Stickydiritto dell'Unione europea

Le fondamenta del primato e la tempesta perfetta 

Giovanni Zaccaroni (Università di Milano-Bicocca)

Il primato del diritto dell’Unione europea è una delle vittime della progressiva crisi cui è soggetta la globalizzazione, che, nell’ambito giuridico, ha contribuito in maniera notevole a spostare le competenze dal livello locale e nazionale a quello sovranazionale. MacCormick scriveva, nel 1993, che il principio di sovranità dello Stato, che vuole lo Stato pienamente sovrano di tutto quanto succede al suo interno ed esterno, era ormai superato dai fatti (MacCormick, 1993). E, già allora, individuava due vie d’uscita principali: una, andare verso un ordinamento decentralizzato dove ogni articolazione istituzionale sarebbe stata sovrana all’interno delle proprie competenze e un’altra che andava verso il ritorno dei poteri e delle competenze al livello nazionale (MacCormick, pp. 16-17). 

Dopo vent’anni, forse trenta, nei quali l’Unione europea ha tentato di percorrere avanti e indietro la prima strada, attraverso il trasferimento di maggiori competenze e poteri nei suoi confronti (riuscendoci in gran parte, ma comunque solo in parte), ci troviamo invece di fronte alla tentazione di perseguire di nuovo la seconda, il ritorno verso Stati europei che siano individualmente e pienamente sovrani. Il progressivo ma costante conflitto con il primato è il prodotto di questa tentazione, perché questo principio, sulle cui fondamenta è basato il diritto dell’Unione europea (cfr. Rossi e Tovo, 2023), rappresenta uno degli ostacoli principali sulla via di un possibile ritorno alla piena sovranità giuridica, politica ed economica.

In questo contributo metterò in evidenza tre esempi nei quali si possono vedere i segni lasciati sulle fondamenta del primato dal processo in atto di inversione della globalizzazione del diritto e di trasferimento della sovranità descritto da MacCormick. Il primo esempio è pienamente europeo. Il secondo e il terzo esempio riguardano soprattutto l’esperienza italiana, ma sono certamente replicabili e validi per altri Stati dell’Unione europea.

1. Il primato dell’Unione e il giudicato nazionale: la sentenza Energotehnica

Il 24 settembre 2024 la Corte di giustizia dell’Unione europea si è nuovamente pronunciata sul primato (causa C-792/22, Energotehnica). Questa volta, però, la Corte di giustizia ha fatto qualcosa di più di affermare la disapplicazione della disciplina nazionale contrastante con il diritto dell’Unione. La Corte ha affermato infatti che una corte nazionale può disattendere, qualora sia contraria al diritto dell’Unione, anche la sentenza di una Corte costituzionale nazionale (punto già sollevato nella precedente causa C‑430/21, RS) che definisce un fatto come infortunio sul lavoro, necessaria per il risultato di un processo penale. 

È noto che il diritto penale sostanziale, ed il particolare quello di parte generale, sia soggetto ad un’armonizzazione minima e che dunque in questo settore sia più difficile per il diritto dell’Unione esprimere la sua influenza (cfr. F. Rossi, 2015, pp. 112 e 113). 

La Corte di giustizia ha ritenuto di dovere dare in ogni caso una risposta al quesito posto dal giudice nazionale. Tale quesito chiedeva infatti se il principio della protezione dei lavoratori e il principio della responsabilità del datore di lavoro, sanciti dall’articolo 1, paragrafi 1 e 2, e dall’articolo 5, paragrafo 1, della direttiva 89/391, in combinato disposto con l’articolo 31 della Carta, si oppongono a una normativa nazionale che impedisce di qualificare un evento come infortunio sul lavoro (Energotehnica, punto 33). 

Un primo elemento interessante è quello della ricevibilità della questione pregiudiziale. In effetti, la Corte avrebbe potuto scegliere di non rispondere alla domanda del giudice nazionale perché tale domanda non rientra necessariamente all’interno dell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione europea (sulle condizioni di ricevibilità del rinvio pregiudiziale v. Iannone, 2018 e in generale, Ferraro e Iannone, 2024). 

Questo perché, da un lato, come evidenziato dal governo rumeno (Energotehnica, punto 35), la direttiva 89/351 si applica soltanto al datore di lavoro, mentre dall’altro lato la questione riguarda in maniera principale, ma non esclusiva, un procedimento giurisdizionale interno che influisce su di un processo penale, materia che ricadrebbe soltanto in parte all’interno dell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione. La Corte avrebbe dunque potuto pronunciarsi anche in senso opposto, senza dubbio lasciando molti insoddisfatti per la mancata occasione. 

