Gli stranieri espulsi in catene ovvero Davide contro Golia e il diritto internazionale
Massimo Starita (Università degli Studi di Palermo)
1. Introduzione
Il 24 gennaio la Casa Bianca ha diffuso una foto, indubbiamente scioccante, accompagnata dalla didascalia Deportations flights have begun. Promises made. Promises kept. In essa si vedono nove uomini incatenati che si avviano verso un aeroplano militare (qui). Non sappiamo nulla di loro. Non sappiamo chi siano, se siano stati condannati per reati gravi, se siano sospettati di terrorismo o semplicemente immigrati irregolari. Non sappiamo se le procedure di espulsione siano state sino a quel momento conformi al diritto, se i loro casi siano stati oggetto di valutazione individuale o se sia in corso un’espulsione collettiva. Non sappiamo nemmeno se si tratti di attori, ingaggiati dalla Casa Bianca per una campagna pubblicitaria.
Sappiamo però che nei giorni immediatamente successivi si è consumata una crisi diplomatica di una certa gravità che ha visto coinvolti gli USA, la Colombia e, in misura minore, il Brasile. La Colombia non ha concesso l’autorizzazione all’atterraggio di almeno due aerei statunitensi con a bordo cittadini colombiani per protestare contro le modalità inumane delle espulsioni in corso e della lesione della dignità delle persone a bordo. Dopo scambi diplomatici caratterizzati da una crescente tensione, nel corso dei quali la Casa Bianca ha minacciato di reagire con misure economiche draconiane al rifiuto colombiano di accettare il rimpatrio dei propri cittadini (vale a dire mediante la sospensione di tutte le richieste di visto di cittadini colombiani e, soprattutto, l’elevazione al 25% prima e al 50%, in un secondo momento, dei dazi all’ingresso di qualsiasi prodotto colombiano), la crisi sembra aver trovato una soluzione quantomeno provvisoria.
Le versioni dei termini dell’accordo raggiunto che hanno offerto alla stampa i due governi sono però piuttosto diverse. Quello colombiano ha dichiarato “superata l’impasse” anche grazie all’invio di aeromobili colombiani per consentire condizioni degne di trasporto. Il governo statunitense ha, invece, dichiarato che la controparte avrebbe accettato “tutte le condizioni” poste, ivi compreso il rimpatrio without limitation or delay di tutti i cittadini colombiani, e che per tale ragione non avrebbe dato seguito alle misure minacciate (qui e qui). Il confronto con il Brasile, concernente anche in questo caso un volo americano con a bordo deportati, per quanto caratterizzato da un livello di tensione più basso, ha avuto anch’esso ad oggetto proteste diplomatiche per le modalità dell’espulsione. Una volta atterrato anticipatamente a Manaus, le autorità brasiliane hanno constatato che le persone a bordo erano incatenate alle mani e ai piedi (v. qui).
Al di là del turbamento emotivo suscitato dalla vicenda, essa solleva anche la questione, non di poco conto (se non altro per la comunità di lettori di Sidiblog), di sapere se il diritto internazionale abbia orientato la (provvisoria) soluzione della crisi o se quest’ultima si sia giocata e si continuerà a giocare su un terreno squisitamente politico. Diciamo subito che a questa domanda non si può dare una risposta definitiva, trattandosi di una vicenda che non è ancora conclusa, ma che potrebbe al contrario essere appena cominciata, poiché s’inquadra nell’ambito di una più ampia politica della nuova amministrazione statunitense di significativo rafforzamento delle espulsioni degli stranieri irregolari. Tuttavia, ci sembra che dalla vicenda si possano ricavare delle indicazioni utili per affermare che il diritto internazionale sia venuto in rilievo, anche se ad esserlo è stato essenzialmente il diritto consuetudinario. Ciò vale in primo luogo per quanto concerne i mezzi di soluzione delle controversie attivati e le misure adottate o minacciate dagli Stati coinvolti; ma anche dal punto di vista materiale, vale a dire delle norme che costituiscono il parametro per valutare la liceità delle modalità delle espulsioni. Anche da questo secondo punto di vista, è al diritto consuetudinario che si deve fare riferimento in questo contesto. Ci pare, insomma, che la vicenda non costituisca affatto un segno della – pretesa – crisi del diritto internazionale di cui tanto si (stra)parla. Allo stesso tempo, però, ad entrare in gioco è il diritto internazionale più “rudimentale” (2), quello che, sul piano delle norme primarie, prescrive dei limiti “minimi” al potere sovrano di espellere gli stranieri (3-4), e che sul piano delle garanzie meno si stacca dalla realtà delle dinamiche dei rapporti di forza (5-7).
