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Un po’ di chiarezza sulla mancata consegna di Osama Elmasry Njeem alla Corte penale internazionale

Khrystyna Gavrysh (Università degli Studi di Ferrara)

La mancata convalida dell’arresto (avvenuto il 19 gennaio 2025 da parte della polizia giudiziaria di Torino) di Osama Elmasry Njeem (conosciuto anche come Osama Almasri Njeem), cittadino libico, da parte della Corte d’appello di Roma in data 21 gennaio 2025, nonostante la pendenza di una richiesta di consegna da parte della CPI, ai sensi dell’art. 89, par. 1, Statuto della CPI (Statuto), sta mettendo sotto una lente di ingrandimento i rapporti di cooperazione verticale dell’Italia con la Corte penale internazionale (CPI). Tali rapporti sono regolati dalla l. 20 dicembre 2012, n. 237 concernente le norme per l’adeguamento alle disposizioni dello Statuto istitutivo della Corte penale internazionale.

La richiesta di consegna di Osama Elmasry Njeem ha rappresentato la prima significativa verifica della cooperazione dell’Italia con la CPI.

Il cittadino libico è, infatti, accusato dal giudice internazionale di aver commesso molteplici crimini durante il suo operato nella prigione di Mitiga (Libia) a partire dal 15 febbraio 2015 (Situation in Libya), situazione deferita alla CPI dal Consiglio di sicurezza nella risoluzione 1970 (2011). Nel corso del periodo sotto indagine, l’accusato ha rivestito il ruolo del direttore dell’Istituzione di Riforma e Riabilitazione della Polizia Giudiziaria presso il Ministero della Giustizia a Tripoli, con il compito di supervisionare le prigioni, tra cui per l’appunto quella di Mitiga. Njeem era, inoltre, membro di Tripoli-based Special Deterrence Forces (SDF/RADA), nelle fila del quale egli prese parte agli scontri armati con la Brigada 444, affiliata al Ministero della Difesa libico, che causarono diverse vittime e feriti tra la popolazione civile (si tratta solo di due dei vari gruppi armati che si contendono il potere in Libia a seguito della caduta del regime guidato da Gheddafi; sul punto v. Amnesty International, “Every Day We Die a Thousand Times”. Impunity For Crimes gainst Humanity in Tarhouna, Libya, 2024). In tale veste l’accusato avrebbe compiuto svariati crimini internazionali, oggetto del mandato di arresto internazionale del 18 gennaio 2025, tra cui i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità (vedi il comunicato stampa del Procuratore generale della CPI del 22 gennaio 2025, Situation in Libya: ICC arrest warrant against Osama Elmasry Njeem for alleged crimes against humanity and war crimes).  In particolare, gli sono stati contestati i seguenti crimini di guerra: violazione della dignità personale ai sensi dell’art. 8, par. 2, lett. c), ii), dello Statuto; trattamento crudele ai sensi dell’art. 8, par. 2, lett. c), i) dello Statuto; tortura ai sensi dell’art. 8, par. 2, lett. c), i) dello Statuto; stupro e violenza sessuale ai sensi dell’art. 8, par. 2, lett. e), vi), dello Statuto; e omicidio ai sensi dell’art. 8, par. 2, lett. c), i), dello Statuto. Inoltre, egli è accusato di seguenti crimini contro l’umanità: prigionia ai sensi dell’art. 7, par. 1), lett. e), dello Statuto; tortura ai sensi dell’art. 7, par. 1, lett. f), dello Statuto; stupro e violenza sessuale ai sensi dell’art. 7, par. 1, lett. g), dello Statuto; omicidio ai sensi dell’art. 7, par. 1, lett. a), dello Statuto; e persecuzione ai sensi dell’art. 7, par. 1, lett. h), dello Statuto. Come chiarito dal Procuratore stesso, siffatti crimini sarebbero stati compiuti per ragioni di natura ideologica, ossia “for religious reasons (such as being Christian or atheist); for their perceived contraventions to SDF/RADA’s religious ideology (e.g. suspected of ‘immoral behaviour’ and homosexuality); their alleged support or affiliation to the other armed groups (…)” (v. il comunicato stampa del 22 gennaio 2025, cit.).