Invece la Corte, facendo leva su due dei suoi ‘superpoteri’, decide di ricevere il rinvio e sfruttare l’opportunità e di dare una risposta al giudice nazionale. Questi ‘superpoteri’ sono la presunzione di rilevanza della questione pregiudiziale (Energotehnica, punto 37) e la possibilità di riformulare il quesito. 

Rimane sullo sfondo la complessa questione del coinvolgimento del datore di lavoro e della conseguente applicazione della direttiva 89/351, già richiamata sopra. La Corte, infatti, ritiene che la qualifica dell’evento come infortunio sul lavoro abbia poi una ricaduta sulla possibilità di risarcire il danno sostenuto dagli aventi causa della vittima, che sarebbe dunque cagionato dal datore di lavoro. Il fatto che il quesito posto dalla corte nazionale ricada all’interno dell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione crea poi le condizioni per l’applicazione della Carta. Questo dà l’opportunità alla Corte di utilizzare il secondo dei suoi ‘superpoteri’ legati alla ricevibilità del rinvio pregiudiziale, e cioè la possibilità di riformulare il quesito al fine di poter dare una risposta utile alla soluzione della causa (Šadl e Wallerman, 2019).

Tale quesito viene riformulato, in questo caso, al fine di analizzare la compatibilità della disciplina nazionale (come interpretata dalla Corte costituzionale) non con l’articolo 31, bensì con il più importante articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE. Tale scelta ha, probabilmente, un duplice motivo. Da un lato, quello di evitare di invocare un articolo che ha un contenuto, come quello a «condizioni di lavoro giuste ed eque» che potrebbe non rispettare i criteri di chiarezza, precisione ed incondizionalità necessari all’effetto diretto. Tale articolo, poi, è parte di un titolo della Carta, il Titolo IV, che contiene i diritti sociali, tradizionalmente limitati ad una portata programmatica. Diverso è, invece, il caso dell’articolo 47 che contiene il diritto «ad un ricorso effettivo e ad un giudice imparziale», più volte invocato davanti alla Corte di giustizia ed ai giudici nazionali, da ultimo nella causa C-715/20, K.L. v X (cfr. Cecchetti, 2024; Van Reempts, 2024). 

Tale articolo, infatti, oltre ad essere invocato nelle controversie verticali, come quella di cui si tratta qui, può esserlo anche nelle controversie orizzontali. Dunque, la Corte afferma che l’articolo 47 della Carta può essere invocato anche in una controversia di natura penale, ed avere ricadute anche sulla responsabilità civile, quale quella che può insorgere in capo al datore di lavoro qualora il fatto venga inquadrato come incidente sul lavoro.

Tuttavia, la Corte non dice che il diritto dell’Unione obbliga a qualificare la morte del lavoratore come incidente sul lavoro, ma soltanto che la direttiva 89/391/CEE e l’articolo 47 della Carta impongono che un processo amministrativo debba necessariamente prevedere che siano sentiti gli aventi causa della vittima prima di prendere una decisione. La soluzione finale proposta dalla corte nazionale, dunque, non sembra essere messa in dubbio, salvo il diverso avviso del giudice nazionale investito della causa. Il primato del diritto dell’Unione, dunque, non viene invocato per ribadire una gerarchia tout court tra fonti, bensì per affermare che, nel caso in cui vi sia un conflitto tra la disciplina dell’Unione e quella interna, quest’ultima deve essere disapplicata, indipendentemente dalla corte nazionale coinvolta. 

La questione è tuttavia controversa e, come a volte avviene in casi simili, l’avvocato generale, nelle sue conclusioni, argomenta in favore di un’altra soluzione. La soluzione proposta dall’avvocato generale, infatti, non fa leva sul primato dell’Unione bensì sull’effettività dei rimedi previsti, per ammettere che comunque il processo amministrativo deve prevedere che siano sentiti gli aventi causa.  Tuttavia, la Corte di giustizia, facendo riferimento all’importante precedente in RS (causa C-430/21, il cui giudice relatore è lo stesso della causa che qui si commenta) decide di utilizzare lo strumento del primato e non quello del principio di effettività. Dunque, la Corte di giustizia adotta una soluzione forse poco deferente ma comunque coerente con la sua giurisprudenza e con il principio del primato. 

