Diritto a un Ambiente Salubre e Democrazia Ambientale: Il Caso La Oroya tra Dimensione Locale e Globale
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Ludovica D’Apote (Università degli Studi di Milano)
Con sentenza pubblicata il 22 marzo 2024, la Corte interamericana dei diritti umani (di seguito, Corte IADU) ha accertato la responsabilità del Perù per la violazione di diversi diritti garantiti dalla Convenzione americana sui diritti umani (d’ora in avanti, Convenzione americana o Convenzione) ai danni di ottanta abitanti di La Oroya. In particolare, le vittime lamentavano la violazione dei diritti a un ambiente salubre, alla salute e integrità fisica, alla vita, all’informazione e alla partecipazione politica, all’infanzia e alla protezione giudiziale, rispettivamente disciplinati agli articoli 26, 5, 4.1, 13, 23, 19, 8.1, e 25 della Convenzione. Tali violazioni erano riconducibili all’inquinamento atmosferico provocato dall’attività del complesso metallurgico locale e all’assenza di un’adeguata regolamentazione e supervisione statale della stessa (Corte IDH. Caso Habitantes de La Oroya Vs. Perú. Excepciones Preliminares, Fondo, Reparaciones y Costas. Sentencia de 27 de noviembre de 2023. Serie C No. 511, le cui principali innovazioni sono riportate nei commenti di Ortega Franco e Milián e di Viveros-Uehara).
Il caso esaminato rileva considerevolmente in quanto contribuisce al consolidamento del diritto a un ambiente salubre nell’ambito del sistema interamericano di tutela dei diritti umani, mettendo al contempo in evidenza il ruolo cruciale delle associazioni e organizzazioni della società civile nella protezione degli interessi collettivi.
In questo senso, esso presenta profonde implicazioni, capaci di trascendere il solo contesto interamericano e permeare le attuali discussioni inerenti al riconoscimento del diritto a un ambiente salubre come diritto umano autonomo.
Esso si inserisce, infatti, nel contesto di una significativa prassi giurisprudenziale in tema di tutela dei diritti umani rispetto agli effetti nocivi derivanti da degrado ambientale e cambiamento climatico, della quale si terrà conto anche nell’ottica di stabilire l’apporto che la decisione in commento ha dato e potrà dare al suo sviluppo.
A quest’ultimo riguardo va ad esempio segnalata la richiesta di parere avanzata il 9 gennaio 2023 proprio alla Corte IADU da Colombia e Cile, volta a chiarire gli obblighi degli Stati previsti nella Convenzione e negli altri trattati interamericani in relazione all’emergenza climatica.
Il presente contributo intende esaminare tali aspetti, soffermandosi inoltre sul possibile impatto di questa decisione su altri sistemi di protezione dei diritti umani, in particolare quello europeo.
1. Le origini della controversia
Da decenni, gli abitanti di La Oroya, piccola località della Sierra Central del Perù, sperimentano sulla propria pelle una condizione di degrado ambientale a tal punto intensa da aver trasformato la cittadina stessa in un simbolo delle devastanti conseguenze dell’inquinamento di origine antropica.
Al complesso metallurgico locale, insediato nel 1922 e di proprietà privata (eccettuato il periodo 1974-1997), numerosi studi hanno attribuito la responsabilità per il 99% dei contaminanti atmosferici e per concentrazioni di piombo nel sangue degli abitanti tre volte superiori al limite stabilito dall’Organizzazione mondiale della sanità.
Dato un simile livello di contaminazione ambientale, la cittadina è stata catalogata come una delle dieci città più inquinate al mondo (par. 76 e 77 della sentenza) e sacrifice zone (par. 180).
Le denunce formulate nel 2002 da alcuni abitanti di La Oroya contro il Ministero della Salute hanno trovato accoglimento nel 2006, quando il Tribunale Costituzionale peruviano ha ordinato misure correttive. Nello stesso anno, di fronte all’inerzia statale, associazioni quali Asociación Interamericana para la Defensa del Ambiente (AIDA), Asociación Pro Derechos Humanos (APRODEH) ed Earthjustice hanno presentato una petizione alla Commissione interamericana dei diritti umani (la Commissione), che nel 2021 si è pronunciata nel merito, accertando la responsabilità del governo peruviano e, in ossequio agli articoli 35 del Regolamento della Corte e 61 della Convenzione americana, deferendo il caso alla Corte.