2. Le ragioni del rilievo del diritto consuetudinario ai fini della soluzione della controversia.
È opinione comune che le norme consuetudinarie applicabili al fenomeno delle migrazioni siano molto poche; così come ampiamente condivisa è anche l’idea che le norme consuetudinarie siano in gran parte superate dai trattati in materia di diritti umani (v. per tutti Chetail). Ora è indubbio che i trattati sui diritti umani abbiano trovato costante applicazione in relazione al contesto migratorio, e che ciò abbia comportato l’estensione ad esso di limiti al potere statale più profondi rispetto a quanto previsto dal diritto consuetudinario. Così come è notevole che in questo ambito abbiano funzionato meccanismi di controllo, incentrati su organismi internazionali indipendenti e tendenzialmente attivabili dagli individui stessi. Si deve però tenere presente che questo discorso non vale in termini assoluti, ma dipende sempre in una certa misura dal consenso prestato dagli Stati. Ora, come è noto, gli Stati Uniti sono parti solo di due trattati universali in materia di diritti umani rilevanti in questo ambito (la Convenzione contro la tortura e il Patto internazionale sui diritti civili e politici) e non hanno mai accettato le procedure di controllo sul rispetto dei diritti umani, tanto di carattere universale che regionale, attivabili dagli individui che ritengono di essere vittime di violazioni ovvero dagli altri Stati parte in nome di un interesse collettivo (v. qui). Oltre a ciò, gli Stati Uniti in diverse occasioni hanno sottolineato il carattere non vincolante dell’interpretazione resa dagli organismi di controllo (v. ad esempio, Summary record of the 21st meeting: 6th Committee, held at Headquarters, New York, on Friday, 30 October 2009, General Assembly, 64th session, para. 99).
Già questa considerazione rende utile chiedersi se la protesta di Colombia e Brasile riguardi non soltanto la violazione di obblighi derivanti dai trattati appena richiamati, anche ed anzitutto di obblighi di natura consuetudinaria. Il rilievo di questo “pezzo” dell’ordinamento risulta, però, anche da un’ulteriore considerazione. Gli Stati Uniti hanno richiesto con forza alle controparti di accettare i rimpatri. Se questa richiesta ha un fondamento giuridico è perché il potere sovrano di espellere gli stranieri riconosciuto dal diritto consuetudinario ha come corollario l’obbligo dello Stato di cittadinanza di accogliere i suoi cittadini (Goodwin-Gill, p. 56; Oppenheim, p. 350, 382; nonché Corte internazionale di giustizia, Nottebohm, Opinione separata del Giudice Read, p. 47). Si tratterebbe – secondo una felice espressione di Schwarzenberger (International Law, London, 1957, vol. I, p. 361) – di un obbligo strumentale all’attuazione del diritto dell’altro. È insomma sul piano del diritto consuetudinario che la controversia si è sin dall’inizio incanalata ed è dunque su questo piano che va trovata la risposta al problema che ci siamo posti.
3. Il principio di protezione dello straniero e il divieto di espulsione lesive della dignità: la prassi riguardante i cittadini statunitensi.
È importante allora ricordare che non solo i trattati sui diritti umani, così come interpretati dai rispettivi comitati, ma già il diritto consuetudinario in materia di trattamento dello straniero, e in particolare l’obbligo di protezione della sua persona, vieta modalità di espulsioni lesive della dignità delle persone. Così come è importante ricordare che una parte significativa della prassi e della giurisprudenza rilevanti in materia si sono formate con riferimento a casi di maltrattamenti riguardanti proprio cittadini statunitensi (oltre che di cittadini di Paesi europei, naturalmente; v. il sesto rapporto di Garcia Amador sulla responsabilità internazionale, p. 30 ss.).
Questo specifico aspetto del principio di protezione è stato inserito dalla Commissione di diritto internazionale nel Progetto di articoli sull’espulsione degli stranieri adottato nel 2014. L’art. 13, par. 1, collocato nella Parte III, Capitolo I del Progetto, recante “General provisions” in materia di “Protection of the rights of aliens subject to expulsion”, recita: “[a]ll aliens subject to expulsion shall be treated with humanity and with respect for the inherent dignity of the human person at all stages of the expulsion process”. Proprio per la sua natura di “general provision”, l’art. 13 si riferisce a qualsiasi Stato coinvolto in una procedura di espulsione (che sono almeno due: lo Stato di espulsione e lo Stato di destinazione). L’articolo 17 assegna poi un contenuto più preciso al concetto di dignità in relazione allo Stato di espulsione, stabilendo che “the expelling State shall not subject an alien subject to expulsion to torture or to cruel, inhuman or degrading treatment or punishment”.