Anche alla luce del numero di volte in cui negli ultimi anni la Corte di giustizia ha dovuto pronunciarsi per riaffermare un principio così importante come quello del primato, è difficile negare che le sue fondamenta siano messe alla prova e che, nell’attuale tempesta dell’inversione della globalizzazione, possano essere sottoposte a sollecitazioni molto maggiori di quelle sopportate sino ad ora.

2. L’applicazione delle sentenze della Corte di giustizia sulla nozione di paese terzo ‘sicuro’

Il rapporto tra il governo italiano e le istituzioni dell’Unione europea è – quantomeno in questo momento storico – piuttosto ambiguo: solido quando si tratta di offrire sostegno ad una maggioranza parlamentare per approvare una Commissione a trazione ‘popolare’, più fragile, invece, su aspetti controversi, tra i quali senza dubbio la gestione dell’immigrazione. Tale gestione è entrata in conflitto più volte con le limitate competenze che l’Unione esprime nell’ambito, anche se, a partire dalla fine del primo e l’inizio del secondo mandato della Commissione von der Leyen, l’intesa sembra essersi rafforzata. 

Il manifesto fondamentale della politica migratoria del governo italiano è infatti l’esternalizzazione della gestione di parte dei flussi migratori, con la conclusione già nel 2023 di un accordo con il governo albanese per lo stabilimento di un centro per la gestione delle richieste di asilo indirizzate all’Italia su territorio albanese (Ramat, 2024). 

Tuttavia, a partire dall’inizio di novembre 2024, quando il governo italiano ha cominciato a trasferire i primi richiedenti asilo dal territorio italiano alla struttura per la gestione ed il trattenimento delle persone che hanno avanzato richiesta di protezione internazionale localizzata in territorio albanese, molte opposizioni ai provvedimenti che ordinavano il trasferimento dei richiedenti asilo sono state accolte da diversi giudici italiani. Diversi giudici italiani, infatti, hanno sospeso i trasferimenti dei richiedenti asilo giudicandoli in contrasto con il diritto dell’Unione ed hanno sollevato questione pregiudiziale alla Corte di giustizia (Ferri, 2024). Tali rinvii saranno decisi nei prossimi mesi, sulla base della loro qualifica come procedimento pregiudiziale accelerato o urgente (Iannuccelli, 2024). 

La giurisprudenza della Corte di giustizia, infatti, ha recentemente confermato (con sentenza del 4 ottobre 2024, CV, causa C‑406/22) che il diritto dell’Unione «non consente agli Stati membri di designare come paese di origine sicuro un paese terzo nel quale talune parti del suo territorio non soddisfano le condizioni sostanziali di una siffatta designazione, enunciate all’allegato I di detta direttiva» (CV, punto 77).

Dunque, a differenza di quanto sembra ritenere il governo italiano, l’analisi della domanda di protezione internazionale (ed il conseguente rigetto, in questo caso) non può essere automatizzata sulla base del fatto che il richiedente proverrebbe da un paese terzo ‘sicuro’, ma deve essere fatta caso per caso. L’impossibilità di presumere che le richieste di asilo che provengono da determinati Stati terzi siano sempre sicure ha messo dunque in crisi il meccanismo alla base del trasferimento dei richiedenti asilo secondo l’accordo tra il governo italiano e quello albanese, che al momento sembra essere congelato. 

Poiché tale problema trova la sua origine nel diritto dell’Unione e nella giurisprudenza della Corte di giustizia, che avrebbe imposto, tramite il primato, la disapplicazione del diritto interno confliggente e visto che, come risaputo, le fondamenta del primato sono (certo non esclusivamente ma comunque principalmente) giurisprudenziali, alcuni politici italiani di maggioranza hanno ritenuto di proporre una modifica alla Costituzione italiana per modificarne l’articolo 11 e 117. Tale modifica, che ha più le caratteristiche della boutade o della provocazione politica, ci ricorda però che le fondamenta del primato necessitano di essere rinforzate o comunque riconosciute senza alcuna ambiguità all’interno dell’ordinamento dell’Unione e degli ordinamenti nazionali, pena la loro costante messa in dubbio. 

