Un racconto del diritto internazionale nella musica pop. A Side: afrobeat, hip-hop, rock
Gianpaolo Maria Ruotolo (Università di Foggia)*
1. Una premessa metodologica
Questa riflessione fa parte di una ricerca più ampia che sto conducendo sulle modalità con cui la cultura popolare (“pop culture”) narra il fenomeno giuridico, e il diritto internazionale in particolare. Il modo in cui un fenomeno viene raccontato nelle canzoni, nei fumetti, nelle serie televisive, nel cinema commerciale, coincide con quello in cui esso è visto dalla stragrande maggioranza delle persone, cioè come esso entra e rimane nell’immaginario collettivo. Il fenomeno giuridico, nei suoi molteplici aspetti, non ne è certo escluso: il modo in cui il diritto e i suoi operatori – Stati e loro organi, organizzazioni internazionali, ma anche professori universitari, studenti delle facoltà di giurisprudenza, avvocati, magistrati, forze di polizia – sono riflessi e illuminati dall’immaginario collettivo della pop culture coincide, infatti, con il modo in cui essi vengono percepiti dai non addetti ai lavori. E gli addetti ai lavori, dal canto loro, farebbero bene a esserne consapevoli.
Quanto a me, ho iniziato esaminando i modi in cui il diritto internazionale è narrato nei fumetti.
Poi mi sono in qualche modo reso conto che alcuni di questi modi presentano delle peculiarità anche per quanto riguarda alcuni generi musicali estremi, che conosco come ascoltatore e appassionato: sono quindi passato a indagare il modo in cui il diritto internazionale viene utilizzato nella musica heavy metal.
Pertanto, nella “A Side” di questo lavoro proverò ad evidenziare alcuni elementi del rapporto tra sottogeneri non-metal della musica pop e diritto internazionale, elementi che saranno poi utili per tracciare alcune peculiarità degli approcci heavy metal, per poi passare, nella “B Side”, a studiare il caso specifico dell’heavy metal con riferimento a gruppi che, per tematiche e modalità espressive, risultano di particolare interesse, perché trattano esplicitamente aspetti della vita degli Stati e degli individui regolati dal diritto internazionale.
Va detto pure che nell’ambito dell’analisi scientifica e accademica della musica heavy metal, i c.d. heavy metal studies (si vedano, tra gli altri, Wallach, Berger e Greene, o Brown e Spracklen), è quasi del tutto assente uno studio dei profili giuridici (per un’eccezione v. Hiebaum, “Law and Its Cultural Representations (with a Focus on Heavy Metal Studies)”), dal momento che i medesimi adottano generalmente approcci sociologici, psicologici, culturali, etno-musicologici o più strettamente musicologici. Con questo contributo cercherò quindi di offrire alcuni primi elementi per iniziare a colmare questa lacuna, soprattutto dal punto del diritto internazionale, e ovviamente in modo assolutamente parziale.
Va pure chiarito che un lavoro come quello che sto provando a condurre richiede l’ascolto di una enorme mole di materiale, che deve essere catalogato: l’approccio che ho seguito è stato quello di ascoltare il maggior numero possibile di brani, per raggiungere numeri che fossero idonei a provare a tracciare, qualora ve ne fosse, qualche trend. È impossibile in questo contesto, quindi, descrivere tutto il materiale che ho raccolto e classificato: mi limiterò a utilizzare i brani che mi sono sembrati particolarmente rappresentativi di alcuni approcci che band provenienti da specifici contesti geografico-culturali hanno adottato su questioni legate al diritto internazionale. Spero di poter fornire in futuro un resoconto completo del materiale che sto catalogando.
Infine chiarisco che ho deciso di limitare i miei riferimenti agli artisti che hanno avuto un minimo riscontro di pubblico, per evitare di dovermi addentrare in contesto troppo vasto e sfaccettato come quello underground.
2. Il diritto internazionale nella musica pop: alcuni esempi dall’afrobeat, dall’hip-hop, dal rock
A causa della sempre maggiore irrilevanza dei confini statali – e quindi dell’incapacità del diritto interno di regolare le relative fattispecie – il diritto internazionale (sia “pubblico” sia privato) è chiamato a disciplinare casi transnazionali di rilevanza musicale sotto innumerevoli profili.
Inoltre, come vedremo, il suo contenuto può essere descritto e a volte persino influenzato dalla musica.
In sintesi, potremmo parlare di diritto internazionale della musica e di diritto internazionale nella musica.
