“Tanks, a lot!”: la proposta European Defence Readiness 2030 alla luce del diritto internazionale

Luigi Sammartino, Università degli Studi di Milano
Era nell’aria da tempo, e alla fine si è concretizzato: lo scorso 28 marzo, la Commissione Europea ha pubblicato il Libro Bianco sulla spesa militare, denominato European Defence Readiness 2030 (in precedenza ReArm Europe). Nel documento, di appena 22 pagine, vengono indicati gli obiettivi della military expenditure comune ai 27 Stati membri per i prossimi 5 anni.
Molti dubbi sono stati sollevati da questo documento, non solo a livello economico e politico, ma anche giuridico (per una prima disamina, si veda Paul Dermine, Funding Europe’s Defence. A first Take on Commission’s ReArm Europe Plan, Verfassungsblog, 5 March 2025; Alberto Vecchio, The White Paper Within the Institutional Constraints: The EU Short-Term Defence Policy “Readiness 2030”, Verfassungsblog, 28 March 2025). Infatti, accanto all’assicurazione che l’aumento della spesa militare (fino al 4% del PIL) potrà beneficiare di una clausola di salvaguardia per lo sforamento del deficit di bilancio (come prevista dall’art. 26 del reg. (UE) 2024/1263), la questione diviene rilevante principalmente alla luce degli obblighi internazionali che verrebbero incisi da una simile misura, ed in particolare i principi sulla sostenibilità economica, attuale e per le future generazioni, su cui l’UE ha puntato nella precedente legislatura (qui una raccolta degli atti giuridici adottati). Inoltre, c’è da considerare se e in che misura tali misure possano incidere i limiti delineati nel diritto internazionale sulla spesa e la trasparenza sull’acquisto di armamenti.
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All’interno del Libro Bianco, molte delle questioni giuridiche rilevanti si pongono nel par. 7 del documento. Vengono qui descritti i cinque pilastri su cui si baserà l’iniziativa:
1) La creazione di un nuovo strumento finanziario dedicato. L’iniziativa è quella di proporre, in base all’art. 122 TFUE, un regolamento che disciplini l’allocazione, il prestito e la disciplina generale dei fondi reperibili tramite un nuovo strumento finanziario, il Security and Action For Europe (SAFE), che va ad affiancare altra disciplina derivata (in particolare, quelle contenuta ne reg. (UE) 2021/697 sul Fondo europeo per la difesa). Tale strumento sarà dedicato principalmente al procurement (appalto) comune per l’acquisizione e lo sviluppo di materiali d’armamento e di difesa. La condizione per poter usufruire di tale strumento è che il progetto sia predisposto tra due Stati: uno membro UE (che riceverà la dotazione finanziaria) e uno Stato eligibile tra Stati appartenenti all’European Free Trade Area (EFTA) o l’Ucraina, sulla base delle esigenze militari individuate dal Consiglio UE con deliberazione del 6 marzo 2025.
2) La possibilità di ricorrere a clausole di salvaguardia circa il deficit di bilancio. L’accesso a un simile strumento finanziario, con una dotazione di circa 150 miliardi di euro da investire ogni anno, potrebbe avere ripercussioni anche sugli obblighi inclusi nel Patto europeo di Stabilità e Crescita, relativamente al tetto massimo di deficit che uno Stato membro possa fare. In tal senso, la proposta della Commissione prevede di ricorrere alle clausole di salvaguardia per le spese militari considerevoli. Questo aspetto era stato temuto di più, dato che l’obbligo del Patto di stabilità non sembra ammettere deroghe per spese militari, e al contempo non sembra essere chiaro quali implicazioni tale sforamento possa avere sulle economie nazionali.
3) Modifiche, da parte della Banca Europea per gli Investimenti, ai criteri di eleggibilità dei programmi da finanziare. È previsto che la BEI possa allocare ulteriori risorse prevedendo un’estensione dell’ammissibilità al finanziamento per progetti concernenti la difesa comune, tramite il supporto del Piano d’Azione industriale per la sicurezza e la difesa.
