Diritto dello spaziodiritto internazionale pubblico

Il “rosso pianeta bolscevico e traditor”: considerazioni sul principio di non-appropriazione alla luce delle recenti affermazioni del Presidente Trump

Margherita Penna (Università degli Studi di Torino/Centro Alti Studi per la Difesa)

Nel suo Prolegomeni al diritto internazionale cosmico (1960), Rolando Quadri, riflettendo sulla natura dei corpi celesti, già escludeva qualsiasi possibilità che si potesse parlare “di occupazioni simboliche mediante lancio di bandiere, visite di esploratori, etc..” (Quadri, p. 69). Aggiungeva altresì che la quaestio iuris non fosse tanto a chi appartenesse lo spazio, bensì quali attività fossero permesse. Al contrario, il discorso internazionale degli ultimi anni appare ancora orientato proprio a questioni di esclusività spaziale, come dimostra il discorso inaugurale del neoeletto Presidente statunitense Donald J. Trump.

Già nel 1969, a qualche ora dalla notizia dell’allunaggio dell’Apollo 11, la domanda che tutti si ponevano era proprio a chi sarebbe appartenuta la Luna all’indomani del posizionamento della bandiera degli Stati Uniti d’America sulla superficie lunare, come se l’allunaggio fosse elemento sufficiente per poter stabilire la propria sovranità territoriale. Nelle prime decadi successive al lancio del Sputnik I (URSS), primo satellite artificiale ad arrivare in orbita, la produzione normativa della comunità internazionale – attraverso il foro offerto dalle Nazioni unite – era stata sufficientemente prolifica, al punto da portare alla conclusione di cinque trattati sullo spazio: il Trattato sullo spazio extra atmosferico (1967); l’Accordo sul salvataggio degli astronauti (1968); la Convenzione sulla responsabilità internazionale per danni (1972); la Convenzione sulla registrazione degli oggetti spaziali (1976); infine, l’Accordo sulla Luna (1984). In particolare, il Trattato sullo spazio extra atmosferico (OST) identificava con sufficiente chiarezza quali fossero i diritti e gli obblighi di ogni Stato che si fosse cimentato nell’impresa spaziale da lì in avanti. Tuttavia, rispetto a tali trattati, alcuni problemi interpretativi e applicativi continuavano a pervadere il dibattito internazionale; fra questi l’interpretazione del principio di non-appropriazione.

Questo principio rappresenta il parametro sistemico attraverso cui leggere le altre norme di diritto internazionale dello spazio. Se infatti il diritto internazionale è fondato su un paradigma a base territoriale (Focarelli, p. 78), l’assenza di sovranità territoriale – ciò che per primo intende stabilire il principio di non-appropriazione – sopra un’area in cui si sviluppano attività statali diventa per forza di cose l’elemento definitorio dell’intero sistema giuridico. Codificato all’art. II del OST, il principio di non-appropriazione afferma che lo spazio, inclusi i corpi celesti non possono essere oggetto di appropriazione nazionale, «by claim of sovereignty, by means of use or occupation, or by any other means»; ha ora acquisito carattere consuetudinario. La norma nega, da una parte la possibilità di reclamare la propria sovranità e dall’altra nega altresì ogni ulteriore eventuale modalità di acquisizione territoriale nello spazio e dello spazio. Stabilire la natura non appropriativa dello spazio e dei corpi celesti rimane quindi la migliore garanzia giuridica per assicurare il rispetto del principio del libero uso ed esplorazione dello spazio (art. I OST). La presenza di questa clausola sottende la volontà degli Stati di tutelare quanto più possibile lo spazio da attività club-based e garantire a tutti gli Stati – a prescindere dal loro grado di sviluppo tecnologico – il godimento di tali diritti nello spazio. Gli Stati Uniti d’America sono stati e rimangono oggi il primus inter pares fra i cosiddetti space-faring countries (per una classificazione, Oniosun e Klinger); perciò, non dovrebbe sorprendere la recente dichiarazione del neoeletto Presidente Donald J. Trump.

In occasione del suo discorso inaugurale il Presidente ha infatti dichiarato che gli Stati Uniti “will pursue our manifest destiny into the stars, launching American astronauts to plant the Stars and Stripes on the planet Mars“. Tralasciando l’enfasi retorica, l’affermazione del neoeletto Presidente conferma e rafforza gli obiettivi statunitensi di politica spaziale degli ultimi 15 anni. La presa di posizione di Donald Trump è stata poi supportata dalle affermazioni di Elon Musk, fondatore di Space X e oggi anche amministratore del nuovo Department of Government Efficiency (dall’autoesplicativo acronimo DOGE), il quale ha dichiarato l’intenzione della sua azienda di accelerare la realizzazione del progetto di colonizzazione di Marte. In occasione della cerimonia di insediamento di Donald Trump, Elon Musk ha poi nuovamente ribadito il proprio appoggio al piano presidenziale, sottolineando come gli Stati Uniti si stanno imbarcando in una nuova golden age.