3. La Corte costituzionale italiana ritorna sul primato del diritto dell’Unione

Non si può però ignorare che la questione delle fondamenta del primato e dei tentativi di codificazione sia già stata affrontata e sia ben presente tra gli studiosi (Anrò e Alberti, 2022, p. 64 e ss.). Sono particolarmente convincenti le riflessioni che mettono al centro la questione del primato come parte di una rete strutturata di principi (v. causa C-284/16, Achmea, punto 33) e come una ‘regola di coesione’ che si regge su un processo di condivisione tra corti ancora prima che legislativo o di revisione dei Trattati (Rossi, 2024, p. 19). Una prova importante dell’esistenza di una tale condivisione dell’importanza del primato si può trovare in una recente sentenza della Corte costituzionale, il cui giudice redattore, fino a non molto tempo fa, rivestiva l’incarico di avvocato generale presso la Corte di giustizia dell’Unione europea. 

Nella sentenza n. 181 del 2024, la Corte costituzionale è tornata sull’importanza fondamentale del primato e del sistema di controllo di costituzionalità diffuso dell’Unione, basato sul rinvio pregiudiziale, e la sua complementarità con il controllo accentrato di costituzionalità che caratterizza l’ordinamento italiano. Tale sentenza ricorda che il primato del diritto dell’Unione su quello nazionale è «uno dei capisaldi dell’integrazione europea, riconosciuto fin dalle prime pronunce della Corte di giustizia e poi dalla giurisprudenza di questa Corte» (punto 6.2). La Corte costituzionale ha anche ribadito che non vi è antitesi e neppure un ordine di priorità fra rinvio pregiudiziale e questione di legittimità costituzionale, e che spetta sempre al giudice nazionale, sulla base delle esigenze della causa, decidere se intraprendere la strada del rinvio pregiudiziale o quella della questione di legittimità costituzionale. 

Questa visione, dunque, contribuirà certamente a dissipare le restanti ambiguità che erano il risultato della lettura di una precedente linea giurisprudenziale basata sulla sentenza sulla c.d. doppia pregiudizialità (sentenza n. 269 del 2017), nella quale sembrava apparire una sorta di gerarchia tra la questione di legittimità costituzionale e quella pregiudiziale, peraltro già smentita dalla giurisprudenza successiva (cf. Rossi e Tovo, p. 102). Tale giurisprudenza, tuttavia, anche se sembra mettere il primato al riparo da un’eventuale regressione da parte del legislatore nazionale, non protegge l’ordinamento dell’Unione da future sentenze più ambigue che provengano magari da altri Stati membri nei quali l’indipendenza degli organi giurisdizionali potrebbe, nel tempo, indebolirsi. Le fondamenta del primato rimangono dunque solide e fragili allo stesso tempo, e rendono evidente come tale principio possa essere messo alla prova in modalità inattese ed inaspettate. 

Le vicende del primato finora esposte, infatti, hanno le caratteristiche di una tempesta perfetta…nel ‘bicchiere’ del diritto dell’Unione, o al massimo nella più ampia ‘vasca da bagno’ delle relazioni tra il diritto dell’Unione e gli ordinamenti costituzionali degli Stati membri. 

Cosa succederebbe se la tempesta perfetta ‘tracimasse’ e, in uno Stato membro, una modifica legislativa, magari di rango costituzionale, magari sostenuta da un referendum confermativo (laddove previsto o permesso), lo mettesse in dubbio? Certo, si possono invocare i tradizionali rimedi delle procedure di infrazione e nei casi più gravi, a tutela dello Stato di diritto, ma i tempi che richiedono sono molto più lunghi di quelli di una decisione politica. Si potrebbe rendere necessario dunque riflettere su soluzioni alternative, tra cui, per esempio, l’inclusione tra le fonti del diritto dell’Unione nei Trattati dei principi che si possono ricavare dalla giurisprudenza della Corte di giustizia. Il ruolo della giurisprudenza della Corte di giustizia nei Trattati è, infatti, menzionato soprattutto nelle dichiarazioni (tra cui l’importantissima Dichiarazione n. 17 relativa al primato) allegate al Trattato di Lisbona, con l’eccezione del Preambolo della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Un’altra alternativa potrebbe invece essere il riconoscimento esplicito del ruolo del primato nei Trattati, strada che però è stata tentata altre volte in passato senza successo. 

Le istanze che chiedono di invertire il processo di globalizzazione e di trasferimento della sovranità che – quando MacCormick scriveva – era quasi irrevocabile, sembrano essere qui per restare. Fintanto che tali istanze rimarranno politicamente appetibili, le Corti costituzionali degli Stati membri continueranno ad essere, insieme alla Corte di giustizia, gli unici soggetti istituzionali a custodire saldamente il primato. Finora, tale posizione di garanzia è stata sufficiente a garantire la tenuta delle fondamenta del primato, ma, per il futuro, non possiamo esserne altrettanti certi.

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