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LA DIRETTIVA SUL DOVERE DI DILIGENZA DELLE IMPRESE AI FINI DELLA SOSTENIBILITÀ: QUALE PORTATA EXTRA UE?

Roberta Greco (Università di Teramo)

1. Premessa

In data 5 luglio 2024, dopo un lungo iter negoziale iniziato con la proposta della Commissione europea del febbraio 2022, è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea la Direttiva (UE) 2024/1760 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 giugno 2024, relativa al dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità e che modifica la direttiva (UE) 2019/1937 e il regolamento (UE) 2023/2859 (di seguito “Direttiva”). 

In breve, l’oggetto della direttiva è triplice. In primo luogo, impone agli Stati membri di stabilire obblighi di due diligence in materia di sostenibilità – sia in termini di tutela dei diritti umani che dell’ambiente – che incombano alle società non solo nell’ambito delle proprie attività, ma anche di quelle delle filiazioni (termine utilizzato dalla Direttiva per indicare le società sussidiarie o controllate) e dei partner commerciali nella catena di attività (art. 1, comma 1, lett. a). In breve, detti obblighi consistono nell’identificare, prevenire, attenuare, arrestare, minimizzarne l’entità e fornire riparazione per gli impatti negativi sui diritti umani e l’ambiente che potrebbero derivare dalle attività delle società, filiazioni e partner commerciali (art. 5). 

L’ambito di applicazione ratione materiae della Direttiva in relazione ai diritti umani è tuttavia limitato e sottoposto a una serie di condizioni che peccano per difetto di chiarezza (Meyer e Patz). Nello specifico, per impatto negativo sui diritti umani la Direttiva intende un impatto su persone causato da un abuso (termine quest’ultimo utilizzato dalla Direttiva in luogo di violazione) di un diritto umano elencato nell’allegato alla Direttiva (parte I, sezione 1; a titolo meramente esemplificativo divieto di lavoro minorile, di lavoro forzato, di schiavitù e tratta) e sancito dagli strumenti internazionali di cui al medesimo allegato (parte I, sezione 2) (art. 3, comma 1, lett. c.i). In alternativa, se un abuso di un diritto umano non è elencato nella parte I, sezione 1, di detto allegato, ma il diritto è sancito dagli strumenti elencati nella parte I, sezione 2, dello stesso, devono sussistere ulteriori condizioni perché possa darsi un ‘impatto negativo’: segnatamente, occorre che il diritto possa essere oggetto di abuso da parte di una società o una persona giuridica e che il rischio di abuso sia ragionevolmente prevedibile (art. 3, comma 1, lett. c.ii). 

L’impatto negativo sull’ambiente è determinato, invece, dalla violazione di divieti e obblighi elencati nel citato allegato alla Direttiva (parte I, sezione 1, punti 15 e 16, e parte II), quali ad esempio il divieto di causare qualsiasi degrado ambientale misurabile (art. 3, comma 1, lett. b) (vedi Rouas, Otten e Torán). 

In secondo luogo, la direttiva detta norme in materia di responsabilità per le violazioni degli obblighi di due diligence da parte delle imprese (art. 1, comma 1, lett. b). Tale responsabilità viene fatta valere attraverso un duplice regime complementare: uno di natura amministrativa, che si regge su autorità di controllo indipendenti dotate di poteri di supervisione, vigilanza e sanzionatori (artt. 25-28, Krajewski) e un regime di responsabilità civile volto a garantire alle vittime il pieno risarcimento del danno (art. 29).

Infine, la Direttiva stabilisce che sulle società devono incombere obblighi di adottare e mettere in pratica piani di transizione volti a mitigare i cambiamenti climatici assicurando, con il massimo impegno possibile (best efforts), la compatibilità del proprio modello e strategia aziendale con la transizione verso un’economia sostenibile, nel rispetto del limite del riscaldamento globale di 1,5 ̊C previsto dall’Accordo di Parigi (art. 1, comma 1, lett. c).

Gli obblighi sinora descritti sono rivolti agli Stati membri dell’Unione affinché questi li impongano alle società costituite in base al diritto interno di uno Stato membro dell’Unione, alle società di Stati costituite secondo la normativa di uno Stato terzo operanti nel mercato interno europeo, nonché alle società con accordi di franchising o di licenza nell’Unione, a condizione che raggiungano elevate soglie occupazionali e/o di fatturato (art. 2). Ciò, evidentemente, al fine assicurare che le società destinatarie dei nuovi obblighi siano capaci di sostenere gli investimenti necessari a rispettarli e a fornire assistenza ai partner commerciali di piccole e medie dimensioni.