Sono affermazioni e prese di posizione che fanno eco ad un approccio ormai collaudato del governo statunitense: tentare sistematicamente di sfidare l’impianto normativo internazionale che regola i diritti e gli obblighi degli Stati nelle loro attività spaziali, fornendo una propria interpretazione dei fondamenti del diritto internazionale dello spazio, in particolare del principio di non-appropriazione e i suoi corollari. Se infatti l’affermazione circa il “manifest destiny” di collocare la bandiera statunitense sulla superficie di Marte non è altro che un richiamo all’impresa dell’Apollo 11, essa va contestualizzata nel più ampio progetto politico statunitense.

A partire dal 2015, con la promulgazione del Commercial Space Launch Competitiveness Act, il governo statunitense ha iniziato a garantire ai propri cittadini il diritto di proprietà sopra le risorse recuperate da asteroidi e corpi celesti, nonostante il diritto internazionale sia silente al riguardo. Pur stabilendo ciò, lo stesso atto asseriva la posizione contraria degli Stati Uniti a qualsiasi rivendicazione di sovranità sui corpi celesti. Successivamente, a partire dalla prima presidenza Trump, gli obiettivi di politica spaziale sono stati maggiormente sviluppati. Dapprima nella Space Policy Directive – 1 (2017), la quale per la prima volta fa riferimento a missioni esplorative di lungo-termine su Marte e altri corpi celesti e infine nell’ Executive Order 13914 (2020), il quale dichiara apertamente il rifiuto dell’Amministrazione Trump della natura di res communis omnium della Luna e degli altri corpi celesti. La posizione statunitense pare anzi essersi evoluta in tempi recenti verso una concezione dello spazio come res nullius. A questo punto, è necessario fare un po’ di chiarezza su queste categorie e come è possibile acquisire titolo di sovranità secondo il diritto internazionale e come invece non lo è per quanto concerne lo spazio (ma dovrebbe esserlo secondo la posizione statunitense).

Per res nullius si intende un’area non soggetta a sovranità e su cui vi sia la possibilità di esercitare un controllo effettivo (criterio dell’effettività). Fra le modalità di acquisizione originarie, attraverso cui tale esercizio di sovranità è possibile, vi è storicamente l’occupazione (Romano, p. 165, Fassbender et al. p. 851); per poterla definire tale, è necessario che vi sia appunto un territorio nullius, l’animus possidendi del reclamante e che sia rispettato un grado minimo di effettività (sentenza arbitrale sull’isola di Palmas, 1928; sentenza sullo status giuridico della Groenlandia orientale, CPGI, 1933), variabile alla luce delle particolarità territoriali dell’area (come evidenzia O’Connell, p. 471 ss.). Tuttavia, sussiste un requisito minimo assoluto per cui si deve poter ritenere il territorio sotto il controllo assoluto dello Stato reclamante. Storicamente, la maggioranza dei tentativi di reclamazione di sovranità secondo la logica del requisito minimo hanno interessato occupazioni simboliche di isole nel mare (l’isola di Clipperton occupata simbolicamente nel 1858 da un ufficiale francese e poi nuovamente nel 1897 dal Messico; ancora le isole Caroline, simbolicamente occupate dalla Spagna nel 1686 e poi effettivamente occupate dalla Germania nel 1885; Quadri, p. 710 ss.).  Nel caso di specie, pur non essendo lo spazio considerato res nullius, e benché in certi contesti un’affermazione di sovranità possa essere “little more than symbolic” (v. Shaw, p. 380), è dubbio che la semplice collocazione di una bandiera possa integrare tale casistica.

Viceversa, la categoria res communis include quelle aree non soggette a titolo di sovranità e che non sono suscettibili di controllo, a nessun grado. In queste aree permane libertà di accesso, di esplorazione ed utilizzo, senza tuttavia poterne dichiarare la propria sovranità e nella misura in cui non pregiudica le rispettive libertà degli altri attori. Che lo spazio rientri in questa categoria è indubbio se si considera l’insieme delle risoluzioni dell’Assemblea generale dell’ONU (es. risoluzione 1962 (XVII), 1721 (XVI) e 1884 (XVIII)) che hanno preceduto la successiva ratifica del OST.