Per quanto riguarda il primo, di cui qui non mi occuperò, mi limito a ricordare che il diritto internazionale regola molti aspetti della musica. Per citarne solo alcuni, si pensi alla libertà di espressione che consente la creazione, al plagio, ai diritti degli autori, ai diritti degli sfruttatori e degli utilizzatori, soprattutto nel contesto delle cosiddette nuove tecnologie, alle questioni antitrust legate al rapporto tra operatori commerciali, a quelle legate alla musica dal vivo, in termini di circolazione e sicurezza.
Anche le organizzazioni internazionali hanno riconosciuto il ruolo fondamentale della musica pop anche nella prospettiva culturale: nel 2011 l’UNESCO ha proclamato il 30 aprile Giornata internazionale del jazz, sottolineandone la funzione di promozione di scambio interculturale e comprensione tra culture allo scopo di reciproca tolleranza; ha iscritto nella lista rappresentativa del patrimonio culturale immateriale dell’umanità, nel 2018, la musica reggae della Giamaica per “its contribution to the international discourse on issues of injustice, resistance, love and humanity” e, nel 2021, la rumba congolese per la sua capacità “to transmit the social and cultural values of the region and to promote intergenerational and social cohesion and solidarity”.
Per quanto riguarda il diritto internazionale nella musica, bisogna ricordare che il modo in cui un fenomeno viene descritto attraverso un medium popolare (“pop”), può dirci molto sul modo in cui lo stesso viene letto dai fruitori di quello specifico medium; inoltre, l’uso dei media pop può aiutare a descrivere alcuni fenomeni regolati dal diritto internazionale e a renderli comprensibili anche a chi non ha specifiche conoscenze, contribuendo così alla diffusione di concetti giuridici sia da una prospettiva didattica che da una più ampiamente divulgativa (la famigerata “terza missione”).
Inoltre, poiché la musica tocca profondamente l’essere umano, essa può rappresentare uno stimolo a riflettere sui temi di cui tratta e, quindi, accrescere la consapevolezza dell’ascoltatore nei loro confronti.
È (solo) in questo senso che in questo scritto ho fatto generalmente seguire all’esempio musicale una brevissima descrizione delle questioni di diritto internazionale che vi sono trattate.
E di esempi del genere ce ne sono a centinaia, in tutti i generi, specialmente in quelli che usano la forma canzone, o almeno hanno testi. Qui mi limiterò ad alcuni esempi non metal, con un approccio casistico, prima di passare al contesto heavy metal, nella B Side.
Fela Kuti (1938-1997) è stato un famoso e prolifico musicista nigeriano che, tra le altre cose, è stato il padre dell’afrobeat, un genere che fonde varie espressioni della musica tradizionale africana e afroamericana come funk, R&B e highlife, ed è diventato noto anche per il suo attivismo politico per i diritti umani e le lotte politiche contro il governo nigeriano.
In Beasts of no nation (1989), ha fortemente criticato il diritto di veto nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, definendolo “animal sense”:
Dem call the place United Nations
East West Block versus West Block East
No be there dem dey oh United Nations
Disunited United Nations
One veto vote is equal to 92…or more, or more
What kind sense be dat
‘Na animal sense
E, come è ben noto, composizione e tecniche di voto del Consiglio di sicurezza, in particolare l’art. 27 della Carta delle Nazioni Unite, sono un tema ancora molto dibattuto tra i Membri dell’ONU e nella letteratura scientifica, anche in prospettiva di riforme.
Il figlio più giovane di Fela, Seun Kuti (1983-), come attivista politico ha promosso un movimento “for African people all over the world to rediscover themselves. To remember that the only thing that unites black people globally, the only thing we all have in common, is that we are from Africa”. Come musicista, nel 2014, nella sua canzone IMF, critica le istituzioni di Bretton Woods per la loro responsabilità nei confronti dei Paesi in via di sviluppo e dell’intero Sud del mondo:
You bring pain
You bring tears
You bring suffering
To my people
International Mother Fucker eh You bring pain
So much lying from the IMF
So much stealing from the IMF
So much killing from the IMF
Manipulation from the IMF
Intimidation from the IMF
Dem and their World Bank brothers
Anche nel diritto delle organizzazioni internazionali poteri, competenze e attività del FMI (cfr. Adinolfi) e della Banca Mondiale (cfr. Cafaro) sono criticati da parte della dottrina per discrezionalità e modalità di esercizio: “interactions with States in the Global South claim that the Fund remains quite captured by the politics of the Washington Consensus, and thus continues to play favorites while promoting or enforcing policies centered on fiscal consolidation on others” (C. Kennedy-Hernandez, in B. Momani, M. Hibben (a cura di), Oxford Handbook of the International Monetary Fund (OUP, Oxford, 2024, 658).
