Stickydiritto dell'Unione europeaDiritto penale internazionale

Come proteggere la Corte penale internazionale dalle sanzioni statunitensi: la possibilità per l’Unione europea di ricorrere al regolamento di blocco 

Monica Spatti (Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano)

1. Introduzione

Lo scorso 6 febbraio, il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha firmato un ordine esecutivo che impone sanzioni a carico della Corte penale internazionale (CPI), dei suoi giudici e funzionari, dei loro stretti familiari, nonché di tutti coloro i quali con essa collaborano. Le sanzioni vanno dal divieto di ingresso nel territorio statunitense, al blocco dei beni delle persone indicate dallo stesso Presidente (l’Allegato menziona l’attuale Procuratore della Corte, Karim Khan) e che potranno essere in futuro individuate dal Segretario di Stato. 

Come spesso accade, le sanzioni statunitensi hanno la capacità di imporsi non solo sui soggetti stabiliti negli Stati Uniti (cd. sanzioni primarie), ma anche sui soggetti situati in altri Paesi (cd. sanzioni secondarie), finendo così per avere effetti extraterritoriali (sul punto v. Viterbo, p. 371 ss.). Le sanzioni secondarie, la cui legittimità sul piano internazionale è fortemente dubbia (v. Sossai, p. 70 s.; Beaucillon, p. 23; Ruys e Ryngaert, p. 16 ss.), hanno il chiaro obiettivo di forzare gli operatori commerciali stabiliti al di fuori degli USA a scegliere tra interrompere le relazioni commerciali con i soggetti colpiti dalle sanzioni o rinunciare ad accedere al mercato statunitense. Per tale ragione, volendo esemplificare, le istituzioni finanziarie potrebbero rifiutarsi di collaborare con la CPI per timore di ritorsioni da parte degli Stati Uniti, impedendone così l’accesso ai servizi bancari essenziali. Analogamente, le aziende che forniscono servizi informatici e tecnologici fondamentali per la raccolta e la gestione delle prove potrebbero decidere di interrompere ogni rapporto con la Corte, privandola di strumenti essenziali per il suo operato. Le sanzioni statunitensi hanno, dunque, la capacità di compromettere gravemente il funzionamento della Corte. 

Le sanzioni sono una risposta alle indagini della CPI su presunti crimini che coinvolgono personale statunitense e organi di vertice di alcuni paesi alleati, tra cui Israele; indagini che l’amministrazione Trump considera prive di una base legittima. Non è la prima volta che gli Stati Uniti adottano sanzioni nei confronti della Corte. Già durante la precedente amministrazione, nel giugno 2020, il Presidente Trump aveva adottato un analogo ordine esecutivo che imponeva sanzioni economiche e restrizioni di viaggio nei confronti della Procuratrice, Fatou Bensouda, e di altri funzionari della Corte. Allora il provvedimento era stato adottato in reazione all’apertura delle indagini della procuratrice per i gravi crimini commessi in Afghanistan, che potevano coinvolgere anche militari statunitensi e agenti della CIA (in argomento v. Meloni).

La recente decisione ha suscitato un’ondata di dissenso a livello globale. In particolare, 79 Stati parti dello Statuto di Roma hanno rilasciato una dichiarazione congiunta riaffermando il loro «continued and unwavering support for the independence, impartiality, and integrity of the ICC», evidenziando come le sanzioni siano in grado di paralizzare l’attività della Corte, aumentando il rischio di impunità per crimini gravi, minando lo stato di diritto e compromettendo la sicurezza globale. Anche sul versante europeo le reazioni non si sono fatte attendere: la Presidente della Commissione, Ursula Von der Leyen, l’Alta rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Kaja Kallas, così come il Presidente del Consiglio europeo, Antonio Costa, hanno prontamente rilasciato dichiarazioni di sostegno all’attività della Corte (v. quiqui e qui). 

C’è da chiedersi cosa concretamente l’Unione europea possa fare per dare consistenza a queste parole. La Presidente della Corte penale internazionale, la giudice Tomoko Akane, in visita a Bruxelles – insieme al primo Vice-Presidente, il giudice Rosario Salvatore Aitala –, dopo aver espresso apprezzamento per il supporto dell’Unione europea alla Corte, ha esortato l’Unione a prendere misure concrete e rapide per proteggere la Corte; tra queste, è stato invocato il cd. regolamento di blocco (v. qui). Analogamente, anche alcuni euro-parlamentari hanno sollecitato la Commissione a verificare la possibilità di estendere l’applicazione di questo regolamento a salvaguardia della Corte (v. qui).

