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Meno diritti umani, più competitività? Alcune considerazioni sul pacchetto Omnibus proposto dalla Commissione europea

Elena Corcione, Università di Pollenzo

Il 26 febbraio 2025 la Commissione europea ha pubblicato un pacchetto di proposte legislative denominato Omnibus, che interviene sulla disciplina in materia di impresa e diritti umani a livello europeo, faticosamente assemblata negli ultimi anni. La proposta modificherebbe sostanzialmente la recentissima Direttiva sul dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità (Direttiva UE 2024/1760, in seguito “CSDDD”, entrata in vigore il 25 luglio 2024) e la Direttiva sulla rendicontazione societaria di sostenibilità (Direttiva UE 2022/2464, in seguito “CSRD”, entrata in vigore il 5 gennaio 2023, che già modificava la precedente disciplina della rendicontazione non finanziaria), al contempo rinviandone l’effettiva applicazione.

La novità ha suscitato immediate reazioni e commenti da parte di studiosi, ONG e grandi imprese (tra i molti, ad esempio qui, qui e qui). In vista dei preannunciati interventi legislativi, prospettati nella comunicazione dello scorso gennaio A Competitiveness Compass for the EU, il gruppo di lavoro dell’ONU su imprese e diritti umani aveva incoraggiato l’Unione europea a proseguire la propria azione di allineamento con i Principi Guida ONU su impresa e diritti umani, su cui la CSDDD espressamente si fonda, evitando di riaprire il dibattito su un testo già adottato. Per rispondere alla necessità di certezza per le imprese e di coerenza tra CSDDD e standard internazionali, il gruppo di lavoro auspicava piuttosto una guida dell’Unione per agevolare le imprese nell’attuazione della CSDDD.

In altre parole, la Commissione poteva scegliere se semplificare guidando e accompagnando le imprese verso l’adeguamento agli obblighi di rendicontazione e diligenza o se semplificare deregolamentando; ad oggi, tra le due strade, sembra aver scelto di percorrere la seconda.

La proposta Omnibus è ispirata, secondo la Commissione, al rapporto di Mario Draghi “The future of European competitiveness” rilasciato a settembre 2024 e alla dichiarazione di Budapest dello scorso novembre, in cui si chiedeva una riduzione dei costi di compliance e degli oneri amministrativi e di trasparenza, soprattutto per le piccole e medie imprese, in un’ottica di semplificazione. Garantire ed incrementare la competitività delle imprese europee, anche in considerazione degli “approcci diversi adottati da altre giurisdizioni significative” e dei mutati assetti geopolitici (explanatory report, p. 2), sembra quindi essere l’obiettivo che ha spinto la Commissione a semplificare le norme esistenti, riducendo gli oneri “senza però minare agli obiettivi di CSRD e CSDDD” (ibidem). La necessità di semplificazione ha peraltro visto da subito il supporto di alcuni Stati membri (si veda in particolare il comunicato rilasciato il 20 gennaio 2025 dalle autorità francesi) e di alcuni partiti europei (si veda la posizione assunta dall’EPP).

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Le principali direttive interessate dalle modifiche proposte con il pacchetto Omnibus, la CSRD e la CSDDD, operano su due piani distinti, ma complementari. In estrema sintesi, il contenuto delle due norme può riassumersi come segue.

La CSRD impone alle imprese una disclosure circa l’impatto della propria attività sulle questioni di sostenibilità. In pratica, le imprese che rientrano nell’ambito di applicazione della Direttiva devono descrivere, in un’apposita sezione della relazione di bilancio, le procedure di due diligence attuate in relazione alle questioni di sostenibilità, nonché i principali impatti negativi effettivi o potenziali connessi alle attività dell’impresa e alla sua catena del valore e le azioni intraprese per identificare e monitorare tali impatti e prevenirli. Per dar seguito agli oneri di rendicontazione imposti dalla CSRD, la Commissione europea ha adottato un primo set di standard obbligatori di rendicontazione, denominati ESRS (European Sustainability Reporting Standards).

