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It Pops Up Everywhere: il diritto internazionale da ogni lato

Paolo Turrini (Università di Trento)

La redazione di SIDIBlog ha ricevuto un’audiocassetta anonima [non è vero, questa introduzione è pura finzione (N.d.R.)]. L’involucro conteneva un foglietto artigianale con una tracklist, apparentemente quella di un LP dei Kalibas, benché il titolo, Enthusiastic Corruption of the Common Good, sia stato storpiato in modo da leggersi Common Goods – un ammiccamento ai giuristi. Nei titoli delle tracce è sottolineata la parola ‘Towers’, cui è premesso un ‘LITTLE’ in stampatello e quindi la frase ‘(THE MIND’S I)’. Poco oltre, ‘World Bank’ è pure enfatizzato con furiosi tratti di penna. Lasciamo al lettore ogni speculazione sul significato di tutto ciò. Gli è che un membro della redazione ha introdotto il misterioso oggetto in un mangianastri recuperato a casa di una vecchia zia. Ebbene, niente disco dei Kalibas, solo suoni indistinti (o è quello il disco?). Un altro membro ha quindi suggerito di riprodurre la registrazione al contrario, conformemente a un topos della musica maledetta, ed è così che è emerso lo sproloquio – la definizione è di un terzo membro – che, diviso in dieci brevi brani, sembrerebbe appartenere a un collega appassionato di heavy metal. Poiché SIDIBlog ha già pubblicato un intervento in subiecta materia, la redazione si è espressa per la pubblicazione.

1. Se è vero che, com’è stato rilevato, nella letteratura scientifica «è quasi del tutto assente uno studio dei profili giuridici» della musica heavy metal, che pure è indagata sotto altri aspetti («sociologici, psicologici, culturali, etno-musicologici o più strettamente musicologici»), lo studioso del diritto deve chiedersi se ciò non abbia una ragionevole motivazione.

2. Per deformazione professionale, il giurista vede diritto dappertutto. Ma il diritto non è dappertutto. Il fatto che viviamo in un mondo governato – tra l’altro – da norme giuridiche non rende queste ultime interessanti per tutti e in ogni circostanza. La musica se ne occupa a stento ed è difficile che lo faccia in modo illuminante per uno studioso del diritto. Incontrare oggetti noti in situazioni atipiche ha un effetto straniante, un po’ come udire parlare l’italiano in uno sperduto villaggio nipponico o sentire pronunciare il proprio nome ascoltando il telegiornale. Ma la sorpresa non giustifica necessariamente un approfondimento. In una canzone sul disarmo (Armageddon X 7) i leggendari Napalm Death citano i «peace treaties». Dunque, quel che facciamo è importante! Anzi no, a giudicare dal tenore del brano. O importa solo credere che i nostri idoli ci abbiano in nota?

3. Dobbiamo perciò evitare di entusiasmarci per ogni inaspettato riferimento a concetti a noi familiari. Il più delle volte da essi non sarà possibile trarre alcun valido insegnamento, alcuna suggestione. Un po’ come da ripetuti – e simultanei? – ascolti di Territory (Sepultura), We Are the People (Rebellion, che citano la Dichiarazione Schuman!), Sovereigns(Enthroned) e Last Stand for Independence (Testament) non si potrà addivenire a un superiore livello di comprensione del concetto di statualità.

4. Questo non vuol dire che si debba essere indifferenti allo ius in musica (inclusa quella estrema: diabol-ius in musica). Bisogna però chiarire bene lo scopo dell’indagine e delimitarne con cura l’oggetto. E tentare di resistere agli automatismi del mestiere, abbandonando se il caso strade già note al giurista. Questi è solito criticare l’uti possidetis «per aver perpetuato confini artificiali, che non riflettono le realtà sociali e culturali dei popoli», ma non pare essere questo il fine (retorico e traslato) che ne fanno i Tamuya Thrash Tribe. Il problema che denunciano non è che il popolo dei Guarani si trova ripartito su più Stati, frammentato dalle frontiere di questi, bensì che è stato dispossessato delle proprie terre. Coerentemente, essi sembrano dirci che il soggetto di possidetis non può essere lo Stato, perché solamente la comunità che insiste su un territorio lo possiede: ma solo temporaneamente, non potendo alienarlo e dovendo donarlo alla generazione successiva uti possidet («this land was given to us and freely we shall give to our heirs»). Difficile rimanere insensibili a simili rimostranze! Tranne per i componenti degli Arghoslent, che infatti hanno intitolato Terra Nullius una propria canzone: per loro gli aborigeni australiani denotavano «absence of law, sovereignty, and cultivation», ciò che rendeva le «declarations of war a wasted custom» e i «treaties inconceivable». Storie vecchie, a riprova di come non basti un prezioso latinismo a giustificare il nostro interessamento…