Il presente contributo mira, dunque, a verificare se lo strumento di blocco, introdotto con il regolamento del Consiglio (CE) n. 2271/96, per arginare gli effetti extraterritoriali delle sanzioni secondarie imposte da Stati terzi, possa rivelarsi uno strumento efficace per preservare l’attività della Corte, proteggere i suoi funzionari e gli operatori europei che con essa collaborano. A tal fine si intende anzitutto individuare sommariamente gli aspetti chiave del regolamento (par. 2), per poi appurare le sfide dell’eventuale applicazione dello strumento al caso di specie (par. 3).

2. Ratio e contenuto del regolamento di blocco

Il regolamento n. 2271/96 è stato adottato in risposta alle disposizioni statunitensi che nel 1996 avevano imposto sanzioni nei confronti di Cuba, Iran e Libia, impedendo di effettuare transazioni commerciali da e verso quei Paesi, pena il pagamento di sanzioni pecuniare elevatissime o, addirittura, la privazione della libertà personale. L’atto è stato poi modificato una prima volta con il regolamento (UE) n. 37/2014 al fine di adeguare alcune disposizioni al nuovo quadro di diritto primario introdotto con il Trattato di Lisbona, e una seconda volta con il regolamento delegato (UE) 2018/1100 della Commissione, con cui, in particolare, è stato aggiornato l’Allegato, al fine di tenere conto delle sanzioni adottate dagli USA contro l’Iran nel 2012. L’Allegato elenca gli atti legislativi e i regolamenti statunitensi nei confronti dei quali trova applicazione il regolamento di blocco, precisando per ciascuno i potenziali pregiudizi per gli interessi dell’Unione.

Il regolamento di blocco è motivato dal fatto che l’Unione europea considera le sanzioni aventi effetti extraterritoriali come contrarie al diritto internazionale (v. considerando 3 del regolamento in oggetto; relazione della Commissione relativa all’art. 7, lett. a, del regolamento) e come ostacoli alla realizzazione degli obiettivi che la Comunità, ora Unione, si pone. Esso menziona, in particolare: lo sviluppo armonioso del commercio internazionale, la graduale soppressione alle restrizioni agli scambi internazionali, nonché la circolazione di capitali tra Stati membri e paesi terzi e l’eliminazione delle restrizioni agli investimenti. Al fine di mitigare gli effetti extraterritoriali delle sanzioni USA, il regolamento di blocco impone, dunque, alle persone fisiche e giuridiche stabilite nell’Unione di non dare seguito agli atti normativi extraterritoriali statunitensi elencati nell’Allegato, così come a decisioni, sentenze o lodi arbitrali su questi fondati (artt. 5, comma 1 e 11). 

Il regolamento di blocco mira al contempo a proteggere gli operatori economici europei, prevedendo delle forme di tutela a loro favore: anzitutto, un diritto al risarcimento del danno per chi, nel dare attuazione al regolamento europeo, subisca un pregiudizio (art. 6); nonché la possibilità di ottenere un’esenzione nel caso in cui l’inosservanza delle sanzioni statunitensi provochi un danno grave agli interessi dell’operatore economico o dell’Unione stessa (art. 5, comma 2). È prevista anche la possibilità di sanzionare chi non dovesse ad esso adeguarsi. Spetta agli Stati membri il compito di determinare se vi è stata una violazione del regolamento di blocco e che tipo di sanzione eventualmente applicare; il regolamento si limita a stabilire che deve trattarsi di sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive (art. 9). Gli Stati membri hanno un ruolo fondamentale nel concedere eventuali autorizzazioni di deroga al regolamento di blocco: per quanto la decisione spetti alla Commissione, essa deve prima ottenere l’approvazione degli Stati membri rappresentati in un apposito Comitato che assiste la Commissione (art. 7, lett. b, e art. 8).