4) Mobilitazione del capitale privato per supportare il finanziamento dei progetti della difesa. Questo aspetto diviene rilevante soprattutto per evitare di dipendere dagli investimenti nel settore della difesa da parte delle grandi industrie statunitensi (che finanziano per circa il 60% i vari programmi, e che ora si trovano in difficoltà sul piano della supply chain a causa dei dazi reciproci imposti dall’amministrazione Trump e dalla Commissione UE) e di quelle britanniche (la cui disciplina è sempre soggetta a quanto stabilito nell’Accordo Brexit). In tal senso, la Commissione propone una riforma anche del reg. 2019/2088 del Parlamento e Consiglio del 27 novembre 2019 relativo all’informativa sulla sostenibilità nel settore dei servizi finanziari (c.d. SFDR), dove si prevede un generico chiarimento circa la necessaria correlazione tra l’informativa societaria degli investimenti della difesa e gli obiettivi dello sviluppo sostenibile che devono essere perseguiti.
5) Prevedibilità finanziaria. La proposta, ovviamente, cercherà di considerare anche le future esigenze di finanziamento dei progetti.
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Spazio nel Libro Bianco è dedicato anche alla cooperazione internazionale. In particolare, emergono considerazioni circa la cooperazione militare e di difesa con diversi alleati, tra cui la NATO (in cui sono presenti 23 Stati membri UE), la quale ha progressivamente invitato ad aumentare la spesa militare fino al 4% del PIL (a partire dal Summit di Cardiff del 2014).
A livello bilaterale, la cooperazione interessa diversi partner commerciali e strategici dell’UE (Regno Unito, Turchia, Norvegia, gli Stati parte della European Economic Area – EEA e i candidati all’adesione all’UE, tra cui Georgia, Moldavia e Ucraina e ora anche Armenia), oltre a partner extracontinentali come Canada, Australia, Nuova Zelanda, India, Giappone e Corea del Sud. In tutti questi casi, l’impegno è quello di rafforzare il dialogo strategico e di permettere sia la partecipazione a progetti finanziati col SAFE (soprattutto nel caso di Islanda, Norvegia, Canada, Giappone e Corea del Sud), sia di aprire e rafforzare nuovi canali di commercio e investimento nel settore della difesa (aprendo quindi il mercato interno anche a concorrenti stranieri).
Diverso discorso riguarda gli USA, partner strategici tradizionali e fondamentali nel settore della difesa (come riconosciuto anche da alcuni Stati membri UE e NATO). In tale contesto, l’intenzione statunitense è stata quella di sopperire sempre meno alle esigenze militari degli Stati NATO (già palesata al Summit NATO di Bruxelles del 2018 e ribadita anche recentemente). Tuttavia, tale situazione non sembra aver minato il rinnovo e l’esecuzione dei Memoranda of Understandings in materia di reciprocal defence procurement, volti ad aprire canali di mercato bilaterali per le industrie della difesa degli Stati Uniti e degli Stati parte (tra cui anche l’Italia). In particolare, in questi accordi (e segnatamente quelli con Stati membri UE), viene comunque assicurato il rispetto della normativa comunitaria in materia di appalti della difesa (si veda l’art. II.D del MoU USA-Italia). Ciò implicherebbe che, oltre alla dir. 2009/81/UE in materia di appalti della difesa nel Mercato Interno, anche il futuro regolamento sul SAFE diverrà prevalente rispetto alla disciplina del MoU. Ma dato che non è prevista dal Libro Bianco la possibilità di accedere a simili forme di finanziamento per le imprese statunitensi, le nuove opportunità del mercato della difesa europeo rimarrebbero sostanzialmente precluse alle stesse, provocando anche un possibile effetto discriminatorio. Rimarrebbero invariati (e il Libro Bianco li menziona) il rapporto di cooperazione sulla cybersecurity, la sicurezza marittima e spaziale e le “procurement issues” da discutere, verosimilmente legate non alla fornitura di armamenti in sé, ma di parti e componenti per gli armamenti già acquisiti.
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Alla luce delle prime considerazioni, sembrano emergere alcune implicazioni dal punto di vista del diritto internazionale. Pur essendo un documento programmatico, il Libro Bianco sembra comunque invitare ad agire considerando solo alcuni obblighi giuridici internazionali, non menzionandone altri o solo implicitamente considerandoli (come nel caso dei principi sullo sviluppo sostenibile). Detto della questione degli accordi bilaterali di cooperazione sul mercato della difesa, qui è necessario comprendere anche se vi siano limiti giuridici internazionali sulla military expenditure stessa.