La natura consuetudinaria di questo standard non è stata contestata durante i dibattiti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, in particolare non dal rappresentante degli Stati Uniti, i quali pure avevano criticato il lavoro della Commissione, dal momento che “far from codifying rules of relevant customary international law… sought to amend established State practice and obligations under bilateral and multilateral extradition treaty regimes”. Tra gli esempi forniti dal rappresentante del governo statunitense di un simile eccesso di sviluppo progressivo del diritto internazionale non figura però il rispetto della dignità e il divieto di tortura o di trattamenti inumani o degradanti (v. ancora General Assembly, 64th session, Summary record of the 21st meeting : 6th Committee, 30 October 2009, paragrafi 97-100).
Non sappiamo se il fatto che gli Stati Uniti non avessero nulla da eccepire al riguardo derivasse dalla considerazione che, come già ricordato, sia proprio in relazione a casi riguardanti i cittadini americani che questa norma ha trovato significativa applicazione tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima parte del Novecento. Ciò anche perché né la Commissione né il Relatore Speciale hanno fornito indicazioni riguardo a prassi e opinio juris.
La prassi da guardare è anzitutto quella fornita dalle due Commissioni dei reclami istituite, prima nel 1868 e poi nel 1923, tra Messico e Stati Uniti per risolvere una serie di controversie, alcune delle quali riguardavano specificamente casi di espulsione, in cui non si contestava la decisione di espulsione, che rientrava nell’insindacabile potere dello Stato, ma le modalità con cui quest’ultima era stata eseguita.
La prima decisione risale al 1868 e riguarda il caso Thomas Gourrier, insultato, ridicolizzato e costretto a camminare per trecento chilometri per poi essere detenuto. Secondo l’arbitro Thornton “there is no excuse for the cruelty with which the claimant appears to have been treated by General Figueroa, the unnecessary and painful march to which he was subjected together with his subsequent imprisonment” (M. Whiteman, Damages in International Law, vol. I, Washington, 1937, pp. 483, 484). Non si tratta del resto di un caso isolato, se è vero che il caso James B. Kindred fu considerato dalla Commissione “almost the same as that of Thomas Gourrier”, ivi, p. 485; (v. anche il caso Joseph A. Costa, ivi, p. 486). Nel 1928, davanti alla nuova Commissione bilaterale dei reclami istituita cinque anni prima, nell’affare Daniel Dillon, che era stato, tra le altre cose, incarcerato per quindici giorni senza poter comunicare con l’esterno. La Commissione osservò a tale riguardo: “there may be no rule of international law or practice with regard to precise, proper methods of expelling an alien, such as those that have been suggested by writers by conducting a man to an international border or by delivering him to a representative of his government. But when resort is had to a use of unnecessary force or other improper treatment there may be ground for a charge such as is made in the instant case, account being taken of the manner in which expulsion might have been effected” (qui).
Molti anni dopo, è sempre in relazione ai cittadini americani che lo standard minimo di trattamento dello straniero nel corso di un’espulsione, è stato riaffermato nella giurisprudenza arbitrale. Il Tribunale arbitrale Iran/Stati Uniti, nei casi Yaeger e Rankin (qui e qui), decisi rispettivamente il 2 e il 3 novembre 1987, affermò che “alcune norme minime procedurali e sostanziali sono comunque garantite dal diritto internazionale”… tra le quali quella che impone di “concedere allo straniero da espellere un tempo sufficiente per sistemare i propri affari” e quella che vieta le espulsioni “arbitrarie o discriminatorie”.
4. Cenni ad altre manifestazioni della prassi.
Se si tiene presente la giurisprudenza appena ricordata, dovrebbe risultare chiaro che il costante e diffuso riconoscimento, tanto in dottrina (v. ad es. Kalin/Kunzli, cap. 18) quanto da parte dei treaty-based bodies, dell’applicabilità del divieto di tortura, trattamenti inumani o degradanti in ogni circostanza (v. ad esempio qui) e, dunque, a che nel contesto di una procedura di espulsione – riconoscimento che trova la sua ragione nella natura assoluta del divieto stesso – corrisponde ad una norma di diritto internazionale generale preesistente. A completamento del discorso, si può aggiungere che il divieto di cui parliamo è imposto in tempo di pace come nel corso di un conflitto, se è vero che l’articolo 36 della IV Convenzione di Ginevra, rubricato “Methods of repatriation”, stabilisce che i rimpatri “shall be carried out in satisfactory conditions as regards safety, hygiene, sanitation and food” (qui). Nell’interpretare questo articolo, il cui testo si riferisce ai rimpatri volontari, vale a dire richiesti dalle persone protette, la Commissione per i reclami tra Eritrea ed Etiopia, in una decisione del 17 dicembre 2004 (qui), ha ritenuto che esso trova applicazione anche in relazione alle espulsioni decise da uno degli Stati belligeranti, considerandolo dunque espressione di un principio generale. Anche in tali circostanze, quindi, le espulsioni devono soddisfare standard umanitari minimi, standard che, secondo la Commissione erano stati violati in diversi casi che le erano stati sottoposti (pp. 23-24).