3. Gli ostacoli all’uso del regolamento di blocco per mitigare gli effetti delle sanzioni contro la CPI

Allo stato attuale il regolamento di blocco non può essere applicato nei confronti delle sanzioni USA contro la Corte penale internazionale. Perché ciò avvenga è necessaria una modifica dell’Allegato del regolamento, finalizzata ad aggiungervi le disposizioni statunitensi che sanzionano la Corte. L’art. 1, comma 2, attribuisce questo potere alla Commissione secondo le condizioni di cui all’art. 11 bis. In particolare, la Commissione può adottare un atto delegato, che deve essere contestualmente notificato al Parlamento europeo e al Consiglio (par. 4). Esso entra in vigore entro due mesi dalla notifica, a meno che uno dei due suddetti organi sollevi un’obiezione (par. 5). Non è scontato che tale modifica possa effettivamente essere introdotta, dal momento che il Consiglio potrebbe avvalersi del proprio potere di opposizione: più di uno Stato membro, infatti, non sembra intenzionato a sostenere la Corte come ci si aspetterebbe. È indicativo, in tal senso, che non tutti gli Stati membri dell’Unione europea abbiano sottoscritto la dichiarazione congiunta di sostegno alla CPI adottata all’indomani dell’introduzione delle sanzioni statunitensi: Italia, Repubblica Ceca e Ungheria non figurano tra i firmatari. Quest’ultima, in particolare, ha assunto una posizione apertamente critica nei confronti della Corte: il Primo Ministro ungherese, Viktor Orbán ha infatti affermato che «it is time for Hungary to reassess its position in an international organization that is under US sanctions», paventando così – e non è la prima volta – la possibilità che l’Ungheria lasci la Corte (v. qui).

Aldilà del dibattito sugli ostacoli politici, occorre segnalare come finora l’applicazione del regolamento di blocco abbia fatto emergere alcuni problemi strutturali, di cui anche la Commissione è pienamente consapevole, tanto che nel 2021 aveva iniziato un processo di revisione dello strumento (v. Commission staff working document, SWD(2021) 371 final, p. 6) prospettando una proposta di modifica nella seconda metà del 2022, che però non è stata presentata.

Uno dei principali problemi del regolamento risiede nella limitata capacità di proteggere gli operatori economici europei. La stessa comunità imprenditoriale europea, che ha risposto alla consultazione della Commissione nell’ambito della procedura di revisione dell’atto, ha denunciato la mancanza di protezione per le aziende europee che si sono trovate nel mezzo del fuoco incrociato tra USA e UE (v. Summary report of the open public consultation on the review of the Blocking Statute, p. 2), soprattutto per quanto riguarda il settore bancario che pare essere quello più colpito. Il principale strumento che il regolamento ha concepito per proteggere gli operatori europei, ossia la possibilità di ottenere una riparazione dei danni subiti, non ha funzionato adeguatamente (v. Svetlicinii, p. 604). L’art. 6 prevede che il risarcimento debba essere ottenuto dalla persona o dall’ente che ha causato il danno, e può avvenire anche attraverso il sequestro e la vendita dei beni di tale soggetto. Chiaramente ciò può funzionare se si tratta di un partner commerciale contro cui è possibile promuovere un’azione giudiziaria davanti a un tribunale per ottenere le suddette forme di riparazione. Questo meccanismo di riparazione non può invece funzionare rispetto alle autorità statunitensi che non possono essere chiamate in giudizio, stante il principio di immunità dello Stato (v. Cellerino, p. 566; Ruys e Ryngaert, p. 95 ss.).

L’evidenza empirica mostra che, in numerosi casi, le aziende europee hanno preferito dare seguito alle sanzioni USA, interrompendo le relazioni commerciali con i soggetti destinatari delle sanzioni. Tale comportamento sembra riflettere un timore maggiore per le possibili ritorsioni da parte degli Stati Uniti rispetto a quelle europee, verosimilmente in ragione del carattere più stringente e incisivo delle sanzioni americane (v. Lionello, p. 496 ss.; Ruys e Ryngaert, p. 92). A questo riguardo si segnala, infatti, la scarsa attitudine degli Stati membri a penalizzare le loro imprese che non si adeguano al regolamento (v. K. Meloni, p. 504; Svetlicinii, p. 600 ss.). Tanto che alcuni non si sono neppure dotati di una legislazione volta a stabilire penalità per le violazioni del regolamento di blocco (v. Jennison, p. 185).