Di particolare rilievo è l’ambito di applicazione soggettiva degli obblighi di cui alla Direttiva, i quali sono imposti anche alle grandi società di Stati terzi operanti nel mercato europeo e, indirettamente, ai partner commerciali operanti fuori dall’UE, per effetto del dovere che incombe sulle società destinatarie della Direttiva di adoperarsi per prevenire, limitare e porre termine agli impatti negativi sui diritti umani e l’ambiente causati lungo l’intera catena di attività (sia a monte, nella produzione di beni e prestazione di servizi, che a valle, nella distribuzione, trasporto e immagazzinamento dei prodotti) (Boskovic, “Extraterritoriality and the proposed directive on corporate sustainability due diligence: a recap”, in Journal of Private International law, 2024, p. 117 ss., p. 118). 

In breve, le società europee e quelle di Stati terzi operanti all’interno dell’Unione raggiunte dalla Direttiva sono chiamate ad adoperarsi, anche ricorrendo alla propria influenza nel mercato, affinché sia le filiazioni sia i partner commerciali stranieri rispettino gli obblighi di diligenza dovuta in materia di sostenibilità e offrano riparazione alle vittime laddove gli impatti negativi si siano verificati. 

Con queste misure l’Unione ha inteso esportare i propri standard di tutela dei diritti umani e dell’ambiente al di fuori del proprio territorio (Bueno, Bernaz, Holly e Martin-Ortega, “The EU Directive on Corporate Sustainability Due Diligence (CSDDD): The Final Political Compromise”, in Business and Human Rights Journal, 2024, p. 1 ss, pp. 5-6), ma anche realizzare un level playing field, per arginare le distorsioni della concorrenza in un mercato sempre più globalizzato. 

Ci si domanda se questo sforzo sia sufficiente a perseguire l’obiettivo di fornire maggiore tutela alle vittime di violazioni degli obblighi di due diligence in materia di sostenibilità commesse al di fuori del territorio dell’Unione. In particolare, ci si interroga sulla portata extraterritoriale dell’obbligo di riparazione – specialmente nella forma del risarcimento fornito alle persone colpite dall’impatto negativo sui diritti umani e l’ambiente – quale ultima declinazione dell’obbligo di due diligence (cfr. considerando 58; art. 3, comma 1, lett. t; art. 5, comma 1, lett. d e art. 12) e sulla capacità delle vittime di far valere la responsabilità civile delle società responsabili di dette violazioni. 

Esulano dalla presente indagine le critiche sui possibili effetti negativi indiretti della Direttiva sugli Stati in via di sviluppo (Mares) e, più in generale, quelle di imperialismo giuridico da parte degli Stati occidentali (Palombo, “Transnational Business and Human Rights Litigation: An Imperialist Project?”, in Human Rights Law Review, 2022, p. 1 ss).

2. Extraterritorialità e obbligo di riparazione dei danni causati dalla violazione dei doveri di due diligence

Per effetto della delocalizzazione e dell’esternalizzazione delle attività produttive al fuori dall’Unione, oltre che della costituzione di multinazionali con filiazioni in varie parti del mondo, è ragionevole ritenere che l’impatto negativo sui diritti umani e l’ambiente possa essere causato fuori dall’Unione da filiazioni di società destinatarie dalla Direttiva o da partner commerciali stranieri di dette società. 

La Direttiva stabilisce che sia compito degli Stati membri provvedere affinché la società (destinataria degli obblighi di cui alla Direttiva) che abbia causato, o causato congiuntamente, un impatto negativo fornisca una riparazione (art. 12, comma 1). 

Diversamente, se l’impatto negativo effettivo è causato solo dal partner commerciale della società quest’ultima non è tenuta a fornire alcuna riparazione. Può decidere di provvedere in tal senso oppure di utilizzare la propria capacità di influenzare il partner commerciale affinché questi fornisca la riparazione dovuta (art. 12, comma 2). Trattasi di azioni lasciate alla libera volontà delle società leader. 