2. La decisione della Corte: il consolidamento del diritto a un ambiente sano
Gli organi preposti al controllo sul rispetto dei diritti umani nell’ambito del sistema interamericano, Corte e Commissione, hanno storicamente adottato un approccio progressista in merito ai profili oggetto di analisi, specialmente in relazione alle popolazioni indigene, dato il legame tra queste e l’ambiente circostante.
L’articolo 11 del Protocollo di San Salvador – protocollo addizionale alla Convenzione americana dei diritti umani, relativo ai diritti economici, sociali e culturali – che sancisce che ognuno ha diritto di vivere in un ambiente sano, è stato per lo più interpretato come corollario del diritto alla proprietà ex articolo 21 della Convenzione.
Per le comunità indigene, che svolgono un ruolo chiave nella conservazione della natura – come sottolineato nel Principio 22 della Dichiarazione di Rio su Ambiente e Sviluppo – la proprietà si estende tanto al possesso delle terre ancestrali quanto alle risorse naturali in esse presenti, essenziali alla sopravvivenza fisica ma anche spirituale delle comunità, ed è quindi effettivamente garantita nella misura in cui tali terre risultano scevre di contaminazioni, come confermato, tra gli altri, nei casiComunidad Indígena Yakye Axa Vs. Paraguay (par. 137), Comunidad Indígena Sawhoyamaxa Vs. Paraguay (par. 118 e 121),Pueblo Saramaka Vs. Surinam (par. 154) e, più recentemente, Comunidades Indígenas Miembros de la Asociación Lhaka Honhat (Nuestra Tierra) Vs. Argentina, di seguito Lhaka Honhat (v. infra).
A fronte di questa prassi, il caso La Oroya segna un’importante evoluzione: per la prima volta, la Corte ha riconosciuto la violazione statale dei diritti umani, incluso il diritto a un ambiente sano, di una comunità non indigena per via di una grave contaminazione ambientale.
Il diritto a un ambiente salubre, inoltre, viene definitivamente disancorato da quello alla proprietà ex articolo 21, cessando di essere considerato strettamente funzionale all’esercizio e al godimento di quest’ultimo. In tal modo, la Corte IADU ha consolidato una linea interpretativa già avviata con il Parere Consultivo OC-23/17 (di seguito, Parere) e il caso Lhaka Honhat. Questo sviluppo, come meglio diremo, ha un certo peso anche in rapporto al sistema europeo di protezione dei diritti umani, in cui una simile autonomia non è stata ancora formalmente riconosciuta.
Le conclusioni raggiunte dalla Corte nel caso in esame si inseriscono, come detto, in un percorso già delineato con il Parere, in cui essa aveva riconosciuto, per la prima volta nella sua giurisprudenza, il diritto a un ambiente salubre come autonomo e direttamente azionabile in giudizio, annoverandolo tra quelli protetti da una norma già esistente: l’articolo 26 della Convenzione americana, riguardante i diritti socioeconomici e culturali (par. 56 del Parere).
Per giungere a tale riconoscimento, come esaustivamente illustrato da Lima, la Corte aveva interpretato l’articolo 26 in combinato disposto con l’articolo 29 della Convenzione che, alla lettera d), vieta interpretazioni restrittive tali da escludere o limitare l’effetto di altri strumenti internazionali di tutela dei diritti umani, come la Carta dell’Organizzazione degli Stati americani (OSA), richiamata dallo stesso articolo 26 (par. 57). Questa lettura sistematica ha permesso alla Corte di estendere la propria competenza anche ad altri strumenti internazionali, quali il Protocollo di San Salvador, superando i limiti previsti dall’articolo 19.6 dello stesso.
Quest’ultimo prevede la diretta azionabilità in giudizio dei soli diritti di natura socioeconomica alla libertà sindacale e all’istruzione, escludendo così eventuali ricorsi individuali per le violazioni del diritto a un ambiente sano.