Il concetto di res communis non va a sua volta confuso con quello di patrimonio comune dell’umanità, il quale impone una regolamentazione rigorosa dell’esplorazione e dello sfruttamento dell’area sottoposta a questo regime, la quale non soltanto non è soggetta ad alcun titolo di sovranità, ma i benefici derivanti da un suo utilizzo devono essere distribuiti secondo un criterio di equità fra tutti gli Stati. Seguendo l’esempio della UNCLOS e l’istituzione dell’Autorità internazionale per i fondali marini, questa categoria è stata introdotta nell’Accordo sulla Luna, prevedendo addirittura in futuro la creazione di un regime, pari a quello per l’alto mare. Di fronte al numero assai limitato di ratifiche ricevute dall’Accordo, non si possono tuttavia ritenere le disposizioni consuetudinarie. In ogni caso, è pacifico concludere che lo spazio non è mai stato res nullius e che il regime di res communis non soltanto rimane valido ma ha anche valore consuetudinario (sul punto es. Paliouras).

A rafforzare la visione statunitense, da ultimo si sono aggiunti gli accordi Artemis, promossi dalla NASA nel 2020 (oggi contano 53 Stati firmatari). Seppur non vincolanti, gli accordi enucleano la strategia statunitense per la nuova corsa alla Luna e oltre, portata avanti con il Programma Artemis. Nonostante ne venga dichiarata la compatibilità con i principali strumenti di diritto internazionale dello spazio, da alcune disposizioni traspare un’incompatibilità di fondo con i fondamenti di questo settore giuridico. Tra tutti risulta evidente lo scontro con il principio di non-appropriazione. Da un lato, gli accordi Artemis ufficializzano la posizione precedentemente espressa per cui l’estrazione di risorse spaziali non costituisce intrinsecamente appropriazione nazionale ai sensi dell’art. II OST.  Dall’altro, introducono il concetto di patrimonio spaziale e il diritto a stabilire zone di sicurezza eventualmente intorno ad esso. Con il primo termine si fa riferimento all’impegno degli Stati firmatari degli accordi a preservare eventuali siti, oggetti e artefatti o altre evidenze sui corpi celesti storicamente significativi. Pur richiamandone in parte la formulazione, esso non è in alcun modo sovrapponibile al concetto di patrimonio comune dell’umanità, mancando la natura partecipativa di quest’ultimo.  Se la formulazione del concetto da sola non solleva questioni di legittimità alla luce del principio di non-appropriazione, lo stesso non si può concludere se si considerano le modalità proposte dagli accordi per procedere a tale conservazione e tutela. Gli accordi introducono infatti il concetto di zona di sicurezza, assente fino ad oggi nel diritto internazionale dello spazio. Al fine di evitare “harmful intereference” con le proprie attività spaziali e per assicurare altresì la conservazione di eventuali siti di atterraggio di rilievo, gli accordi consentono di delimitare delle zone di sicurezza, di fatto limitando il godimento delle libertà di cui all’art. I del OST e per cui non vengono definiti né limiti geografici, tantomeno temporali (sul punto v. Boley e Byers). É bene però rammentare che gli accordi non sono altro che un “political commitment”, così come definito all’interno degli stessi e per questo motivo pare quanto meno dubbia la loro idoneità a creare obblighi giuridici. Tale indeterminatezza appare in linea con quanto sopra detto circa la crescente presa di posizione statunitense per cui i corpi celesti sono res nullius e per questo passibili di occupazione.

Il crescendo di dichiarazioni e prese di posizione del governo statunitense mette in luce una strategia di fondo chiara: da una parte scardinare l’impostazione giuridica per cui lo spazio vuoto e i corpi celesti sono caratterizzati dall’assenza di sovranità territoriale; dall’altra incentivare una prassi e un’interpretazione alternativa del principio di non-appropriazione fra i membri della comunità internazionale, cosiddetti like-minded. L’obiettivo è creare una coalizione multilaterale che possa continuare a guidare la sfida contro i propri competitors, Cina e Russia (Strategic Framework for Space Diplomacy, p. 5, 14). Nonostante sia condivisibile l’idea che il diritto internazionale non sia un blocco immutabile di norme, ma che anzi evolva alla luce del modificarsi della prassi degli Stati, è indubbio che il riconoscimento dello spazio come non suscettibile di appropriazione da parte di nessun membro della comunità internazionale è ciò che ha permesso uno sviluppo esponenziale delle attività spaziali e ha prevenuto in maniera efficace una nuova corsa coloniale per quasi sessant’anni. Se poi le recenti affermazioni di Donald Trump sulla conquista di Marte si leggono alla luce del crescente clima di incertezza e polarizzazione che aleggia intorno al multilateralismo spaziale (e non solo) – di cui la pianificata dismissione della Stazione spaziale internazionale per il 2030 e il progetto di stazione lunare russo-cinese (ILRS) ne sono esempi lampanti – si può comprendere come sia imperativo che esse rimangano tali: dichiarazioni roboanti a celebrazione di una campagna elettorale vincente.

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