Si possono dunque verificare distinte situazioni in cui verrebbe in rilievo la necessità di considerare la portata extraterritoriale dell’obbligo di riparazione, segnatamente, quando la violazione è commessa: i) da una società dell’Unione destinataria degli obblighi di cui alla Direttiva congiuntamente a una sua filiazione extra UE o ad un partner commerciale extra UE; ii) da una società di uno Stato terzo destinataria degli obblighi di cui alla Direttiva; iii) da una società di uno Stato terzo destinataria degli obblighi di cui alla Direttiva congiuntamente ad una sua filiazione extra UE o ad un suo partner commerciale extra UE; iv) solamente da una filiazione extraUE di una società destinataria degli obblighi di cui alla Direttiva; v) solamente da un partner commerciale extra UE di una società destinataria degli obblighi di cui alla Direttiva.

L’obbligo di riparazione sarebbe sempre imposto eccetto nell’ultimo caso, in cui il partner commerciale risulti unico responsabile dell’impatto negativo sui diritti umani e l’ambiente.

È questa evidentemente l’ipotesi che solleva maggiori perplessità circa la coerenza complessiva del sistema, in quanto le società destinatarie della Direttiva potrebbero tentare di eludere i propri obblighi di riparazione richiamandosi, ad esempio, al mero rispetto formale degli obblighi di diligenza. Occorre quindi considerare in quali circostanze un danno sia ascrivibile unicamente ad un partner commerciale. In particolare, laddove la società attinta dalla Direttiva abbia omesso di adottare le misure richieste ai fini della due diligence, può essere ritenuta corresponsabile in solido?

Ad avviso di chi scrive è ragionevole ritenere che si possano leggere le disposizioni della Direttiva nel senso di ampliare le maglie dell’onere di riparazione in capo alle società leader nella catena di attività interessate dalla Direttiva che abbiamo omesso di rispettare gli obblighi di due diligence loro incombenti. 

In tal senso depone l’interpretazione letterale delle disposizioni della Direttiva, le quali stabiliscono che la società sia «tenuta» ad adottare misure adeguate in termini di prevenzione e arresto degli impatti negativi causati dai partner commerciali (art. 10, comma 2, lett. b; art. 11, comma 3, lett. c), nonché di verifica della loro conformità.

Del pari, l’interpretazione teleologica depone nella direzione di considerare l’effettività degli obblighi di diligenza e vigilanza e non il loro mero rispetto formale. Si pensi, ad esempio, al principio secondo cui «il semplice ricorso a garanzie contrattuali non può, di per sé, garantire l’adempimento delle norme relative al dovere di diligenza della presente direttiva» (considerando 66) e alla regola secondo cui le società non sono esonerate dalla responsabilità civile per i danni causati a persone fisiche o giuridiche per il solo fatto di «aver fatto ricorso ad una verifica da parte di terzi indipendenti o a clausole contrattuali» (cfr. art. 29, comma 4).

Infine, occorre interrogarsi sul regime di responsabilità civile applicabile nel caso patologico in cui la riparazione non venga spontaneamente fornita.

Come noto, l’interposizione soggettiva derivante dal frazionamento, internazionalizzazione ed esternalizzazione delle fasi del processo produttivo ha consentito, dapprima, alle società madri di ricorrere allo schermo societario e al c.d. forum shopping e, da ultimo, alle società leader nella catena globale di valore di avvantaggiarsi della separazione formale tra la capogruppo e i partner commerciali per eludere o vanificare la responsabilità civile loro incombente in forza di regimi più sofisticati quali quelli europei (Carella, “Art. 19 della risoluzione dell’Institut de Droit International su Human Rights and Private International Law: attuazione della responsabilità sociale d’impresa e diritto internazionale privato”, in Diritti Umani e Diritto Internazionale, 2023, p. 169 ss, pp. 170-172). Questa interposizione, nel caso che ci occupa, rischierebbe di inficiare fortemente l’effettività della tutela fornita alle vittime degli impatti negativi sui diritti umani e l’ambiente derivanti dalla violazione degli obblighi di diligenza e vigilanza. La questione è quindi quella di comprendere se e quale sia la portata extraterritoriale del regime di responsabilità civile delineato dalla Direttiva.