5. La questione delle garanzie: a) azione diplomatica e contromisure.
Anche se si passa alla questione delle garanzie, vale a dire dei meccanismi sin qui attivati per assicurare il rispetto del diritto internazionale, la vicenda dei “deportati in catene” è di notevole interesse. Le ragioni sono tre: (a) la prima è che questo caso ci fornisce un esempio di due meccanismi che la stessa dottrina si era abituata a considerare obsoleti nel campo dei diritti umani e cioè, da un lato, l’adozione di contromisure da parte dello Stato di cittadinanza e, dall’altro lato, l’attivazione di meccanismi diplomatici per risolvere la controversia; (b) il secondo motivo di interesse è che la contromisura concretamente adottata solleva la questione se sia lecito, in base al diritto internazionale, violare – a titolo di contromisura – un obbligo previsto da un trattato sui diritti umani; (c) da ultimo, viene in rilievo il tema dell’efficacia delle contromisure e della protezione diplomatica in un contesto caratterizzato da una notevole sproporzione in termini di “potenza” tra lo Stato autore dell’illecito e lo Stato leso.
Come abbiamo ricordato in apertura, gli Stati coinvolti hanno dato diverse versioni sull’andamento dei negoziati. Ciononostante, i pochi fatti certi e la stessa presenza di versioni diverse su altri permettono di svolgere le seguenti considerazioni.
La prima riguarda la qualificazione delle posizioni assunte dai due presidenti di Colombia e Brasile. È certo che le proteste e le richieste di chiarimenti e di porre fine al trattamento illecito dei cittadini rientrino nel concetto di protezione diplomatica, consistendo in un’azione “diplomatica” volta ad ottenerne l’immediata cessazione dell’illecito da parte dello Stato responsabile. Diverso è il discorso da fare riguardo al rifiuto di autorizzare l’atterraggio dei due aerei militari statunitensi. Se la funzione della protezione diplomatica è esclusivamente quella di “invocare la responsabilità”, come vuole l’articolo 1 del Progetto di articoli sulla protezione diplomatica della Commissione di diritto internazionale (v. anche il relativo commento qui), è piuttosto facile notare che l’obiettivo seguito dal governo colombiano con l’adozione di siffatta misura va oltre la semplice invocazione. Ciò detto, l’esatta configurazione della misura stessa non può essere fatta in astratto, ma dipende necessariamente dalle circostanze. Per quanto riguarda il Brasile che, a quanto risulta, dopo un imprevisto atterraggio dell’aeromobile statunitense nell’aeroporto di Manus avrebbe proceduto al trasbordo delle persone su un proprio aereo, dopo aver riscontrato la sottoposizione di queste ultime a trattamenti inumani o degradanti, ci pare di trovarci di fronte a una misura di enforcement, con cui lo Stato leso procede all’attuazione del diritto internazionale in sostituzione dello Stato autore dell’illecito (fermo restando, peraltro, il problema delle spese e dei risarcimenti alle vittime). Una simile ricostruzione riposa sulla circostanza che lo Stato leso ha agito sul proprio territorio nell’esercizio di poteri sovrani. Per quanto riguarda la Colombia, che ha sostanzialmente “inviato indietro” l’aeromobile, una simile ricostruzione non sembra possibile. Neanche il fatto che, secondo le ricostruzioni fornite sulla stampa, il governo colombiano ha contestualmente inviato un proprio aereo negli Stati Uniti per effettuare il trasporto presenta una coloritura di enforcement. È chiaro, infatti, che l’ingresso nel territorio statunitense è avvenuto sulla base del consenso statunitense e, dunque, di un accordo tra le Parti della controversia. Il diniego di autorizzazione all’atterraggio sembra piuttosto configurabile come contromisura, essendo volta ad ottenere la cessazione della violazione in corso e garanzie circa la sua non ripetizione. Che si tratti di una contromisura – e non di ritorsione – deriva dalla considerazione, cui abbiamo fatto cenno più sopra, che l’obbligo dello Stato di riammettere i propri cittadini è il necessario corollario del diritto dell’altro Stato di espellere gli stranieri.