Lo stesso giorno in cui è stato emesso il mandato di arresto da parte delle I Camera preliminare della CPI, la Cancelleria della CPI ha trasmesso una richiesta di cooperazione a sei Stati, tra cui anche l’Italia, mediante gli organismi individuati da ciascuno di essi, Ministero della giustizia nel caso dell’Italia. Contestualmente è stata fatta la richiesta all’Interpol di emettere una red notice. Nonostante la richiesta di cooperazione sia stata resa pubblica mediante un comunicato stampa del Ministero della giustizia del 21 gennaio 2025 (Corte Penale Internazionale, Nordio valuta invio atti al Procuratore Generale di Roma sul caso Habish), lo stesso giorno Elmasry è stato liberato per mancata convalida dell’arresto e mancata emissione di una misura cautelare, e successivamente scortato con un volo di Stato nel suo Paese di origine, dove – è inutile dirlo – è stato accolto da una folla di sostenitori (v. Almasri a Tripoli, portato in trionfo tra cori di scherno per l’Italia – Video, 22 gennaio 2025).

Venendo, dunque, al quadro giuridico – sia nazionale, che internazionale – applicabile in tale materia, giova anzitutto ricordare che tutti gli Stati parti dello Statuto – compresa l’Italia, che lo ha ratificato con la l. 12 luglio 1999, n. 232 – hanno l’obbligo generale di piena cooperazione con la CPI ai sensi dell’art. 86 dello Statuto (in dottrina, v. Chiavario). L’art. 88 dello Statuto aggiunge che, “[s]tates Parties shall ensure that there are procedures available under their national law for all of the forms of cooperation which are specified under this Part”. Inoltre, secondo l’art. 59 dello Statuto, “[a] State Party which has received a request for provisional arrest or for arrest and surrender shall immediately take steps to arrest the person in question in accordance with its laws and the provisions of Part 9”. Ai sensi dell’art. 89, par. 1, dello Statuto, riguardante nello specifico la consegna di persone alla Corte, “(…) States Parties shall, in accordance with the provisions of this Part and the procedure under their national law, comply with requests for arrest and surrender”. Infine, l’art. 184, par. 1, delle Regole di procedura della Corte stabilisce che “[t]he requested State shall immediately inform the Registrar when the person sought by the Court is available for surrender”.

Come accennato poc’anzi, l’ordine di esecuzione contenuto nella legge n. 232 del 1999 è stato integrato dalla normativa di attuazione contenuta nella legge 237 del 2012, il cui art. 1 sancisce che “[l]o Stato italiano coopera con la Corte penale internazionale conformemente alle disposizioni dello Statuto della medesima Corte, (…) e della presente legge, nel rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano”. La competenza esclusiva a curare siffatti rapporti di cooperazione è attribuita al Ministro della giustizia ai sensi dell’art. 2, 1° comma, della medesima legge, il quale “dà corso alle richieste formulate dalla Corte penale internazionale, trasmettendole al procuratore generale presso la corte d’appello di Roma perché vi dia esecuzione”. A tal fine, e dunque, “[p]er il compimento degli atti di cooperazione richiesti [si può ricorrere all’applicazione di] norme del codice di procedura penale”, come previsto dall’art 3, della l. 237/2012. Siffatta disposizione è, del resto, espressione di un principio generale sancito in materia di cooperazione dall’art. 696, 3° comma, c.p.p., in base al quale, si applicano le disposizioni comuni, “[s]e le norme [di diritto internazionale o europeo] indicate ai commi 1 e 2 mancano o non dispongono diversamente”.