Un ulteriore profilo del regolamento che sembra non operare in modo pienamente efficace riguarda l’obbligo di notifica previsto dall’art. 2. Il meccanismo attuale prevede che siano gli stessi operatori economici, qualora ritengano di essere lesi da una sanzione statunitense, a doverne dare comunicazione alla Commissione. Tuttavia, a seguito di tale notifica gli l’operatori non ricevono alcuna indicazione circa l’eventuale riconducibilità della propria situazione all’ambito di applicazione delle sanzioni statunitensi. La Commissione ha, infatti, chiarito che la segnalazione non deve servire a ottenere un parere (v. nota di orientamento, punto 16). L’unica conseguenza della notifica è che la Commissione a sua volta informerà le autorità statali competenti che potranno così inserire l’operatore economico nella lista di controllo nazionale. Con questa auto-segnalazione l’operatore si espone dunque a un maggior controllo (v. Ruys e Ryngaert, p. 82 s.), senza peraltro avere la sicurezza di un adeguato meccanismo di risarcimento del danno. Come rilevato dallo Special Rapporteur on the negative impact of unilateral coercive measures on the enjoyment of human rightsdell’ONU, le imprese europee hanno più spesso preferito non ricorrere al sistema di rimedi predisposti dal regolamento di blocco, optando più frequentemente per un accordo transattivo con le autorità statunitensi (v. qui, par. 54).

4. Considerazioni conclusive

Non è dato sapere se il ricorso al regolamento di blocco sia effettivamente al vaglio delle istituzioni europee. È probabile che lo sia perché il governo olandese ne ha chiesto l’attivazione (v. qui). Sulla base dell’Accordo di sede i Paesi Bassi hanno la responsabilità di garantire l’indipendenza operativa della Corte e dunque, l’obbligo di collaborare con essa a tal fine. Pertanto, non possono permettere che le banche olandesi interrompano la collaborazione con la CPI. Il ministro della giustizia olandese a questo proposito ha dichiarato che i Paesi Bassi non sono in grado di proteggere da soli le banche, ed è dunque necessario un intervento a livello europeo.

La Commissione europea, sollecitata in merito dell’applicazione del regolamento di blocco da alcuni europarlamentari – per mezzo di un’interrogazione prioritaria con richiesta di risposta scritta –, ha dato seguito alla richiesta attraverso l’Alta rappresentante per gli affari esteri. Lo scorso 10 febbraio Kaja Kallas, dopo aver espresso la preoccupazione della Commissione per gli effetti che le sanzioni statunitensi potrebbero avere sul lavoro della CPI, ha ribadito la volontà di difendere l’azione della Corte; l’Alta rappresentante non ha però fatto menzione del regolamento di blocco, limitandosi a dire che la Commissione «is therefore carefully assessing the situation and preparing for all scenarios» (v. qui). La Commissione ha dunque optato per un atteggiamento attendista. Probabilmente si attende di vedere se oltre al Procuratore, Karim Khan, alla lista verranno aggiunti altri nomi o, forse, il tema è entrato nel calderone delle tensioni UE-USA, insieme alle questioni dei dazi e del sostegno all’Ucraina.

Si consideri che il regolamento di blocco è stato adottato con un chiaro intento deterrente: si riteneva, infatti, che potesse favorire una maggiore moderazione da parte statunitense nell’approvazione di nuove sanzioni e nell’applicazione di quelle esistenti (v. Davidson, p. 1435; Ruys e Ryngaert, p. 82 s.). Tuttavia, nell’attuale fase geopolitica risulta meno evidente che il regolamento possa ancora esercitare un’effettiva capacità deterrente. Qualora si decidesse di attivare il regolamento di blocco, sarebbe quantomeno necessario individuare forme aggiuntive di tutela per gli operatori che collaborano con la Corte. Contestualmente, potrebbe risultare opportuno limitare il numero degli operatori coinvolti; ad esempio, in ambito bancario, l’esposizione finanziaria potrebbe essere concentrata in un unico istituto. Ciò permetterebbe alla Corte di sopravvivere in attesa di tempi migliori.

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