Per consentire un progressivo adeguamento delle imprese agli obblighi di rendicontazione, la CSRD prevede che detti obblighi debbano applicarsi a diverse categorie di imprese secondo scaglioni temporali (c.d. waves). Gli obblighi sono quindi operativi già dal 2025 (in riferimento all’esercizio dal 1° gennaio 2024) per le grandi imprese e i grandi gruppi di società (rectius: capogruppo) che costituiscono enti di interesse pubblico, con un numero medio di 500 dipendenti occupati durante l’esercizio, fino alle piccole e medie imprese (PMI) con valori immobiliari ammessi alla negoziazione in mercati regolamentati dell’Unione soggette a obbligo di rendicontazione dal 2027 (con possibilità di opt-out per i primi due anni). Per sostenere le PMI nel conformarsi agli obblighi di rendicontazione, la CSRD prevede già alcune cautele, tra cui un’applicazione semplificata degli ESRS, standard volontari di rendicontazione per le PMI escluse dall’ambito di applicazione della norma e una c.d. value chain cap (che esclude dalla rendicontazione di sostenibilità delle grandi imprese informazioni che queste dovrebbero ottenere dalle PMI operanti nelle loro catene del valore ulteriori rispetto a quanto queste ultime siano tenute a rendicontare).

La CSDDD, invece, opera su un piano sostanziale e non di sola trasparenza, prevedendo veri e propri obblighi di monitoraggio della catena di attività delle grandi imprese (per una disamina puntuale del contenuto della CSDDD si veda Bonfanti). Nell’ambito di applicazione soggettivo della CSDDD rientrano le grandi imprese identificate sulla base di fatturato e numero di dipendenti (imprese con una media di almeno 1000 dipendenti e fatturato netto mondiale superiore a 450 milioni di euro; capogruppo di gruppi con medesimi limiti o franchising con diritti di licenza superiori a 22,5 e fatturato superiore a 80 milioni; imprese straniere con il medesimo fatturato minimo nel mercato dell’Unione). Tali imprese sono tenute a avviare un processo di due diligence in materia di diritti umani basato sul rischio, adottando le misure necessarie alla prevenzione, mitigazione e rimedio degli impatti negativi sui diritti umani, effettivi o potenziali, derivanti dall’attività dell’impresa, delle filiazioni o dei partner commerciali nella catena di attività. Il processo di due diligence previsto dalla CSDDD ricalca sostanzialmente in linea con quanto previsto dai sei step della due diligence in materia di diritti umani delineata nelle Linee Guida OCSE per le imprese multinazionali. A rendere efficaci gli obblighi introdotti dalla CSDDD, vi è la previsione che gli Stati membri introducano nei rispettivi ordinamenti una fattispecie di responsabilità civile per danni attivabile dalle vittime in caso di violazioni derivanti dalla mancata predisposizione da parte delle imprese obbligate di un adeguato processo di due diligence (art. 29 CSDDD). Tra gli aspetti particolarmente positivi della CSDDD vi è poi l’estensione degli obblighi di controllo all’intera “catena di attività” a monte (c.d. upstream), con qualche limitazione sulla catena a valle (c.d. downstream), che ha già suscitato dibattiti soprattutto in relazione alle possibili conseguenze per alcuni settori cruciali come il finanziario e il digitale (si veda il documento di OHCHR, in generale, ed in particolare con riferimento al progetto B-tech). Pur con alcuni disallineamenti rispetto al quadro emergente in materia dai riferimenti internazionali, la CSDDD ha quindi sostanzialmente recepito l’impianto della corporate responsibility to respect human rights prevista a livello internazionale.

Da quanto fin qui descritto è quindi evidente che le due direttive siano strettamente interconnesse, non solo perché vanno nella stessa direzione di incentivare e, progressivamente, imporre un’attività d’impresa rispettosa dei diritti umani e dell’ambiente in linea con gli standard internazionali, ma anche perché con la CSRD si chiede alle imprese di rendicontare, di fatto, l’attuazione degli obblighi di cui alla CSDDD, pur con alcuni disallineamenti in termini di ambito soggettivo e temporale di applicazione. Gli obblighi di cui alla CSDDD, quindi, precedono concettualmente quelli di cui alla CSRD (ancorché l’Unione abbia adottato prima quest’ultima, contribuendo ad aumentare notevolmente il disorientamento delle imprese chiamate a rendicontare azioni che – evidentemente – non avevano ancora messo in campo).