Mentre né lo Statuto della CPI (sul punto v. anche Babaian, pp. 108-109), né la l. 237 del 2012 prevedono cause di rifiuto della consegna, l’art. 697, 1° comma bis, c.p.p., stabilisce che “[i] Ministro della giustizia non dà corso alla domanda di estradizione quando questa può compromettere la sovranità, la sicurezza o altri interessi essenziali dello Stato”.

L’ordinanza del 21 gennaio 2025 di mancata convalida dell’arresto di Elmasry Njeem (reperibile su Giurisprudenza penale web) giustifica siffatto provvedimento con alcune argomentazioni non prive di contraddizioni tanto estrinseche in relazione al quadro giuridico così individuato, quanto intrinseche.

La Corte d’appello di Roma, dopo aver stabilito la propria competenza ai sensi degli articoli 4 e 15 della l. 237/2012 e ricordato che gli atti le sono stati trasmessi dalla polizia giudiziaria di Torino ai sensi dell’art. 11 della medesima legge concernente l’applicazione della misura cautelare in carcere, contestualmente alla loro trasmissione al Ministro della giustizia il 19 gennaio 2025, chiarisce che, “[p]ur a fronte della correttezza del richiamo normativo (art. 11), la procedura in concreto attuata dagli operanti è stata, invece, quella prevista per le procedure estradizionali dall’art. 716 c.p.p., che prevede la possibilità dell’arresto d’iniziativa da parte della polizia giudiziaria dei soggetti attinti da mandati di arresto internazionale a fini estradizionali. Diversamente la Legge 237/2012 (…) non prevede tale possibilità per l’Autorità di polizia giudiziaria ma prescrive una procedura analiticamente scandita dall’art. 11 per i casi in cui la richiesta di consegna da parte della Corte penale internazionale sia già pervenuta e dall’art. 14 per i casi in cui tale richiesta non sia ancora pervenuta” (p. 2 dell’Ordinanza). La Corte prosegue affermando che, “(…) sembra appena il caso di osservare che la procedura applicativa della misura cautelare prevista dalla predetta normativa speciale, prescrive una prodromica e irrinunciabile interlocuzione tra il Ministro della Giustizia e la procura generale presso la corte d’appello di Roma” (p. 2 dell’Ordinanza). Nel caso di specie invece la polizia giudiziaria avrebbe effettuato l’arresto ai sensi dell’art. 716 c.p.p.. L’applicazione della norma in questione non sarebbe giustificata dall’art. 3 della l. 237/2012, in quanto “la applicazione delle norme richiamate dal predetto art. 3 della legge è possibile soltanto laddove la legge stessa non abbia provveduto sul punto” (p. 2 dell’Ordinanza). Nella fattispecie concreta, infatti, “deve inequivocabilmente accedersi al principio secondo cui Ubi lex voluit dixit, in virtù del quale l’arresto d’iniziativa della polizia giudiziaria nella procedura di consegna su mandato della Corte p.i. deve ritenersi escluso in quanto non espressamente previsto dalla normativa speciale che, come detto, ha specificamente previsto ogni adempimento relativo alla compressione dello status libertatis della persona”.

