scelta di un diritto straniero in situazioni puramente interne possa avvenire al solo scopo di eludere l’applicazione di alcune norme inderogabili dell’ordinamento giuridico che sarebbero state altrimenti applicabili al caso di specie. Con una disposizione di carattere generale, dunque, l’art. 3, par. 3, del regolamento Roma I introduce una limitazione al principio di autonomia delle parti, sancendo che «[q]ualora tutti gli altri elementi pertinenti alla situazione siano ubicati, nel momento in cui si opera la scelta, in un paese diverso da quello la cui legge è stata scelta, la scelta effettuata dalle parti fa salva l’applicazione delle disposizioni alle quali la legge di tale diverso paese non permette di derogare convenzionalmente».
Rotari, Montesquieu e la “conversione” del c.d. Decreto Salvini: note sul permesso di soggiorno per cure mediche
1. Non si può dire che la disciplina dell’ingresso, soggiorno e allontanamento dello straniero rispetto al territorio italiano non sia bisognosa di urgente riordino: frutto della stratificazione alluvionale di normative dettate da ragioni occasionali, spesso solo propagandistiche; ulteriormente confusa dall’adozione di atti di adattamento a direttive europee inserite come corpi estranei in un sistema con esse non coordinato, tale materia appare oggi come un groviglio di norme disordinato e spesso incoerente. Si potrebbe pertanto comprendere la fretta di intervenire da parte dell’attuale governo, a costo di forzare un po’ i presupposti del ricorso allo strumento del decreto legge (suscitando i rilievi critici dei costituzionalisti per i quali v. qui). Appare tuttavia assolutamente inadeguata, e anzi controproducente, la tecnica legislativa adottata e del tutto illusoria la ratioche la supporta.