In fase di approvazione della Direttiva da parte del Parlamento europeo autorevole dottrina ha sostenuto il rischio di un disallineamento tra la portata degli obblighi sostanziali di due diligence, imposti a tutte le società ricadenti nell’ambito di applicazione soggettiva della Direttiva, incluse le società terze operanti nel mercato interno, e quella degli obblighi di riparazione nascenti dal regime di responsabilità civile ivi disciplinato, che si rivolgerebbe invece solo alle società europee destinatarie della Direttiva (Boschiero, “L’extraterritorialità della futura direttiva europea sul dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità, tra diritto internazionale pubblico e privato”, in Diritti umani e diritto internazionale, p. 661 ss, p. 664). 

Di seguito si vuole verificare se il testo adottato della Direttiva confermi i timori di disallineamento tra la portata dell’obbligo di riparazione, che, come visto, incombe su tutte le società destinatarie della Direttiva, e l’effettività degli strumenti volti a fare valere coercitivamente detto obbligo. In altri termini si vuole valutare se le società di Stati terzi operanti all’interno dell’Unione e destinatarie degli obblighi di due diligence di cui alla Direttiva rispondano delle violazioni commesse all’interno o all’esterno del territorio europeo. Inoltre, ci si propone di verificare se e in che misura il regime di responsabilità civile introdotto dalla Direttiva tuteli le vittime di violazioni degli obblighi di due diligence nelle distinte ipotesi in cui dette violazioni siano commesse da filiazioni o partner commerciali di società europee destinatarie degli obblighi di cui alla Direttiva costituiti fuori dal territorio degli Stati membri dell’Unione europea ovvero da filiazioni o partner commerciali di società extra-europee destinatarie degli obblighi di cui alla Direttiva costituiti in Stati terzi.

3. Extraterritorialità e regime di responsabilità civile per i danni causati dalla violazione degli obblighi di due diligence

Come accennato, la Direttiva impone di considerare le società che ricadono nel suo ambito di applicazione responsabili civilmente per i danni causati da violazioni dei diritti umani e degli standard ambientali riconducibili alla mancata diligenza e vigilanza e, conseguentemente, di riconoscere alle persone fisiche o giuridiche danneggiate il diritto al pieno risarcimento in conformità al diritto nazionale (art. 29, commi 1 e 2).  

Affinché la società sia chiamata a risarcire il danno provocato a una persona fisica o giuridica occorre dimostrare la sussistenza di una serie di presupposti (Bueno e Oehm), in primis la violazione intenzionale o negligente di un obbligo di prevenire, attenuare, arrestarne e minimizzare l’entità degli impatti negativi su ambiente e diritti umani (di cui agli artt. 10 e 11) (art. 29, comma 1, lett. a).

Occorre, inoltre, che l’inosservanza di un diritto, divieto e obbligo elencato nell’allegato alla Direttiva sia inteso a tutelare una persona fisica o giuridica (art. 29, comma 1, lett. a) e non, quindi, posto a tutela di un interesse collettivo o dell’ambiente, come nel caso della maggior parte dei divieti e obblighi inclusi negli strumenti in materia ambientale. 

È necessario altresì dimostrare la sussistenza di un danno che abbia colpito gli interessi giuridici di persone fisiche o giuridiche tutelati dal diritto nazionale e il nesso di causalità tra l’inosservanza e il danno. Ciò significa che la responsabilità di una società non possa basarsi unicamente sull’inosservanza degli obblighi di diligenza e vigilanza (responsabilità oggettiva), ma occorra altresì che dalla violazione sia disceso un danno riconducibili a detta inosservanza. Pertanto, solo alcuni tipi di danni potranno far sorgere la responsabilità civile della società in quanto riconducibili causalmente alla violazione dell’obbligo di diligenza. Non è invece contemplato il danno indirettamente causato a terze persone in ragione di quello subito dalla vittima della violazione degli obblighi di cui all’allegato I della Direttiva (art. 29, comma 1, lett. b).

Infine, le società destinatarie degli obblighi di due diligence ai sensi della Direttiva non saranno responsabili dei danni che si verificano lungo l’intera catena di attività, a meno di non avervi contribuito. Stabilisce, infatti, la Direttiva che la responsabilità civile di una società è esclusa nel caso in cui il danno sia stato causato unicamente da un partner commerciale nella catena di attività cui partecipa detta società (art. 29, comma 1, ultimo periodo, considerando 79).