6. B) Il problema del rispetto dei diritti umani nell’esercizio del potere di adottare contromisure.
Si deve a questo punto rapidamente affrontare una questione che teoricamente potrebbe porsi. L’obbligo di accogliere i propri cittadini è, come noto, sancito in diversi trattati che tutelano i diritti umani, e tra questi, nell’art. 12, paragrafo 4, del Patto sui diritti civili e politici e nell’art. 22, par. 5 della Convenzione americana. È dunque da ritenersi che la Colombia abbia violato gli obblighi derivanti dalle riferite disposizioni? Se la risposta fosse affermativa ne deriverebbe un problema di responsabilità della Colombia nei riguardi dei suoi cittadini, dato che nessuna clausola dei trattati, né tantomeno il diritto internazionale generale in materia di responsabilità (v. il Progetto di articoli sulla responsabilità degli Stati per fatto illecito, art. 50, par. 1 b) consentono di violare i diritti umani a titolo di contromisura. Ci sembra, però, che violazione non vi sia stata. Le misure adottate dalla Colombia vanno intese, infatti, come volte a sospendere provvisoriamente l’ingresso dei cittadini nel territorio statale, subordinandolo al rispetto delle garanzie di cui abbiamo parlato da parte dello Stato autore delle espulsioni. Un simile provvedimento, insomma, non sembra costituire un diniego del diritto umano all’ingresso nel proprio Paese, ad un tempo per il suo carattere provvisorio e per la sua funzione di tutela dei diritti umani delle persone che indirettamente ne sono colpite. Il Patto sui diritti civili e politici vieta, del resto, il rifiuto arbitrario dell’ingresso di un cittadino, sicché, per le ragioni or ora indicate, la misura in esame potrebbe integrare una di quelle rare ipotesi in cui il Comitato dei diritti umani ammette la non arbitrarietà di una misura statale che impedisca l’ingresso a suoi cittadini (General Comment No. 27, par. 21). Solo per completezza del ragionamento, occorre aggiungere che la liceità di una simile misura sarebbe da escludere solo qualora la sua attuazione esponesse le persone interessate al serio rischio di essere sottoposti ad altri e più gravi trattamenti inumani e degradanti una volta ritornati nello Stato di espulsione (ciò in ragione dell’obbligo di non refoulement derivante dal divieto di simili trattamenti).
7.C) Efficacia delle garanzie e rapporti di forza.
L’ultima considerazione da svolgere – a chiusura di questo breve commento – riguarda l’efficacia dei meccanismi di garanzia sin qui attivati per ottenere il rispetto delle norme internazionali in tema di espulsione. In prima battuta, non si può non rilevare che, in un contesto quale quello fornito dalla vicenda esaminata, la capacità dell’azione diplomatica e delle contromisure adottate dallo Stato leso di produrre l’effetto voluto dipende dai rapporti di forza tra i due Stati parti della controversia. È il meccanismo stesso delle contromisure – che consente sì allo Stato leso di farsi giustizia da sé, ma all’interno di un rapporto bilaterale con lo Stato autore dell’illecito – a rendere l’istituto “poroso” rispetto a considerazioni extra-giuridiche, come in particolare il potere economico relativo dei due Stati implicati. Ciò non significa, però, necessariamente che l’azione di uno Stato “piccolo” sia destinata a fallire. Ciò almeno per due ragioni. In primo luogo, bisogna considerare anche le possibili ripercussioni interne che un’escalation può produrre, anche per una “Grande Potenza”. Sotto questo profilo le minacce di matrice economica del governo statunitense, consistenti nell’innalzamento dei dazi doganali, ci sembrano emblematiche. In secondo luogo, perché non sempre vicende di questo tipo restano nel ristretto ambito di un confronto bilaterale. Intendiamo dire che i singoli Stati che ritengono di essere lesi da un illecito compiuto dalla medesima “Grande Potenza” hanno interesse a concertare soluzioni comuni. Anche sotto questo profilo, la vicenda in esame offre qualche spunto di riflessione. La politica statunitense in atto coinvolge, infatti, diversi Stati centro e sud-americani, e non è un caso che a un primo tentativo di questi ultimi di adottare una posizione comune, nell’ambito della Comunità degli Stati latinoamericani e caraibici, abbia fatto seguito un’offensiva politica statunitense – consistente nella minaccia di dazi, questa volta rivolta a diversi Stati dell’area, incluso il Messico – volta a rompere sul nascere una prospettiva unitaria (qui).
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