È curioso, anzitutto, osservare come la Corte d’appello di Roma si ritenga competente ai sensi dell’art. 4 della l. 237/2012, in combinato disposto con l’art. 15 della l. 237 della l. 237/2012, salvo poi basare in parte la propria decisione proprio sulla circostanza che tale norma non è stata rispettata. Infatti, le alternative sono due: o la Corte d’appello di Roma era competente a decidere sulla convalida dell’arresto, o forse avrebbe dovuto esserlo la Corte d’appello di Torino, ossia luogo dell’arresto del cittadino libico (ipotesi questa prevista dall’art. 10, 1° comma, c.p.p. in relazione alla competenza per reati commessi all’estero). Infatti, ai sensi dell’art. 4, 3° comma, della l. 237/2012, “[l]a corte d’appello di Roma, ove ne ricorrano le condizioni, dà esecuzione alla richiesta con decreto”, mentre l’art. 15 della stessa legge individua espressamente la Corte d’appello di Roma come giudice competente. Considerato che il Ministro della giustizia non possiede alcuna discrezionalità politica ai sensi dell’art. 4 della l. 237/2012 circa il rifiuto della richiesta di cooperazione con la CPI, essendo lo stesso un mero veicolo nella trasmissione di tale richiesta, appare assai difficile inquadrare il suo intervento come un requisito necessario per concedere la convalida dell’arresto. Laddove, invece, siffatta autorità giudiziaria avesse ritenuto – come ha fatto – tale condizione come necessaria, nulla toglie che la giurisdizione italiana potesse comunque essere esercitata in funzione di altri criteri individuati dagli art. 7 c.p. ss. In quest’ultima ipotesi, il fascicolo avrebbe potuto essere trasmesso alla autorità competente, ossia – come anticipato poc’anzi – quella del luogo dell’arresto del soggetto.

In secondo luogo, l’art. 11 della l. 237/2012 non prevede alcunché in materia di competenza ad eseguire l’arresto, limitandosi a stabilire che “il procuratore generale presso la corte d’appello di Roma, ricevuti gli atti, chiede alla medesima corte d’appello l’applicazione della misura della custodia cautelare nei confronti della persona della quale è richiesta la consegna”. Nel caso di specie tale misura non è però stata richiesta proprio per mancato intervento del Ministro della giustizia, il quale era stato “interessato da questo Ufficio” (p. 4 dell’Ordinanza). Non sono presenti altre norme specifiche in materia di arresto – misura precautelare (Gaito, cit.) – nella l. 237/2012 concernenti la sua esecuzione, circostanza questa che giustifica il ricorso all’applicazione complementare della disciplina del Libro XI del c.p.p. L’interpretazione fornita dalla Corte d’appello di Roma, invece, da un lato è contra legem, in quanto in contrasto con l’art. 3, 1° comma, l. 237/2012, il quale prevede che “[i]n materia di consegna, di cooperazione e di esecuzione di pene si osservano, se non diversamente disposto dalla presente legge e dallo statuto, le norme contenute nel libro undicesimo, titoli II, III e IV, del codice di procedura penale”, tra cui anche l’art. 716 c.p.p. Dall’altro lato, siffatto approccio implica altresì una interpretazione restrittiva dell’art. 59 Statuto CPI, ponendosi in contrasto con l’oggetto e lo scopo dello Statuto medesimo, ossia con il suo telos – e, dunque, anche con l’art. 31, par. 1, della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati (a tal proposito v. Dörr e Schmalenbach, v. anche Gavrysh) – improntato alla esigenza di trarre alla giustizia i responsabili dei crimini internazionali e alla massima cooperazione degli Stati a tal fine (v. il preambolo dello Statuto). Infine, la lettura dell’art. 11 della l. 237/2012 offerta dalla Corte d’appello di Roma si pone in contrasto anche con l’obbligo della sua interpretazione conforme rispetto allo Statuto della CPI (sull’argomento in generale v. ampiamente Salerno).

A questo punto sorge, tuttavia, un altro problema. L’art. 716 c.p.p. dispone, infatti, che, “[n]ei casi di urgenza, la polizia giudiziaria può procedere all’arresto della persona nei confronti della quale sia stata presentata domanda di arresto provvisorio (…). L’autorità che ha proceduto all’arresto (…) pone l’arrestato a disposizione del presidente della corte di appello nel cui distretto l’arresto è avvenuto, mediante la trasmissione del relativo verbale”. Pertanto, anche in applicazione di tale norma, quantomeno la convalida dell’arresto era di competenza della Corte d’appello di Torino, senza peraltro l’esigenza di alcun intervento preventivo da parte del Ministro della giustizia (sul punto v. Gaito (a cura di), Codice di Procedura Penale commentato, Torino, 2012). Arresto che comunque doveva essere convalidato in forza dell’art. 59 Statuto CPI, norma di natura self-executing, a parere della scrivente, in forza dell’ordine di esecuzione contenuto nella legge di autorizzazione alla ratifica dello Statuto, che vincola tutti i poteri dello Stato in egual misura (sulla natura self-executing di norme di diritto internazionale v. in maniera esaustiva B. Conforti; R. Baratta); il linguaggio giuridico della disposizione non lascia, infatti, alcun margine circa una tale interpretazione (Babaian, p. 109; Klamberg, p. 432; Schabas, p. 903 ss.).