Si tratta di una modifica voluta dal Consiglio – nel contesto della rinegoziazione del testo della proposta di Direttiva della Commissione avvenuta tra febbraio e marzo 2024 (Ciacchi, “The newly-adopted Corporate Sistainability Due Diligence Directive: an overview of the lawmaking process and analysis of the final text”, in Era Forum, 2024, pp. 42-43) – tesa a restringere l’ambito di applicazione del regime di responsabilità civile ivi delineato. Come accennato, nelle suddette ipotesi di esclusione della responsabilità civile della società leader destinataria degli obblighi di cui alla Direttiva, è rimessa alla mera volontà della stessa la scelta di fornire una riparazione ovvero quella di avvalersi della sua capacità di influenzare il partner commerciale affinché quest’ultimo provveda a riparare i danni causati (art. 12).

Ne consegue che la responsabilità civile di cui sono gravate le società differisce in base alla circostanza che il danno derivi, unicamente o congiuntamente, da condotte delle società ricadenti nell’ambito di applicazione della Direttiva, da condotte di filiazioni di quest’ultime, ovvero dei loro partner commerciali. 

Se il danno è causato dalla società che ricade nell’ambito di applicazione della Direttiva, questa ne risponderà civilmente secondo le norme sulla responsabilità civile dello Stato membro in cui essa ha la sede legale (cfr. art. 2, comma 6).

Se il danno è causato dalla società destinataria della Direttiva congiuntamente alla sua filiazione e ad un partner commerciale diretto o indiretto, la prima è responsabile in solido con le seconde (secondo il principio della responsabilità condivisa di cui ai considerando 46 e 54), fatte salve le disposizioni di diritto nazionale relative alle condizioni della responsabilità in solido e ai diritti di regresso (art. 29, comma 5).

La Direttiva si premura di precisare, ove ve ne fosse stato bisogno, che rimane impregiudicata la responsabilità civile delle filiazioni e dei partner commerciali diretti e indiretti nella catena di attività delle società sottoposte al suo regime (art. 29, comma 5 e considerando 87). Pertanto, ove dette filiazioni o partner commerciali siano costituiti in conformità della normativa di uno Stato terzo, la responsabilità civile andrà fatta valere secondo le relative regole di tale Stato.

Procedimenti civili di risarcimento dei danni causati da società extra-europee destinatarie della Direttiva ovvero da filiazioni o partner commerciali di società destinatarie della Direttiva incorporati in Stati terzi rischiano, quindi, di avere esiti molti diversi a seconda delle regole che presiedono all’individuazione del foro competente o alla legge applicabile.  

Come noto, ostacoli all’accesso alla giustizia per lamentare abusi da parte di società possono sorgere sia da questioni legate alla giurisdizione – essendo verosimile che il giudice competente a dirimere la controversia per il risarcimento dei danni sia quello del foro della società extra-europea convenuta – che alla legge applicabile alla controversia, da individuare avendo riguardo alle norme di diritto internazionale privato dello Stato del foro o vincolanti lo stesso in forza di accordi internazionali (sul rapporto tra diritti umani e diritto internazionale privato vedi IIL, Resolution on Human Rights and Private International LawFawcett, Shúilleabháin e ShahAlvarez Rubio, Yiannibas (eds.)). 

Di queste problematiche la Direttiva non si fa che solo parzialmente carico, come si illustrerà nel prosieguo. 

3.1. La competenza giurisdizionale

La prima questione da affrontare attiene all’individuazione del foro dove le vittime di violazioni dei diritti umani e dell’ambiente poste in essere da società di Stati terzi possano agire in giudizio. Dette persone, fisiche o giuridiche, potrebbero voler instaurare un procedimento dinanzi all’autorità giurisdizionale di uno Stato membro, e segnatamente dinanzi al foro della società madre o leader di un gruppo su cui grava l’obbligo di diligenza e vigilanza, in ragione delle carenze dell’ordinamento giuridico di Stati terzi cui le norme di diritto internazionale privato attribuiscono la competenza giurisdizionale. Si pensi, a titolo esemplificativo, ad ipotesi di corruzione o assenza di indipendenza dei giudici. 

La Direttiva non affronta questioni attinenti alla giurisdizione, che sono disciplinate da altro strumento dell’Unione, salva la necessità di applicare, per convenuti domiciliati in Stati terzi, le norme nazionali ovvero, ove esistenti, gli strumenti internazionali in materia di riparto giurisdizionale. 