5. Se la menzione di concetti giuridici non è garanzia di rilevanza per lo studioso di ‘diritto e musica’, l’esistenza di un nesso puramente tematico lo è ancor meno. Iron Maiden e Sabaton cantano laceranti storie di conflitti armati e perciò ‘parlano’ a noi internazionalisti? Ma allora anche le nonne che ci hanno narrato gli orrori della guerra meritano una citazione nel Grande libro del diritto internazionale. Tutto, indistintamente, discorre di diritto internazionale: dai panzer dei Marduk e i Manowar (entrambi compresi nel perimetro dell’Articolo 2 del Trattato sul commercio delle armi) ai libri che lo storico più pop del momento, Alessandro Barbero, ha dedicato alle grandi battaglie del passato. E che dire di tassisti e baristi che blaterano di politica internazionale (non però i barbieri, che sono hair metal e s’occupano d’altro)? I racconti mitizzati che lo zio fanfarone fa delle sue incursioni pescherecce nelle Valli di Comacchio ci invitano a riflettere sulle zone umide protette dalla Convenzione di Ramsar? La Signora in giallo in trasferta a Scotland Yard fornisce spunti sulla cooperazione giudiziaria internazionale? Se così è, allora il diritto del mare è coperto dagli Ahab e dagli Alestorm per la musica, da Love Boat per la tv, da One Piece per i fumetti, e dai racconti del cugino arruolato in marina per la vita vera. E così via.

6. Se ci fossero cento canzoni sull’Amazzonia, il fatto che questa è protetta dal diritto internazionale non renderebbe tale produzione interessante per il giurista. Ma se ci fossero cento canzoni che trattano di diritto ex professo, forse sarebbe il caso di mettersi in ascolto. Che i Judas Priest celebrino la rottura delle regole (Breaking the Law) in sé non è che un fun fact. Qualora però si dimostrasse che l’anticonformismo di cui spesso si fanno portavoce gli artisti prende forme diverse secondo il genere musicale – per esempio, rifiuto della legge nel metal e una più blanda critica della morale convenzionale nella musica leggera à la Madonna – si sarebbe aggiunto un piccolo tassello al vasto mosaico degli studi sociali. Resta l’onere (sociologico) di interrogarsi sulla sensatezza delle proprie domande ed eventualmente di dispiegare strumentari statistici nella ricerca di una risposta. Ma quali conclusioni si possono trarre (oltre al solito censimento di fun fact) dalla circostanza che alcuni artisti celebrano i diritti umani (come la Doro di Freiheit) mentre altri li criticano come instrumentum regni (per esempio i Kalmah di Heroes to Us: «A declaration of human rights, a pretext for maintenance of a new world order […] Human rights activists political pawn in a game, nothing can they do without state subsidies»)? A che pro notare che gli Unleashed, in una discografia costellata da inni a Odino e Thor e protesa verso il Ragnarok, in un paio di canzoni si ‘secolarizzano’ e citano l’Unione Europea e le Nazioni Unite? E che rilievo attribuire al fatto che il grindcore, i cui testi nel migliore dei casi traggono ispirazione dai manuali di anatomia patologica, si scaglino occasionalmente contro i capitalisti «controlling the rules of unequal trade», come fa l’omonimo brano dei Sublime Cadaveric Decomposition? Che senso avrebbe, per un sociologo del diritto, notare che le parole «all treaties failed thru time», che compaiono in All That Remains dei Malevolent Creation, esprimono lo stesso concetto su cui Albert Einstein e Ashley Montagu concordavano mentre discutevano delle garanzie di un uso pacifico dell’energia atomica?

7. I singoli casi, insomma, lasciano il tempo che trovano. Nelle centinaia di migliaia di album pubblicati nell’arco di qualche decennio sarebbe facile rinvenire qualunque cosa, compresa una menzione della suddetta Love Boat. Tra l’altro, gran parte di questa produzione è oscura ai più, tanto che sarebbe lecito domandarsi se sia tutta ascrivibile al pop, cioè popular: l’offesa peggiore nel metal, quella di essersi ‘venduti’, ha colpito gruppi quasi sconosciuti a chi non frequenta il genere. Ciò non vuol dire che non esista un underground realmente tale, da tenere distinto da un underground legato al mainstream, un po’ come [qui il tono della voce si fa didascalico (N.d.R.)] alcuni acquiferi sotterranei sono oggetto del progetto di codificazione licenziato dalla Commissione del diritto internazionale nel 2008, mentre altri, connessi a un più ampio sistema idrologico, sono governati dalla Convenzione sui corsi d’acqua del 1997. Peraltro, il rapporto tra l’estensione della comunità dei creatori di un certo tipo di musica e quella della comunità dei suoi fruitori è variabile e ciò può tradursi in un diverso grado di (dis)allineamento tra creatori e fruitori, per cui non sempre «il modo in cui un fenomeno viene descritto attraverso [il pop] può dirci molto sul modo in cui lo stesso viene letto dai [suoi] fruitori». A sapere, poi, cosa passa per la testa di chi compone e di chi ascolta… Se solo gli album esibissero l’etichetta «professorial warning: legal content»! Tipper Gore, dove sei?