La questione è stata ciclicamente dibattuta a partire dai primi lavori della Società delle Nazioni. Se in un primo momento (coinciso col periodo di maggiore elaborazione normativa che ha portato, fra le altre, alla stipulazione del Protocollo sulle armi chimiche del 1925) l’idea di policy era il disarmo totale stabilita con regole internazionali (J. T. Shotwell and M. Salvin, Lessons on Security and Disarmament from the History of the League of Nations, 1949, p. 10 ss.), in un secondo momento tale impostazione è stata abbandonata in favore di un maggiore controllo sugli armamenti da parte degli Stati stessi (ribadita prima durante i lavori della Commissione sul Disarmo, poi dalla Conferenza del 1932-1937; Shotwell and Salvin, p. 31 ss.). Al contempo, la regolazione della military expenditure è stata prima vagliata come necessaria, poi lasciata alle considerazioni degli Stati in quanto espressione del domain reservé.
Successivamente, nell’ambito delle Nazioni Unite la questione è stata sollevata più volte nell’ambito dell’Assemblea Generale e durante le Sessioni speciali sul disarmo e la non proliferazione. Nella risoluzione 37/95A del 13 dicembre 1982, l’Assemblea ha ribadito la ferma convinzione di voler raggiungere la definizione di un quadro di principi relativi alla riduzione e congelamento dei budget militari degli Stati (par. 1, 3 ss.); al contempo, nella stessa risoluzione afferma la possibilità (e per converso, sottolinea il problema) di allocare diversamente le risorse per la spesa militare a misure di implementazione della tutela dei diritti fondamentali e dello sviluppo economico (par. 2).
Un nuovo capitolo si è aperto, poi, nel contesto della trasparenza sulla spesa militare. Con la creazione del Registro ONU delle armi convenzionali (1991), allo scopo di rendere trasparenti gli acquisti e le cessioni di armamenti tra gli Stati, il dibattito pubblico si è focalizzato maggiormente sul conoscere come l’impiego delle risorse finanziarie di uno Stato venivano impiegate e quanto era effettivamente speso nel settore della difesa. L’idea di base del registro è quella del reporting volontario (già maturato nella ris. 37/95B), basato soprattutto sulla rilevazione di tipi e unità di armamenti costruiti e venduti, quantità degli stessi e costo complessivo, allo scopo di tracciare un quadro statistico ed economico della military expenditure e cercare di prevenire la corsa agli armamenti indiscriminata.
Tuttavia, il Registro trova ancora difficoltà attuative, sia in ragione della mera natura volontaria dello stesso, sia a causa del mancato recepimento frequente di quei report sulle spese militari che costituiscono la base per applicare il principio di trasparenza.
Accanto ad iniziative a carattere universale volontario, si sono aggiunte iniziative più convincenti a carattere regionale pattizio. Nel 1999 è stata stipulata la Convenzione Interamericana sulla trasparenza nelle acquisizioni militari. Ne sono parte 17 Stati americani, tra cui Canada e Messico. Gli Stati Uniti ne risultano solo firmatari. Riprendendo l’idea del Registro ONU, la Convenzione Interamericana si pone i medesimi obiettivi (art. II); la chiave di volta è rimessa alla cooperazione degli Stati nello scambio di informazioni, sia a livello di reporting sui quantitativi e i costi degli armamenti acquistati e venduti (art. III), sia sul numero e entità di esportazioni perfezionate (art. IV).
Rispetto ad iniziative istituzionali sovranazionali, rimangono solo le iniziative sporadiche dei singoli Stati (come nel caso delle pubblicazioni dei contratti della difesa conclusi dagli Stati Uniti) e di istituti di ricerca del settore (come lo Stockholm International Peace Research Institute – SIPRI, e l’International Institute for Strategic Studies – IISS). In entrambi questi casi, sono resi disponibili database che indicano i flussi di armamenti tra Stati, il quantitativo di spesa militare che ogni Stato ha sostenuto in un anno e i tipi di armamento trasferito. Non vi è, quindi, una prassi diffusa e uniforme che possa permettere la ricostruzione di una regola a carattere consuetudinario, se non nel senso di applicare la trasparenza alle modalità di spesa dei fondi pubblici da parte degli Stati.
Pertanto, data la scarna disciplina specificatamente applicabile alla military expenditure, bisogna considerare se vi siano obblighi internazionali generali e relativi all’ambito del disarmo che possano applicarsi ulteriormente.
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Una delle prime considerazioni qui da svolgere è relativa al divieto di uso della forza, come enucleato all’art. 2, par. 4 della Carta delle Nazioni Unite. In questo senso c’è da chiedersi se “armarsi” comporti una possibile violazione di tale obbligo.