Nel Parere, invece, la Corte aveva finalmente riconosciuto le questioni ambientali sottoposte alla sua attenzione come tematiche suscettibili di trattazione autonoma in virtù dell’articolo 26 della Convenzione, superando l’approccio tradizionale – di cui si è detto – che le inquadrava soltanto in relazione ad altri diritti, come quelli alla vita o alla proprietà.
Tale indirizzo, peraltro, era già stato recepito nel caso Lhaka Honhat del 2020, in cui la Corte aveva ricondotto il diritto a un ambiente sano all’alveo dell’articolo 26 (par. 202) e dichiarato la responsabilità dello Stato argentino per la violazione dello stesso, oltre che di quelli a esso correlati e parimenti ricavati dall’articolo 26, come il diritto all’acqua, al nutrimento adeguato e alla partecipazione alla vita culturale (par. 289).
Nel caso La Oroya, la Corte ha preliminarmente affermato la propria competenza ratione materiae sulle controversie relative all’articolo 26 della Convenzione (par. 24-28), respingendo l’eccezione sollevata dallo Stato convenuto, fondata sull’anzidetto limite costituito dall’articolo 19.6 del Protocollo di San Salvador (par. 19).
Basandosi sui precedenti menzionati, a supporto della propria tesi la Corte ha adottato un’interpretazione sistematica e teleologica di diverse norme di diritto internazionale, coerentemente con il già citato articolo 29 della Convenzione americana, che fa espresso riferimento alle norme di diritto internazionale ai fini dell’interpretazione dello strumento e con l’articolo 31(3)(c) della Convezione di Vienna sul diritto dei trattati, che impone di considerare ogni norma di diritto internazionale rilevante tra le parti nell’interpretazione di un trattato, in questo caso la Convenzione. In particolare, essa ha riconosciuto che le norme socioeconomiche contenute nella Carta dell’OSA (segnatamente gli articoli 30-34, in relazione al diritto a un ambiente salubre), richiamate dall’articolo 26 della Convenzione, costituiscono strumenti normativi di riferimento per l’interpretazione della stessa e rientrano nel quadro giuridico di competenza della Corte ex articoli 62 e 63 della Convenzione.
Dopo aver ribadito che il diritto a un ambiente salubre risulta a pieno titolo incluso nella norma, la Corte ha dunque individuato le diverse componenti in cui esso si articola. Per quanto concerne gli aspetti procedurali, su cui si tornerà, questi si sostanziano nell’accesso alle informazioni, nella partecipazione politica e nell’accesso alla giustizia; sotto il profilo sostanziale, gli Stati sono tenuti a proteggere la natura non tanto in funzione della sua utilità per gli esseri umani, quanto per la sua importanza per tutti gli organismi viventi sul pianeta (par.118).
Venendo, invece, ai doveri che discendono dalla norma, i giudici, rifacendosi ai Guiding Principles on Business and Human Rights (par. 110) e ai principi di prevenzione e precauzione in materia ambientale, hanno ribadito l’obbligo degli Stati di prevenire violazioni dei diritti umani causate da imprese, pubbliche o private, operanti sotto la loro giurisdizione. L’obbligo implica il dovere di regolamentazione e supervisione delle attività industriali, anche in assenza di certezza scientifica sul loro impatto sull’ambiente, secondo un criterio di dovuta diligenza, che in questo caso appare più rigoroso dato l’alto rischio legato all’uso di sostanze inquinanti (par. 126-127). L’obbligo di prevenire i danni ambientali si sostanzia altresì come parte integrante non solo del dovere di tutela dell’ambiente, ma anche di protezione dei diritti alla salute, alla vita e all’integrità fisica (par. 262).
Alla luce delle considerazioni esposte – tra cui l’affermazione della Corte della propria competenza e l’inclusione del diritto a un ambiente sano, e degli obblighi che ne discendono, tra quelli tutelati dall’articolo 26 – l’organo giudicante ha concluso che il Perù, consapevole dell’inquinamento prodotto dal complesso metallurgico e dei relativi effetti nocivi, non avendo ottemperato ai suoi obblighi di regolamentazione e supervisione dell’attività dello stabilimento, ha così violato il diritto a un ambiente sano, alla salute, all’integrità fisica e alla vita, rispettivamente enucleati agli articoli 26, 5, 4.1 della Convenzione (par. 266).