Non essendo il Ministro della giustizia altro che un canale di comunicazione con la CPI, non si vede come l’irritualità del suo mancato intervento – di natura meramente procedurale – possa aver condotto un giudice – pur in concreto competente – a violare un obbligo internazionale di natura vincolante anche in capo al medesimo. Anche volendo abbracciare un approccio procedurale più rigoroso, la Corte d’appello di Roma si sarebbe potuta dichiarare priva di competenza, rimettendo gli atti alla Corte d’appello di Torino. Nessuna di queste due strade è stata però intrapresa.

Veniamo ora alla condotta del Ministro della giustizia Carlo Nordio. Come si legge nella già menzionata ordinanza della Corte d’appello di Roma, il Ministro Nordio veniva informato il 19 gennaio 2025 dell’arresto di Osama Elmasry Njeem dalla DIGOS di Torino, e sollecitato il 20 gennaio 2025 dall’ufficio del Procuratore presso la Corte d’appello di Roma. In un comunicato stampa del 21 gennaio 2025, lo stesso giorno in cui la Corte d’appello di Roma si riuniva per decidere sulla convalida e lo stesso giorno in cui scadevano le 48 ore garantite dall’art. 13 della Costituzione per trarre l’arrestato davanti all’autorità giudiziaria, il Ministro emetteva un comunicato nel quale annunciava: “È pervenuta la richiesta della Corte penale internazionale di arresto del cittadino libico Najeem Osema Almasri Habish. Considerato il complesso carteggio, il Ministro sta valutando la trasmissione formale della richiesta della CPI al Procuratore generale di Roma, ai sensi dell’articolo 4 della legge 237 del 2012” (cit. supra). Il tempismo non è certamente dei migliori, considerando anche che la stessa Corte d’appello di Roma aveva ormai ricevuto gli atti da due giorni. Tuttavia, secondo quanto previsto dall’art. 390 c.p.p., “[i]l giudice fissa l’udienza di convalida al più presto e comunque entro le quarantotto ore successive [alla richiesta di convalida] dandone avviso, senza ritardo, al pubblico ministero e al difensore”. Considerando che la richiesta di convalida, come si apprende dalla Ordinanza (p. 1) era pervenuta lo stesso giorno della sua emissione, la Corte di appello avrebbe potuto senza dubbio temporeggiare, sfruttando tutto il margine temporale concesso dall’art. 390 c.p.p. Tale circostanza viene ulteriormente confermata laddove si voglia sostenere l’applicazione dell’art. 716 c.p.p. al caso di specie. Tale norma, al 3° comma, c.p.p., prevede infatti che la Corte d’appello ha novantasei ore dall’arresto per disporre il provvedimento di convalida del medesimo. La norma stabilisce, inoltre, che, “[q]uando non deve disporre la liberazione dell’arrestato, il presidente della Corte di appello, entro le successive quarantotto ore, convalida l’arresto con ordinanza disponendo, se ne ricorrono i presupposti l’applicazione di una misura coercitiva”. La Corte d’appello, in tale ipotesi, informa il Ministro della giustizia, che ha dieci giorni dalla convalida per richiederne il mantenimento della misura, che in caso contrario viene revocata (art. 716, 3° e 4° comma, c.p.p.). Questa evidentemente poteva essere una delle strade da percorrere.