In Here comes the judge, il musicista reggae giamaicano Peter Tosh (1944-1987) immagina poi un processo in cui gli Stati coloniali e imperiali e i loro rappresentanti (Cristoforo Colombo, Francis Drake, Bartolomeo De Los Casos , Vasco De Gama, Alessandro Magno, John Hannon, James Grant, David Livingston, John Constantine, Henry Morgan, Marco Polo) vengono processati per le loro attività:
Silence in the court
The court is in session
You’re all brought here on
Count one: robbing and raping Africa
Count two: stealing black people out of Africa
Count three: brainwashing black people
Count four: holding black people in captivity for more than 300 years
Count five: killing over 50 million black people without a cause
Count six: teaching black people to hate themselves
Come è noto, il diritto all’autodeterminazione, originariamente previsto esclusivamente da norme pattizie, è oggi una regola imperativa del diritto internazionale generale e uno dei cardini dell’ordinamento internazionale contemporaneo. Anche se tale diritto non può essere certamente concepito come il prodotto di una sola e autosufficiente norma, esso è certamente nato nel contesto della decolonizzazione. Nelle parole di Antonio Cassese, l’autodeterminazione era infatti “perceived and relied upon as a legal right to decolonization”.
Nel brano Living like a refugee, i Refugee All-Stars of Sierra Leone, una band formata da un gruppo di rifugiati fuggiti in Guinea durante la guerra civile in Sierra Leone (1991-2002), attingono alle loro esperienze di vita per narrare le esperienze dei loro simili:
You left your country to seek refuge
In another man’s land
You will be confronted by strange dialects
And you will be fed with unusual diets
You’ve got to sleep in a tarpaulin house
Which is so hot
You’ve got to sleep on a tarpaulin mat
Which is so cold
Living like a refugee is not easy
Il diritto internazionale generale, come noto, non prevede un diritto soggettivo all’immigrazione, non obbliga cioè gli Stati a consentire l’ingresso di tutti gli stranieri sul proprio territorio, rimettendo la disciplina di tale materia alla competenza dell’ordinamento interno e, in assenza di particolari esigenze di protezione (si pensi, ad esempio, all’obbligo di tutela della vita umana in mare), richiede agli Stati di consentire l’attraversamento delle frontiere ai soli propri cittadini. Queste norme, che si limitano a prevedere il diritto dell’individuo di lasciare qualsiasi Paese ma di entrarvi solo in presenza di quel particolare link costituito dalla cittadinanza, riconoscono quindi solo il diritto di emigrazione e di rimpatrio, ma non un diritto di immigrazione, inteso come diritto di entrare in qualsiasi Paese straniero allo scopo di stabilirvisi. Un’eccezione è rappresentata dal caso dell’asilo, che può essere definito, in termini molto generali, come la protezione temporanea o permanente concessa da uno Stato allo straniero che ne faccia richiesta; tale protezione può essere accordata sia accogliendo lo straniero in una delle rappresentanze diplomatiche all’estero (c.d. asilo diplomatico), sia consentendogli di entrare nel territorio nazionale (c.d. asilo territoriale).
Ma se, per quanto riguarda le condizioni di concessione del diritto d’asilo, gli Stati appaiono sostanzialmente liberi da obblighi internazionali, è con riguardo alla categoria dei rifugiati che tali obblighi vengono in rilievo: in questa materia assume, come noto, primaria importanza la Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status di rifugiato, il cui art. 1, par. 2 lo riconosce a coloro che abbiano un fondato timore di essere perseguitati per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le loro opinioni politiche, si trovano fuori del Paese di cui hanno la cittadinanza e non possono o non vogliono avvalersi della protezione di tale Paese (per una distinzione tra asilo e rifugio ai sensi del diritto interno mi permetto di rinviare qui).