Sebbene non vi sia unicità per una definizione di attacco armato (ricomprendendo anche la guerra al terrorismo e gli attacchi cibernetici), si potrebbe pensare che il riarmo, la corsa agli armamenti o ogni attività volta ad incrementare le proprie forze armate potrebbe essere prodromico all’uso della forza, ad esempio intesa a “minare l’integrità territoriale di uno Stato” (C. Dörr, Use of Force, Prohibition of, in Max Planck Encyclopedia of Public International Law, par. 12 ss.). Tuttavia, se non può essere dimostrato che l’intento di spendere per armarsi sia prodromico ad un attacco armato, viene a mancare il possibile nesso causale tra la spesa militare e l’attacco armato vero e proprio. Ciononostante, la casistica internazionale sembra non mancare, come nel caso delle spese militari sostenute dall’Arabia Saudita nel 2016 in vista dell’operazione multiforze in Yemen, o l’incremento della spesa militare egiziana tra il 1967 e il 1971 che portò alla Guerra dello Yom Kippur. Tuttavia, non vi è uniformità e prassi decisiva che lasci intendere che la spesa militare possa portare ad agire contrariamente al divieto di uso della forza, né che l’acquisizione di armamenti costituisca automaticamente parte di un attacco armato.
Diverso il discorso relativo alla legittima difesa degli Stati. Anche in questo caso, la norma che trova conferma nell’art. 51 della Carta ONU prevede come requisito quello dell’attualità dell’attacco armato sferrato nei propri confronti. Vi è di più che la difesa anticipatoria e quella preventiva non sono considerate come legittime secondo il diritto internazionale contemporaneo. Al contempo, le (ormai) numerose norme pattizie sul controllo dei trasferimenti di vari tipi di armi convenzionali includono un richiamo al principio della legittima difesa quale regolatore dell’acquisizione di armi convenzionali (si veda, ad es., quello dell’Arms Trade Treaty).
In questo senso (e anche il Readiness 2030 sembra confermare ciò), la legittima difesa sembra includere il sostenimento della spesa militare, ma solo se tale spesa venga effettuata proprio allo scopo di garantire la legittima difesa nei confronti di un possibile attacco armato (e sempre che tale attacco sia incluso nella definizione di “uso della forza”: C. Gray, International Law and the Use of Force, 4th, 2018, p. 5). Questa situazione, peraltro, sembra emergere dalla prassi più recente (ad esempio, le acquisizioni da parte israeliana in vista della Guerra dello Yom Kippur del 1973 e quella dell’Ucraina a seguito dell’invasione russa di Crimea, Donbas e dell’invasione su vasta scala del 2022). Dubbi, invece, sussistono circa il legittimo ricorso alla spesa militare durante un conflitto armato (sul punto, si veda N. Zugliani, The Supply of Weapons to a Victim of Aggression: The Law of Neutrality in Light of the Conflict in Ukraine, in EJIL, vol. 35, 2024, 389 ss.).
Da un contesto meramente bellico si passa ad uno di natura più economica e sociale. Quanto evidenziato anche recentemente da studi di esperti e già paventato dall’Assemblea Generale, il commercio di armamenti e, per riflesso, la military expenditure possono incidere sul raggiungimento degli obiettivi dello sviluppo sostenibile. Questa è anche la maggiore preoccupazione di coloro che sostengono le ragioni contrarie al riarmo da parte dell’UE, ovvero che l’aumento della spesa militare non solo possa comportare la sottrazione di fondi per l’implementazione dei diritti economici e sociali, ma anche che il ricorso a strumenti finanziari come il SAFE possa aggravare la situazione pro futuro.
Nel caso della spesa militare, soprattutto gli Stati in via di sviluppo e le economie industriali poco sviluppate hanno assistito a ripetuti tagli ai servizi pubblici essenziali, ai fondi per l’implementazione degli obiettivi dello sviluppo sostenibile e per la modernizzazione industriale e delle infrastrutture. Questa considerazione, puramente di previsione macroeconomica, può essere indirizzata solo attraverso il perfetto bilanciamento dei fondi pubblici, preservando le risorse necessarie al raggiungimento di tali obiettivi.