Un aspetto innovativo del caso La Oroya risiede nel fatto che la Corte ha sensibilmente travalicato i confini – già di per sé alquanto pionieristici – tracciati dal Parere e dal precedente Lhaka Honhat. Essa non solo, giova ripetere, ha svincolato il diritto a un ambiente salubre da altri, ma ha addirittura prospettato la possibile natura cogente del corrispondente obbligo di protezione dell’ambiente, in virtù del riconoscimento del diritto da parte di numerosi Stati (par. 129), oltre che in vari strumenti internazionali, quali il già citato Protocollo di San Salvador (art. 11), la Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli (art. 24), la Carta araba dei diritti dell’uomo (art. 38) e la Risoluzione 76/300 dell’Assemblea Generale dell’ONU del 2022.
I giudici hanno suggerito che la protezione dell’ambiente, proprio in ragione di questa ampia affermazione a livello normativo, costituirebbe una di quelle norme imperative e inderogabili, di cui all’articolo 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, poste a tutela di valori fondamentali della comunità internazionale.
Quest’ultimo passaggio, tuttavia, costituisce affermazione piuttosto discussa, come dimostrano le opinioni separate dei giudici Manrique, Mudrovitsch e Ferrer Mac-Gregor Poisot (par. 96-98), su cui v. Trincado Vera.
Anche a fronte del carattere isolato di questa conclusione, è innegabile l’importanza che essa potrebbe avere per lo sviluppo della prassi giurisprudenziale successiva, come tra l’altro ha già avuto modo di dimostrare la stessa Corte nel recente caso Pueblos Rama y Kriol, Comunidad Negra Creole Indígena de Bluefields y otros Vs. Nicaragua. Al par. 417, essa ha ribadito che la protezione ambientale richiede progressivo riconoscimento come norma di ius cogens.
Sebbene dunque, su quest’ultimo aspetto, si rilevi un atteggiamento non unanime della Corte, va però sottolineato, in positivo, come rispetto ad altre questioni – quali l’accertamento della responsabilità del Perù per la violazione del diritto a un ambiente sano – si sia registrata una maggioranza più consistente in confronto ad altri casi (par. 393.3), come la vicenda Lhaka Honhat (par. 370.3). Ancor più consistente è, nel caso Rama y Kriol poc’anzi evocato, la maggioranza nella dichiarazione di responsabilità del Nicaragua per la violazione del diritto a un ambiente salubre contenuto nell’articolo 26, contro cui si è espressa solamente la giudice Pérez Goldberg (par. 530.7). Appare evidente, dunque, come il caso La Oroya abbia già iniziato a dispiegare concretamente i suoi effetti, contribuendo a plasmare prospettive interpretative progressivamente orientate alla tutela ambientale.
La prassi della Corte interamericana in materia di riconoscimento del diritto umano a un ambiente salubre, come si anticipava, appare particolarmente significativa anche alla luce di un raffronto con la diversa giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU). La Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), com’è noto, non sancisce espressamente l’esistenza del diritto a un ambiente salubre come diritto autonomo. Ciò non ha tuttavia impedito alla Corte EDU di sviluppare un’ampia casistica in materia di responsabilità ambientale e di ricavare un diritto all’ambiente tramite interpretazione, in particolare, dei diritti alla vita (art. 2 CEDU) e al rispetto della vita privata e familiare (art. 8 CEDU) come illustra, primo fra tutti, il caso López Ostra v. Spain (par. 51). Allo stesso tempo, casi quali Kyrtatos v. Greece, Atanasov v. Bulgaria e Fägerskiöld v. Sweden, evidenziano come non ogni situazione di degrado ambientale costituisca violazione ai sensi degli articoli 2 o 8 CEDU. Nel contesto europeo, dunque, l’accertamento della responsabilità statale per danni ambientali avviene più faticosamente, poiché subordinato a requisiti più stringenti e rigorosi, in particolare riguardanti la soglia di gravità del danno e lo status di vittima ex articolo 34 CEDU (al riguardo v., ex multis,Fadeyeva v. Russia, par. 70).