8. Il giurista potrebbe provare un approccio dottrinale invece di sottoporsi al supplizio di estese indagini sociologiche, che rischiano peraltro di essere fatali in sede di ASN. In tal caso, un uso rigoroso delle indicazioni ex art. 31(1) della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati sembrerebbe imporsi. Le copertine degli album potrebbero in linea di principio offrire un ausilio interpretativo contestuale, ma non pare che immagini di foreste e fiordi siano sufficienti per legare il black metal al diritto internazionale dell’ambiente (per dire: il fatto che Fenriz sia amico dei boschi e degli amici dei boschi, come Mikael Ohlson, il naturalista che ha firmato la copertina di Arctic Thunder dei Darkthrone, non dice del black metal più di quanto il veganesimo di Angela Gossow, ex vocalist degli Arch Enemy, riveli del death metal). La matrice culturale del genere è – anche limitandosi alla scena scandinava degli anni ’90 – variegata: la celebrazione della natura potente e incontaminata sembra muoversi tra un ripiegamento misantropico e nichilista (fiat mundus et pereant homines) e un identitarismo nazionalista, ruraleggiante e trascendentale come rimedio alla decadenza spirituale della civiltà cristiana. A occhio e croce (rovesciata), più che a Greta Thunberg siamo vicini a Wilhelm Heinrich Riehl e al suo amalgama di conservazionismo e conservatorismo: «Una nazione senza un cospicuo patrimonio forestale merita la stessa considerazione di una nazione senza una costa adeguata. Dobbiamo preservare la foresta, non solo perché le nostre stufe non restino fredde in inverno, ma anche perché le pulsazioni della vita popolare continuino calorosamente e allegramente, affinché la Germania rimanga tedesca». Non proprio un discorso da porre in epigrafe al rapporto tedesco sugli impegni REDD+!  La prima frase, per inciso, suona vagamente come un capovolgimento della celebre massima di Vattel sull’eguale umanità di nani e giganti. Del resto, per Riehl la deplorevole situazione era conseguenza della Guerra dei trent’anni, quella della Pace di Vestfalia… aiuto, il diritto internazionale spunta proprio dappertutto!

9. Tenere accademicamente insieme diritto internazionale e musica non è per niente semplice. O si tratta solo di un divertissement? Se è così, allora vai coi trivia! In quale occasione l’hard rock fu usato per evitare di violare un principio cardine delle relazioni diplomatiche? Durante l’operazione Nifty Package, nel corso della quale gli USA costrinsero alla resa Manuel Noriega nel rispetto dell’inviolabilità della nunziatura apostolica in cui s’era rifugiato. Quale celebre internazionalista – noto più come diplomatico che come docente – è citato in una canzone di un gruppo prog-metalsvedese? Hans Blix (cfr. America dei Pain of Salvation). Quale proto-internazionalista underground (ma non troppo) è citata da una band underground (ma non troppo) avente la stessa nazionalità (ma non troppo)? [Qui il nastro è danneggiato, non è possibile comprendere la risposta (N.d.R.)] Il figlio di quale celebre internazionalista è stato chitarrista di alcune band metal? Martti Koskenniemi, padre di Lauri. Il gioco riesce bene in tutte le manifestazioni della pop culture.

10. C’è, forse, un senso più profondo nel fatto che l’internazionalista giunge a rispecchiarsi nella cultura pop. Quel che vi nota potrebbe essere indicativo di ciò che il suo Sistema 1 – per dirla con Hanneman… pardon… Khaneman! – ritiene rilevante nella sfera del diritto internazionale. I brani che ci colpiscono sono quelli che parlano di guerre, trattati, organizzazioni internazionali, tutela dell’ambiente e dei diritti umani. Ma il diritto internazionale non è solo questo. Perché, per esempio, non interessarsi anche del rap che esalta il possesso e l’uso delle armi di piccolo calibro? Dopotutto, in materia esistono un programma d’azione dell’UNODA e un protocollo. Il punto è che anche nel diritto internazionale c’è il pop – i temi che troviamo in tutti i manuali – e c’è l’underground (quel che sfugge al radar dei non specialisti o si è rincantucciato in un angolino dei nostri cervelli). Che non sia questo un possibile tema di ricerca?

Fuori bobina: il merito del titolo (e non solo) è da riconoscersi a un ‘high ranking extropian’.

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