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Con riguardo alla rendicontazione di sostenibilità di cui alla CSRD, il pacchetto Omnibus propone essenzialmente una notevole riduzione dell’ambito di applicazione soggettivo e uno slittamento dei tempi di attuazione. L’articolo 3 della proposta Omnibus restringe l’ambito di applicazione soggettivo alzando la soglia dimensionale alle grandi imprese e alle capogruppo che abbiano almeno 1000 dipendenti. La modifica esclude quindi in parte alcune grandi imprese già obbligate secondo gli scaglioni originari e del tutto le PMI, per le quali saranno redatti standard volontari sulla scorta di quelli già proposti da EFRAG (il gruppo consultivo europeo sull’informativa finanziaria). Questa modifica tenderebbe ad allineare l’ambito di applicazione della rendicontazione a quello della CSDDD: qualora la proposta fosse adottata, si stima che circa l’80% delle imprese originariamente obbligate alla rendicontazione ne sarebbero esonerate (secondo l’explanatory report della Commissione, p. 4). Dal punto di vista sostanziale, poi, è previsto un rafforzamento della value chain cap e una revisione degli attuali ESRS, sempre in ottica di semplificazione, che riduce e razionalizza il numero e il contenuto delle informazioni richieste alle imprese. In parallelo, il pacchetto Omnibus ha coerentemente previsto anche una proposta di slittamento dei tempi di applicazione degli obblighi di rendicontazione di due anni, al fine di evitare che le società ad oggi rientranti nel campo di applicazione della CSRD (e segnatamente quelle afferenti alle c.d. seconda e terza waves) procedano alla rendicontazione di sostenibilità e ne vengano poi esentate in caso di adozione dell’Omnibus.

Ma è con riguardo alla due diligence obbligatoria prevista dalla CSDDD che le proposte del pacchetto Omnibus avranno verosimilmente maggiore impatto sulla tutela dei diritti umani nel contesto delle catene globali del valore. Le principali modifiche proposte infatti riguardano alcuni aspetti cruciali della due diligence e dei meccanismi di enforcement previsti dalla CSDDD.

La modifica probabilmente più importante riguarda una limitazione della ‘catena di attività’ oggetto di due diligence. Viene infatti proposto di limitare il controllo da parte delle grandi imprese alle operazioni dei partner commerciali diretti, cioè quei soggetti con cui la società ha concluso un accordo commerciale. L’identificazione degli impatti negativi lungo l’intera catena di attività, inclusiva dei partner commerciali indiretti, sarebbe dovuto solo qualora l’impresa abbia “plausible information” che suggeriscano la possibilità che si verifichino o che si siano verificati impatti negativi sui diritti umani a livello di partner commerciali indiretti ovvero nel caso in cui la natura indiretta del rapporto con il partner commerciale sia frutto di un “artificial arrangement” che non rispecchi la realtà economica effettiva. In sostanza, la proposta si discosta dai Principi Guida ONU e tende ad allinearsi invece con la normativa tedesca in materia di supply chain, che richiede un controllo degli operatori più lontani nella catena del valore solo a fronte di una “substantiated knowledge” degli impatti negativi da parte dell’impresa.

Questa modifica comporta quantomeno due ordini di problemi. In primo luogo, esclude il controllo degli impatti negativi nelle fasi produttive più lontane dalle c.d. imprese apicali (tipicamente, le capogruppo e le grandi imprese che rientrano nell’obbligo di due diligence che controllano in via societaria o contrattuale le catene del valore) dove solitamente si verificano le più gravi violazioni dei diritti umani. Il sistematico “allontanamento” dei rischi, attraverso i molti livelli contrattuali o societari che si frappongono tra l’impresa apicale e le imprese che compongono la catena del valore, è ciò che consente a queste ultime di massimizzare i profitti esternalizzando i rischi umani e ambientali della produzione. È proprio per evitare queste storture del sistema produttivo che la due diligence, come intesa dai Principi Guida ONU, mira ad includere tutti gli impatti negativi (potenziali o effettivi) che l’impresa possa non solo causare direttamente, ma altresì gli impatti negativi cui possa contribuire o essere direttamente collegata (sui diversi livelli di coinvolgimento dell’impresa, si veda Van Ho). In secondo luogo, non è chiaro come debbano interpretarsi i fattori che dovrebbero innescare l’obbligo di estendere la due diligence ai livelli più lontani della catena di attività. Nell’explanatory report (p. 18), l’esistenza di “plausible information” viene identificata con i casi in cui l’impresa abbia ricevuto un “claim” ovvero i casi in cui l’impresa sia consapevole dell’esistenza di rapporti da parte di “credible NGOs” (di come e chi possa stabilire la credibilità di un’ONG non vi è indicazione) o da parte dei media riguardo attività dannose a livello di un partner commerciale indiretto, ovvero quando ci siano precedenti di violazioni da parte di un partner commerciale, ovvero se l’impresa sia a conoscenza di particolari problemi rispetto ad una certa area (ad esempio in caso di conflitto). La modifica, così proposta, sembra contrastare con il senso stesso dell’attività di due diligence, il cui scopo è proprio quello di creare tale consapevolezza nell’impresa, attraverso una mappatura dei rischi connessi alle attività lungo l’intera catena del valore. Imporre una valutazione dei rischi a livello di partner commerciali indiretti solo qualora l’impresa abbia già tale consapevolezza o conoscenza e non anche quando avrebbe dovuto o potuto averla – proprio all’esito di un risk-assessment necessariamente ampio ed inclusivo- crea una lacuna che mina il senso stesso della due diligence e, al contempo, aumenta esponenzialmente il potere dei soggetti che possono valutare e certificare l’esistenza (o l’inesistenza) di tali rischi. L’estensione della cadenza dell’obbligo, da annuale a quinquennale è in palese contrasto con gli strumenti internazionali che presuppongono invece un continuo monitoraggio e adeguamento del processo di due diligence, e non fa che annacquare ulteriormente la previsione rischiando di relegarla ad un mero esercizio di stile.