3. Dalla democrazia ambientale alla giustizia climatica
Come evidenziato dalla Corte IADU nel caso in esame, il diritto a un ambiente sano si articola in una parte sostanziale e in una procedurale (su tale classificazione, v. Okowa e Peters). I diritti procedurali costituiscono il fulcro del concetto di democrazia ambientale, in base al quale va valutata l’adeguatezza dell’azione statale in relazione all’obbligo di protezione dei diritti umani da danni ambientali, oltre che alla luce dei trattati che disciplinano specificamente la materia, come la Convenzione di Aarhus (che il Perù non ha ratificato). Essa, adottata nel contesto della Commissione economica delle Nazioni Unite per l’Europa, costituisce uno dei principali strumenti internazionali giuridicamente vincolanti che recepisce il decimo principio della Dichiarazione di Rio, secondo cui il metodo migliore ai fini della gestione delle questioni ambientali è quello di assicurare la partecipazione di tutti gli individui interessati.
Essa poggia su tre pilastri: l’accesso all’informazione, la partecipazione del pubblico nei processi decisionali e l’accesso alla giustizia in materia ambientale.
Nel caso qui commentato, la Corte ha ravvisato la violazione, da parte dello Stato convenuto, da un lato dell’articolo 13 per la mancata diffusione di informazioni circa la contaminazione ambientale e i rischi ad essa associati (par. 255) e, dall’altro, dell’articolo 23 per il mancato coinvolgimento dei cittadini nei processi decisionali in materia (par. 261). Essa ha, inoltre, constatato la violazione degli articoli 8 e 25 per l’assenza di indagini adeguate sulle minacce e molestie subite dagli ambientalisti che si battevano contro lo stabilimento industriale (par. 319), in linea con il suo consolidato indirizzo, secondo cui è cruciale includere le comunità, specialmente indigene, nei processi decisionali riguardanti l’ambiente, come evidenziano le sentenze relative alle popolazioni Yakye Axa, Saramaka, Kaliña y Lokono Vs. Surinam, Kichwa de Sarayaku Vs. Ecuador, nonché proteggere gli attivisti ambientali e per i diritti umani, in ragione del ruolo cruciale che ricoprono (v.Kawas Fernández Vs. Honduras e Baraona Bray Vs. Chile).
D’altra parte, il concetto di democrazia ambientale non è estraneo neppure ad altri sistemi. La Corte EDU, in conformità ai principi della Convenzione di Aarhus, ha più volte ribadito il dovere degli Stati di fornire informazioni pertinenti e adeguate al pubblico e di coinvolgerlo nei processi decisionali, consentendogli così di identificare e valutare i rischi, come emerge da casi quali Taşkin c. Turquie (par. 119 e 122), Öneryildiz v. Turkey (par. 62 e 90), Roche v. United Kingdom (par. 167), Budayeva a.o. v. Russia (par. 132), Tătar c. Roumanie (par. 88 e 124) e Brânduşe c. Roumanie (par. 74). Tuttavia, pur essendo i diritti ambientali procedurali ricavabili dalla CEDU, essi, a differenza di quelli garantiti dalla Convenzione di Aarhus, sono generalmente riservati a chi dimostri di essere direttamente colpito dal danno ambientale, come mostra il caso Affaire Cordella e. a. c. Italie (par. 172). Tale approccio si distingue da quello adottato dalla Corte IADU che, nel caso in esame, ha rimarcato il principio di massima divulgazione e trasparenza attiva, nonché l’obbligo positivo in capo alle autorità pubbliche di diffondere, ex officio, le informazioni che detengono (par. 247). Per una disamina particolareggiata inerente al rapporto tra CEDU e Convenzione di Aarhus si rimanda alla seguente analisi.
Più recentemente, nel caso Verein Klimaseniorinnen Schweiz a. o. v. Switzerland (v. qui, qui e qui), la Corte EDU ha rilevato che le misure adottate dalla Svizzera per fronteggiare il cambiamento climatico non solo si erano dimostrate inadeguate rispetto all’obiettivo, ma presentavano anche lacune metodologiche nella loro elaborazione (la Corte indica i principi da seguire in tale fase ai par. 539 e 554 della sentenza). L’adozione di determinate misure finalizzate a contrastare gli effetti del cambiamento climatico deve essere corredata da garanzie che assicurino un processo decisionale inclusivo. In tal senso, la Svizzera è stata ritenuta inadempiente rispetto agli obblighi procedurali, sia relativamente all’acquisizione delle conoscenze necessarie per un corretto svolgimento del processo decisionale, sia alla condivisione delle informazioni rilevanti tra i soggetti potenzialmente esposti agli effetti nocivi del cambiamento climatico (par. 551 e 573).