Infatti, se la società convenuta è domiciliata in uno Stato membro, si applica la disciplina dettata dal Regolamento (UE) n. 1215/2012 concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, c.d. Regolamento I-bis. L’art. 4 di detto Regolamento detta la regola generale del foro dello Stato membro dove è domiciliato il convenuto (forum rei), laddove per domicilio di una società si intende il luogo in cui essa ha la sua sede statutaria, l’amministrazione centrale oppure il suo centro d’attività principale (art. 63, comma 1, salvo i casi particolari disciplinati dal medesimo articolo). 

Nel caso di illeciti civili dolosi o colposi vige la regola della competenza dell’autorità giurisdizionale del luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto o può avvenire (forum loci damni, art. 7, comma 2, Regolamento Bruxelles I-bis) per cui una società domiciliata in uno Stato membro ben potrebbe essere convenuta in un altro Stato membro. 

In materia ambientale, tale disposizione è stata interpretata (cfr. Corte di Giustizia, Handelskwekerij G. J. Bier BV v. Mines de potasse d’Alsace SA., sentenza del 30 novembre 1976, Case C-21/76) nel senso di consentire alle vittime di intentare la causa nel luogo in cui si è verificato il danno o in cui sono state svolte le attività dannose (forum commissi delicti), così da dare alla vittima una scelta più ampia tra i fori in cui poter agire avverso l’impresa asseritamente responsabile dell’impatto ambientale negativo.  

Se la società convenuta non è, invece, domiciliata in uno Stato membro, la competenza giurisdizionale degli Stati membri deve essere determinate secondo le norme interne di diritto internazionale privato degli stessi (art. 6, comma 1, Regolamento Bruxelles I-bis) o, ove possibile, secondo quelle degli strumenti internazionali vigenti in materia (ad esempio, la Convenzione concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, GUUE L 339, 21 dicembre 2007, pp. 3–41, c.d. Convenzione di Lugano 2007). 

Applicando le norme di diritto internazionale privato degli Stati membri ovvero le norme dettate da strumenti internazionali vincolanti per gli stessi, potrebbe non sussistere un titolo di giurisdizione in favore di un giudice di uno Stato membro e dunque l’autorità giurisdizionale competente a dirimere una controversia avverso una società non domiciliata in uno Stato membro ben potrebbe essere quella di uno Stato terzo, ad esempio quella del luogo in cui il danno si è verificato, con la conseguenza che le vittime potrebbero incontrare difficoltà ad accedere a rimedi effettivi dovute alle sue esposte carenze dell’ordinamento giuridico in cui la controversia deve essere incardinata. 

Più nello specifico, è stato sottolineato come questo si ponga in contrasto con la portata extraterritoriale dell’obbligo di riparazione che grava sulle società destinatarie degli obblighi imposti dalla Direttiva, in primis, le società extra-europee operanti nel mercato interno (Boschiero, cit., p. 664). Quest’ultime, infatti, potrebbero dover essere citate in giudizio dinanzi ad autorità giurisdizionali di fori diversi da quelli degli Stati membri dell’Unione, come quelle del foro del loro domicilio. Ciò che, a fortiori, sarebbe vero nel caso di impatti negativi sui diritti umani causati da filiazioni o partner commerciali stranieri di tali società extra-europee. 

Del pari, si ritiene che detta incoerenza riguardi anche le ipotesi in cui la violazione dei diritti umani o degli obblighi ambientali sia stata commessa da filiazioni o partner commerciali di società madri o leader europee destinatarie della Direttiva laddove dette filiazioni o partner siano domiciliati in Stati terzi ovvero l’evento dannoso sia avvenuto al di fuori dell’Unione. Anche in tali ipotesi, la competenza giurisdizionale potrebbe ben spettare ai giudici di Stati terzi, non essendo sufficiente il collegamento con la società madre o leader a radicare la competenza giurisdizionale dei giudici dell’Unione, con le conseguenze sopra esposte.

3.2. Il diritto applicabile alla controversia

La seconda questione rilevante ai fini della presente indagine attiene all’individuazione del diritto applicabile alle controversie transfrontaliere riguardanti violazioni del dovere di diligenza imputabili alle società destinatarie della Direttiva ovvero degli obblighi in materia di sostenibilità attribuibili alle loro filiazioni o partner commerciali.

Le differenze esistenti tra i diversi ordinamenti in materia di obblighi di diligenza delle imprese possono risultare in una compressione del diritto alla riparazione delle vittime di violazioni dei diritti umani e dell’ambiente, oltre ad incidere sulla leale concorrenza tra le imprese quando solo alcune sono chiamate a sopportare i relativi costi. 