La seconda importante modifica riguarda poi i meccanismi di enforcement, sia pubblici che privati. Dal punto di vista delle sanzioni pecuniarie (art. 27 CSDDD) sarà la Commissione a predisporre delle linee guida per la determinazione delle sanzioni, che comunque non dovranno più essere commisurate al fatturato dell’impresa, né oggetto di tetto massimo stabilito dagli Stati membri. Dal punto di vista del meccanismo di responsabilità civile (art. 29 CSDDD), l’Omnibus elimina la previsione di un regime di responsabilità delle imprese comune a tutti gli Stati membri. Agli Stati membri non è più richiesto, quindi, di assicurare l’esistenza di un regime di responsabilità civile in caso di danni derivanti dall’inosservanza del dovere di diligenza, ma solo di assicurare il diritto al risarcimento nel caso in cui un’impresa sia considerata responsabile secondo la legge nazionale. A ciò si aggiunge l’eliminazione della clausola che chiedeva agli Stati di consentire le azioni rappresentative, autorizzando la legittimazione ad agire di sindacati o ONG; con l’effetto, da un lato di frammentare ulteriormente il contenzioso in una moltitudine ricorsi individuali dai risultati potenzialmente contrastanti e, dall’altro lato, di minare l’accesso alla giustizia in particolare degli individui in condizioni particolarmente svantaggiate. Non da ultimo, viene eliminato l’art. 29 comma 7, che conteneva un’importante previsione di raccordo con i meccanismi del diritto internazionale privato, stabilendo che le norme nazionali di recepimento dell’articolo sulla responsabilità civile fossero da considerarsi di applicazione necessaria in caso di controversia cui fosse applicabile il diritto di un paese extra-UE (sulle implicazioni di tale previsione, anche in relazione alla sua riferibilità alla sola clausola di responsabilità civile e non all’intero corpus degli obblighi di cui alla CSDDD, si vedano le considerazioni di Boschiero e Greco).

Alcune ulteriori modifiche contribuiscono ad alleggerire gli oneri in capo alle imprese, appesantendo il fardello delle potenziali vittime delle violazioni. Viene ristretto lo spettro degli stakeholders da coinvolgere nei processi di due diligence rilevanti, eliminando le istituzioni nazionali per i diritti umani e le organizzazioni della società civile rappresentative degli interessi delle vittime e di tutela dell’ambiente; viene eliminato il dovere di risolvere i rapporti con i partner commerciali coinvolti in episodi di violazioni dei diritti umani, ad oggi previsto quale extrema ratio, in favore di una mera sospensione di tali rapporti, in considerazione della natura cruciale che alcuni fornitori possono avere nella catena di attività. Viene ridimensionata la portata effettiva degli impegni climatici richiesti alle imprese.

Anche l’applicazione della CSDDD viene poi rinviata di un anno, per dar modo alle imprese di adeguarsi agli obblighi, contestualmente consentendo alla Commissione di adottare le necessarie linee guida.

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Come si è detto in apertura, la proposta di semplificazione si basa sull’assunto che i doveri di diligenza e rendicontazione siano un onere sproporzionato per le imprese europee e che, come tali, ne indeboliscano la competitività. È lecito quindi domandarsi se esista questo rapporto inversamente proporzionale tra competitività e attuazione degli obblighi di rendicontazione e diligenza e, qualora esistente, se sia tale da giustificare un passo indietro a scapito della tutela dei diritti umani. La stessa Commissione riconosce che il rinvio proposto ritarda i potenziali impatti positivi connessi alla rendicontazione di sostenibilità, considerata uno strumento utile ad influenzare positivamente la condotta delle imprese rispetto ai diritti umani, accrescendo la consapevolezza delle imprese rispetto alle loro attività e impatti (explanatory report, p. 9). Al contempo, tuttavia, la Commissione sostiene che il rinvio e l’eliminazione di alcune imprese tout court dall’ambito di applicazione degli obblighi di rendicontazione genererebbe altri vantaggi dal punto di vista sociale: in termini di creazione di ricchezza, impiego e innovazione, anche in termini di sostenibilità.