Il caso Klimaseniorinnen è l’unico dei tre cd. climate change cases su cui si è pronunciata la Corte in aprile 2024 che ha passato il vaglio di ammissibilità, a differenza dei casi Carême v. France e Duarte Agostinho a. o. v. Portugal and 32 others (v. qui). Tra i punti di forza, oltre a quello appena precisato, spicca, il most important procedural take-away: la Corte ha cioè applicato estensivamente i criteri del locus standi, consentendo a un’associazione di agire in giudizio a tutela degli interessi collettivi di cui essa si fa promotrice. Ciò, pur non eludendo il divieto di actio popularis (in tal senso, v. qui) che, come noto, vige nel sistema europeo in virtù dell’articolo 34 CEDU, che limita il ricorso alla sola persona fisica, od organizzazione non governativa, che dimostri di essere vittima di una violazione dei diritti riconosciuti nella CEDU.
Per quanto quest’ultimo profilo di espansione e rafforzamento della legittimazione delle vittime nell’accesso alla giustizia, anche nelle vesti delle associazioni rappresentati i loro interessi, rimanga decisamente apprezzabile, va al contempo stimolato e incrementato il coinvolgimento della comunità. Ciò dovrebbe avvenire non solo attraverso una estensionedei parametri per la legittimazione delle vittime ad accedere alla giustizia, quanto piuttosto mediante l’acquisizione e la successiva condivisione delle informazioni rilevanti tra tutte le parti interessate. In sintesi, la Corte ha affermato che il coinvolgimento della comunità e la trasparenza nelle decisioni ambientali sono essenziali per garantire una risposta adeguata e giusta alle sfide poste dal cambiamento climatico, riflettendo così i valori fondamentali della Convenzione di Aarhus (sul punto, v. Ragni).
Anche sotto questo aspetto, come già in relazione al consolidamento del diritto a un ambiente salubre, l’impatto della Corte IADU potrebbe giocare un ruolo chiave, andando a consolidare nella giurisprudenza della Corte europea una prassi, avviata con il caso Klimaseniorinnen, diretta a consentire l’accesso alla giustizia anche ad associazioni che rappresentino interessi di carattere collettivo. A tal proposito, degna di nota è, nel sistema interamericano, la facoltà in capo ad associazioni e organizzazioni di agire giudizialmente per portare all’attenzione della Corte violazioni sistemi che di diritti umani. L’articolo 44 della Convenzione americana consente difatti a ogni persona, nonché ente non governativo, di presentare petizioni alla Commissione, dispensando al contempo il ricorrente dalla necessità di dimostrare lo status di vittima. Pertanto, non necessariamente chi denuncia deve coincidere con la presunta vittima. In questo senso, è evidente che le associazioni assumano un ruolo essenziale, come mostrano i casi Lhaka Honhat, in cui è l’associazione che dà il nome alla vicenda giudiziaria a ricorrere e a rappresentare le centinaia di comunità indigene poi identificate come vittime e La Oroya, in cui la petizione è stata presentata da associazioni tra cui, si ricordano, AIDA, APRODEH ed Earthjustice, ma le vittime sono state individuate negli abitanti della cittadina.
4. Considerazioni conclusive
Il caso esaminato assume grande rilevanza nel periodo storico attuale: la giurisprudenza interamericana si inserisce, infatti, nel contesto di un più ampio sviluppo del diritto internazionale che riconosce il legame tra diritti umani e ambiente. In questo quadro, preme sottolineare come il contributo della Corte potrebbe rivelarsi particolarmente significativo nel contesto del parere, già menzionato, richiesto da Cile e Colombia alla Corte stessa. Più difficile, ma non completamente da escludere, che esso possa essere tenuto in considerazione anche nel parere richiesto alla Corte internazionale di giustizia con la Risoluzione 77/276 del marzo 2023 su iniziativa della Repubblica di Vanuatu, considerato che nella domanda di chiarimento degli obblighi degli Stati in relazione al cambiamento climatico è contenuto un riferimento ai diritti umani.