Nel contesto della Readiness 2030, il Libro Bianco menziona la creazione del SAFE appositamente per permettere di finanziare l’aumento per la spesa militare e il ricorso alle clausole di salvaguardia come espediente per superare il tetto di deficit di bilancio imposto dal Patto di stabilità. Tuttavia, non è chiaro né come questo strumento possa incidere sulle economie nazionali, né quali saranno le condizioni per il finanziamento e se sia prevista una restituzione o addirittura l’attuazione di politiche economiche nazionali molto rigorose, come accade per il Meccanismo Europeo di Stabilità (MES). Questa situazione di incertezza alimenta il timore che tale strumento possa incidere sensibilmente su quelle economie che non abbiano sufficiente capacità politico-economica per gestire un simile aumento della spesa e programmarla nel periodo medio-lungo.
Sotto un profilo di cooperazione giuridica, poi, la military expenditure potrebbe mettere alla prova anche l’applicazione di obblighi internazionali in materia di controllo degli armamenti convenzionali. In particolare, nel Trattato sulle forze armate convenzionali in Europa – CFE (stipulato a Parigi nel 1990 tra gli Stati dell’Alleanza Atlantica e l’ex URSS; la Russia non ne fa più parte dal 2009, mentre gli Stati Baltici, Svezia e Finlandia non hanno mai firmato il Trattato) sono previsti (artt. III e ss.) alcuni obblighi circa la limitazione numerica di vari tipi di armamento che siano acquisiti e messi a disposizione delle forze armate dei vari Stati. In particolare, si stabilisce che le limitazioni saranno di natura quantitativa, secondo i limiti numerici fissati dall’art. IV, par. 1, per i veicoli armati (carri armati e veicoli di assalto), pezzi di artiglieria, aerei caccia ed elicotteri d’assalto. Queste limitazioni sono stabilite per diverse aree geografiche (se ne contano 4), dove per ognuna sono fissati i limiti massimo di disposizione delle unità (art. IV, par. 2 ss.)
Essendo un accordo atto a limitare il numero di forze armate presenti su un territorio, la base giuridica si rinviene nel sistema di notifiche tra Stati parti (art. VII). Con queste, gli altri Stati possono conoscere il numero di armamenti posseduti, quello di armamenti che verranno acquisiti oltre il limite e quello degli armamenti che verranno dismessi o ceduti. Ciò al fine di effettuare una “compensazione interna” sulle proprie forze armate entro i termini prescritti. Al contrario, le suddette limitazioni non possono permettere una “compensazione per area” tra gli Stati territorialmente inclusi, in modo che alle limitazioni di uno corrispondano gli aumenti degli altri e viceversa (art. VII, par. 6).
Tuttavia, non è chiaro se il Readiness 2030 comporti acquisti per la difesa nazionale che possano andare oltre i limiti previsti dal Trattato CFE. In tale caso, il problema in concreto che si pone è se lo Stato parte della Convenzione e richiedente il finanziamento SAFE stia acquisendo armamenti al fine di aumentare il proprio comparto bellico, o se stia facendo ciò al solo scopo di aggiornare i propri sistemi difensivi, rimpiazzando quindi quelli obsoleti (la cui pratica, in base agli artt. VIII e ss. del Trattato, può portare anche alla conversione dei precedenti veicoli militari in veicoli civili, o allo smantellamento per recupero di parti e componenti, oppure al trasferimento verso altro Stato, applicando quindi i limiti normativi previsti per i trasferimenti di armi convenzionali).
In quest’ottica, la prima ipotesi è sicuramente in violazione del Trattato, laddove le nuove acquisizioni siano fatte senza considerare l’applicazione dell’obbligo in sé, o senza aver notificato entro i termini prescritti il numero di armamenti ridotti e acquisiti, oltre ad aggirare i limiti sulle compensazioni numeriche previste dall’accordo medesimo.
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In definitiva, il piano europeo Readiness 2030 presenta la bivalenza tipica di una situazione di emergenza. Al di là dei possibili “benefici” circa lo sviluppo di una difesa comune, sono diversi i profili che destano preoccupazione. Da un lato, la principale preoccupazione riguarda i limiti di spesa e di investimento pubblico che gli Stati membri cercheranno di attuare, in considerazione di possibili impatti negativi sul raggiungimento degli obiettivi dello sviluppo sostenibile. Dall’altro, le preoccupazioni sono rivolte alla compatibilità tra quanto verrà prescritto dagli strumenti normativi previsti dal Libro Bianco e i possibili (seppur limitati) impegni normativi internazionali sulla trasparenza, la cooperazione internazionale e le limitazioni di armamenti.
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