Ciò non di meno, lo stesso giorno l’accusato veniva non solo liberato “[i]n assenza di richiesta di applicazione di una misura cautelare da parte del Procuratore generale per mancata trasmissione degli atti della Corte penale internazionale di competenza ministeriale” (p. 4 dell’ordinanza), ma anche prontamente attinto da un decreto di espulsione del Ministro dell’interno Matteo Piantedosi. Espulsione questa eseguita per motivi di sicurezza nazionale, come chiarito dal Ministro stesso nel corso di un’interrogazione parlamentare del 23 gennaio 2025 sull’argomento (anche questa basata su fatti controvertibili, ossia che “l’arresto non sarebbe stato convalidato per mancata comunicazione preliminare al Ministero (…); in particolare l’errore sarebbe da addebitarsi alla Questura di Torino che non avrebbe comunicato preventivamente l’arresto al Ministro competente”, circostanza contraddetta dal testo dell’ordinanza della Corte d’appello di Roma, cit., p. 2 e dal comunicato stampa del Ministro Nordio del 21 gennaio 2025, cita.). Il Ministro dell’interno ha affermato, infatti, che, “[a] seguito della mancata convalida dell’arresto da parte della Corte d’appello di Roma, considerato che il cittadino libico era «a piede libero» in Italia e presentava un profilo di pericolosità sociale, come emerge dal mandato di arresto emesso in data 18 gennaio dalla Corte Penale Internazionale, ho adottato un provvedimento di espulsione per motivi di sicurezza dello Stato”.

D’altro canto, l’assenza di una tempestiva iniziativa da parte del Ministro Nordio emerge anche dal già menzionato comunicato stampa della CPI, nel quale si chiarisce che “[t]he Court is seeking, and is yet to obtain, verification from the authorities on the steps reportedly taken” (cit., supra).

Il risultato combinato della condotta di entrambi i Ministri e della avventata decisione della Corte d’appello di Roma, rende lo Stato italiano inadempiente innanzi agli obblighi di cooperazione previsti dallo Statuto della CPI. La mancata cooperazione con la Corte può essere contestata allo Stato parte inadempiente ai sensi dell’art. 87, par. 7, dello Statuto, secondo il quale, “[w]here a State Party fails to comply with a request to cooperate by the Court contrary to the provisions of this Statute, thereby preventing the Court from exercising its functions and powers under this Statute, the Court may make a finding to that effect and refer the matter to the Assembly of States Parties or, where the Security Council referred the matter to the Court, to the Security Council” (sull’argomento v. più in generale Staiano). Pertanto, le conseguenze della violazione dell’obbligo di cooperazione variano a seconda che la situazione sia stata oggetto di un referral da parte del Consiglio di sicurezza ai sensi dell’art. 13, lett. b), dello Statuto, o meno. Ebbene, come chiarito in precedenza, la situazione in Libia è stata rimessa alla CPI proprio da parte del Consiglio di sicurezza con risoluzione risoluzione 1970 (2011), adottata ai sensi del Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite. Anche il testo di tale risoluzione “urges all States and concerned regional and other international organizations to cooperate fully with the Court and the Prosecutor” (par. 5 della risoluzione). A prescindere dall’ipotesi alquanto remota che il Consiglio di sicurezza si pronunci sulla violazione dell’obbligo di cooperazione da parte della Repubblica italiana, la Corte si è già attivata – ai sensi dell’art. 109, par. 3 del Regolamento – di “hear from the requested State”, per capire se vi siano ragioni fondate a giustificare la mancata cooperazione con la stessa. Sarà interessante vedere quali saranno effettivamente le argomentazioni che lo Stato italiano addurrà per spiegare una condotta dei suoi organi così palesemente contraria ad obblighi internazionali.

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Khrystyna Gavrysh

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