A ben vedere, tale prospettiva si focalizza sui costi del breve periodo e non consente di comprendere i vantaggi a lungo termine di una produzione più sostenibile, oltre ad essere particolarmente frustrante rispetto allo scopo ultimo della tutela delle vittime delle violazioni di diritti umani. L’accento è posto, ancora una volta, sulla crescita economica e sulla ricchezza, anziché sulla tenuta nel tempo di un’attività produttiva largamente insostenibile per le persone e per il pianeta.

Peraltro, lo studio preliminare richiesto dalla Commissione nel 2020 prima di avviare il processo legislativo sulla CSDDD, aveva fornito alcune previsioni di incremento dei costi di allineamento ad un eventuale normativa che prevedesse una due diligence obbligatoria lungo la catena del valore. Le stime, pur da considerare con cautela, segnalavano un’incidenza dei maggiori oneri in termini di costo del lavoro e attività outsourced per adeguarsi alla normativa che ammontavano allo 0,14% e 0,01%, rispettivamente per PMI e grandi imprese, rispetto alle revenues (ibidem, pp. 428-429, tabella 8.34). L’incidenza marginale degli oneri per le imprese obbligate, se paragonata agli enormi profitti di queste ultime (come opportunamente sottolineato da diverse ONG), è peraltro avvalorata dai dati riportati dalla stessa Commissione relativi all’impact assessment allegato alla proposta di CSDDD nel 2022. I numeri, quindi, sembrano smentire la necessità di frenare su dovere di diligenza e rendicontazione di sostenibilità per garantire la competitività delle imprese europee.

Al di là dei meri numeri, vi sono poi considerazioni di prospettiva per cui non è auspicabile fare marcia indietro sulla sostenibilità dell’attività d’impresa. La due diligence in materia di diritti umani è la chiave per passare da un sistema fondato sull’azione degli stakeholders esterni per contrastare il mancato rispetto dei diritti umani da parte delle imprese all’interiorizzazione di tale rispetto da parte delle imprese stesse, attraverso la conoscenza e il monitoraggio delle proprie catene del valore e la comunicazione delle azioni intraprese (in altre parole, dall’ottica del “name and shame” al “know and show” (OHCHR, par.80). In altre parole, i doveri di diligenza e di rendicontazione sono, da un lato, uno strumento essenziale per tutelare i diritti umani e l’ambiente, ma anche, dall’altro lato, uno strumento per consentire alle imprese di agire d’anticipo. Una “semplificazione” non solo non ridurrà le effettive violazioni dei diritti umani che sono continuamente perpetrate nell’ambito delle lunghe catene del valore delle imprese europee ma anzi, verosimilmente, contribuirà ad accrescere il contenzioso nei confronti delle grandi società apicali e società capogruppo, che continueranno a essere chiamate a rendere conto di ciò che accade al di là dei confini europei (come avvenuto ad esempio, nel caso Shell o potrebbe avvenire nel caso Dyson per citarne alcuni). Una scelta al ribasso da parte del legislatore europeo non può quindi che esporre le imprese europee ad un sempre maggiore rischio di essere coinvolte in contenziosi sui diritti umani, senza che queste ultime siano effettivamente consapevoli e preparate ad affrontare tali rischi.

In definitiva, sembra doversi ridimensionare di molto il “rumore” creato intorno al pacchetto Omnibus. Così come gli attuali obblighi di cui alla CSRD e alla CSDDD non costituiscono oneri insormontabili per le imprese, neppure l’eventuale approvazione del pacchetto Omnibus determinerà la scomparsa tout court di qualsiasi impegno o l’impunità per queste ultime, pur andando a ridimensionare alcuni aspetti degli obblighi esistenti. Come spesso accade, l’effetto annuncio rischia di avere una portata ben più catastrofica del contenuto sostanziale della proposta, spingendo le imprese che già si erano messe sul cammino della sostenibilità a sospendere (incautamente) il percorso avviato: non solo perché la sostanza del pacchetto Omnibus non è così rivoluzionaria, ma anche perché il quadro internazionale ha avuto e continuerà ad avere una funzione di traino rispetto alle legislazioni nazionali e all’attività giurisdizionale, indipendentemente dalle sorti delle direttive europee.

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