Per completezza d’analisi, si ricorda come ulteriori pronunce abbiano già confermato il crescente riconoscimento della protezione ambientale come componente essenziale dei diritti umani. Tra esse, si ricordano la decisione del Comitato ONU sui diritti umani del 2022 sulla responsabilità dell’Australia per la violazione dei diritti delle comunità indigene delle Isole Torres legata a un’inadeguata azione di contrasto al cambiamento climatico (Billy a.o. v. Australia) e, in misura decisamente minore, il parere del Tribunale internazionale per il diritto del mare del 2024 relativo agli obblighi statali di protezione degli ecosistemi marini dagli impatti del cambiamento climatico (esaminabile, ex multis, qui, qui, qui).
A riprova della correlazione tra tutela dell’ambiente e diritti umani, al di fuori delle sedi contenziose figurano, inter alia, la Risoluzione A/HRC/RES/48/13 del Consiglio ONU per i diritti umani, i rapporti A/HRC/31/52 e A/HRC/34/49 del Relatore speciale sui Diritti umani e l’Ambiente, la Raccomandazione 2211 e la Risoluzione 2396 del 2021 dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa.
Certamente, la Corte interamericana ha compiuto un passo decisivo su due fronti: in primo luogo, seguendo l’impostazione già tracciata nel Parere e nel caso Lhaka Honhat, essa ha consolidato il diritto a un ambiente sano, svincolandolo definitivamente da una strumentalità verso altri diritti tramite la sua incorporazione tra quelli protetti dall’articolo 26 della Convenzione.
Di contro, l’approccio della Corte EDU in questo ambito riflette i limiti derivanti dal diritto positivo della CEDU e dalla costruzione del diritto a un ambiente salubre, che può essere ritenuto leso in presenza di condotte che impattino direttamente sulla salute, o costituiscano grave e imminente rischio per la vita del ricorrente.
Pur coerente con la consolidata giurisprudenza europea, questa impostazione risulta problematica nell’accertamento di responsabilità soprattutto nell’ambito di fenomeni diffusi come il cambiamento climatico, in cui l’esistenza di un nesso causale tra azioni od omissioni statali e danni individuali specifici è spesso difficile, quando non anche impossibile, da provare.
In secondo luogo, come evidenziato da alcuni, permangono importanti ‘lezioni’ che il sistema europeo potrebbe, in futuro, trarre da quello interamericano in relazione ai diritti partecipativi. L’influenza della Corte interamericana potrebbe rafforzare la prassi europea, ampliando la legittimazione delle vittime, anche tramite le associazioni rappresentative. Tuttavia, una gestione efficace di un fenomeno dilagante, quale il cambiamento climatico, richiede altresì l’elaborazione e attuazione di politiche di contrasto al cambiamento climatico ancorate a un sempre maggiore coinvolgimento della comunità. Un simile obiettivo potrebbe essere validamente concretizzato non soltanto attraverso un’espansione della legittimazione delle vittime ad accedere alla giustizia ex post – anche se, naturalmente, appare lodevole il rafforzamento della Corte del locus standi effettuato nel caso Klimaseniorinnen, concisamente richiamato, suscettibile di ulteriori sviluppi, che si possono legittimamente attendere già dai prossimi climate cases pendenti davanti alla Corte EDU – ma anche tramite la raccolta e la conseguente diffusione delle informazioni rilevanti tra tutte le parti interessate ex ante. Ciò favorirebbe una crescente consapevolezza nei confronti della sfida climatica e contribuirebbe, per quanto possibile, a prevenirne gli effetti avversi.
In definitiva, la Corte IADU rappresenta una finestra aperta verso una giustizia ambientale più inclusiva. Il riconoscimento del diritto a un ambiente salubre risponde inequivocabilmente all’esigenza di fornire una tutela effettiva in situazioni in cui l’integrità fisica, la salute e persino la vita delle persone sono minacciate da fattori ambientali (Tigre). Il tutto, con la consapevolezza delle criticità legate alla concreta attuazione di questa e, più in generale, di molte decisioni della Corte, considerato il contesto in cui essa opera (sul tema, v. qui e qui).
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