Lo stesso drammatico contesto ha ispirato sia il titolo che il testo della canzone del 2005 Diamonds from Sierra Leone del rapper statunitense Kanye West (1977-), che si concentra su una delle circostanze chiave di quella guerra:
They pray for the death of our dynasty like ‘Amen’
Right here stands a man
With the power to make a diamond with his bare hands
Diamonds are forever (forever, forever)
Throw your diamonds in the sky if you feel the vibe
L’ordinamento internazionale contempla una definizione dei cosiddetti “blood diamonds”: secondo le Nazioni Unite sono tali tutti i diamanti estratti in regioni sotto il controllo di fazioni contrarie al governo legittimo di uno Stato, venduti per finanziare operazioni militari contro quel governo e per fornire armi e rifornimenti ai ribelli, alcuni dei quali possono intraprendere campagne estremamente violente con notevoli sofferenze delle popolazioni civili. Questa definizione è stata redatta negli anni ‘90, un periodo caratterizzato da gravi conflitti civili in varie parti dell’Africa occidentale e centrale, dove gruppi ribelli operavano appunto in regioni ricche di diamanti. Tre conflitti in particolare, in Angola, nella Repubblica Democratica del Congo e in Sierra Leone, hanno attirato l’attenzione della Comunità internazionale sugli effetti dannosi dei diamanti, sebbene problemi simili esistessero in altri Paesi e, nel 2022, le Nazioni Unite promuovono il Kimberley Process Certification Scheme (KPCS), per prevenire il commercio di diamanti insanguinati e per garantire che i diamanti venduti sul mercato internazionale non siano tali. Questa iniziativa, una di quelle catalogate da parte della dottrina come espressione del c.d. informal international lawmaking (v. Pauwelyn, Wessel, Wouters), prevede la collaborazione tra Stati, industria dei diamanti e società civile per creare un sistema che impedisca ai diamanti insanguinati di entrare nel mercato globale. Va detto che l’efficacia del KPCS è stata messa in discussione da alcuni studi che evidenziano come esso non avrebbe affrontato adeguatamente le complessità del commercio di diamanti e le questioni relative alle violazioni dei diritti umani. Inoltre, da una prospettiva giuridica, è stato pure evidenziato come la definizione delle Nazioni Unite si concentri solo sui diamanti che finanziano le insurrezioni contro un governo, ignorando o sottovalutando situazioni in cui, come ad es. in Zimbabwe, i funzionari di governi pure legittimi usano però la loro autorità sulle operazioni di estrazione diamanti per arricchirsi, mantenere il potere o avvantaggiare i loro sodali, spesso a spese dei minatori e di altri lavoratori. Tuttavia, nel 2024 l’Assemblea generale ha adottato una risoluzione sul “The role of diamonds in fuelling conflict: breaking the link between the illicit transaction of rough diamonds and armed conflict as a contribution to the prevention and resolution of conflicts’”, in cui si riconosce che il KPCS contribuisce comunque all’attuazione efficace delle pertinenti risoluzioni del Consiglio di sicurezza che impongono sanzioni sul commercio di diamanti insanguinati.
Pure Tony Allen (1940-2020), batterista afrobeat nigeriano che ha suonato a lungo con Fela Kuti canta della precarietà delle migrazioni verso l’Europa in Boat Journey (2014):
Running away from misery
And you can find yourself in a double misery
You don’t decide to leave your misery behind
From the past it was shown in your country
Now you jump into the boat
To cross the ocean with all your family
Looking, looking for better situation across the ocean
But you never arrive
Don’t take the boat journey, my brothers!
Don’t take the boat journey, my sisters!
Anche in Italia, il gruppo alternative rock Consorzio suonatori indipendenti (CSI) cita l’ONU e la NATO in Cupe vampe, brano che narra della distruzione di Sarajevo e della sua biblioteca:
Cupe vampe, livide stanze
Occhio cecchino etnico assassino
Alto il sole, sete e sudore
Piena la luna, nessuna fortuna
Ci fotte la guerra che armi non ha
Ci fotte la pace che ammazza qua e là
Ci fottono i preti, i pope, i mullah
L’ONU, la NATO, la civiltà
Bella la vita dentro un catino
Bersaglio mobile di ogni cecchino
Bella la vita a Sarajevo città
Questa è la favola della viltà
Come è noto, la città di Sarajevo, oggi capitale della Bosnia ed Erzegovina, ha subito il più lungo assedio di una capitale nella storia della guerra moderna, un assedio durato 1.425 giorni (dall’aprile 1992 al febbraio 1996), durante la guerra in Bosnia, che faceva parte delle guerre jugoslave avvenute tra il 1991 e il 2001, dopo lo scioglimento della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia (RFJ). Il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia ha dichiarato che si trattava di un conflitto internazionale, in particolare tra l’esercito bosniaco e l’esercito della Repubblica serba di Bosnia ed Erzegovina, che mirava ad annettere l’intera Bosnia ed Erzegovina.
(continua)
* Alcuni passaggi di questo lavoro sono stati esposti nel corso di due seminari che ho tenuto il 18 novembre 2024 nell’Università Roma Tre (ringrazio Giulio Bartolini per l’invito) e il 27 novembre 2024 nell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano (ringrazio Francesca Benatti e Giuseppe Portonera). Per l’idea di suddividere il testo in due “facciate”, come se fosse un vinile, sono debitore a Diego Mauri.
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