In particolare, se l’impatto negativo sui diritti umani si verifica in uno Stato terzo ad opera di una filiazione di una società destinataria della Direttiva ovvero di un suo partner commerciale e le norme di diritto internazionale privato vigenti in tale Stato rimandano all’ordinamento dello stesso ovvero a quello di altro Stato terzo, la controversia deve essere decisa sulla base delle norme sostanziali in tema di diligenza aziendale e degli standard di sostenibilità vigenti in uno Stato non membro, i quali potrebbero essere carenti, così ledendo il diritto della vittima ad esercitare l’azione civile e, in definitiva, quello alla riparazione.

In tali circostanze, occorrerà caso per caso verificare se la vittima abbia la possibilità di invocare la legge di uno Stato membro dell’Unione quale legge applicabile alla controversia in modo da avere maggiori chances di ottenere un risarcimento per il danno subito. 

Ai sensi del Regolamento n. 864/2007 sulla legge applicabile alle obbligazioni extracontrattuali, c.d. Regolamento Roma II (applicabile solo se la competenza giurisdizionale appartiene ad uno Stato membro), la legge applicabile alle obbligazioni derivanti da illeciti – come quelli che per lo più deriverebbero dalla violazione degli obblighi di diligenza e vigilanza –, è quella del paese in cui il danno si è verificato, a prescindere da dove si siano verificati gli eventi che hanno dato luogo al danno o da dove si siano avvertite le conseguenze indirette di tali eventi (ivi, art. 4, comma 1). 

Ne consegue che, nei casi in cui il danno si verifica in uno Stato terzo con bassi standard di tutela dei diritti umani, il diritto applicabile alla controversia non sarebbe quello della società madre, ma quello della filiazione o del partner commerciale, a meno che non si fornisca la prova che l’illecito sia manifestamente più strettamente connesso allo Stato di nazionalità della società madre (ivi, art. 4, comma 3), oppure che il diritto internazionale privato dello Stato dove il danno si è verificato stabilisca diversamente (laddove la competenza giurisdizionale si radicasse in tale Stato terzo).

Nelle ipotesi di danni ambientali transfrontalieri, l’art. 7 del Regolamento Roma II prevede un’eccezione alla regola su esposta. Segnatamente, consente all’attore di scegliere tra il diritto dello Stato in cui il danno si è verificato e quello dello Stato in cui gli eventi che hanno dato luogo al danno si sono verificati. Sulla scorta di una recente giurisprudenza (cfr. sentenza della Corte distrettuale dell’Aia del 26.05.2021), parte della dottrina ritiene che, nelle ipotesi oggetto di analisi, potrebbe essere considerato quale luogo degli eventi generatori del danno quello dello Stato membro di incorporazione della società madre o leader venuta meno agli obblighi di diligenza (Boskovic, cit., p. 128).

Un vuoto di tutela rimarrebbe in ogni caso nelle ipotesi di violazioni del dovere di diligenza in relazione ad impatti negativi sui diritti umani. Di questo problema la Direttiva non si fa carico. 

L’unica disposizione di diritto internazionale privato contenuta nella Direttiva, l’art. 29, comma 7, stabilisce che gli Stati membri debbano provvedere a che le disposizioni di diritto nazionale che recepiscono il regime di responsabilità civile previsto dalla Direttiva siano di applicazione necessaria nei casi in cui il diritto applicabile a tali azioni non sia il diritto nazionale di uno Stato membro (vedi anche considerando 90). 

Ebbene, il regime di responsabilità civile di cui all’art. 29 della Direttiva prevede una serie di tutele di carattere procedurale afferenti ai termini di prescrizione e alla loro decorrenza, alle spese processuali, alla possibilità di chiedere provvedimenti inibitori, alla rappresentanza in giudizio e alle prove (art. 29, comma 3, cfr. ZimmermannSilva de Freitas e Kramer) che vanno nel senso di recepire le critiche mosse avverso la versione originaria della disposizione in commento (ex art. 22), che nulla prescriveva al riguardo.

L’adozione della Direttiva, dunque, rafforza la tutela delle vittime di danni causati dal mancato rispetto di obblighi di due diligence e sostenibilità e, nondimeno, non è sufficiente a garantire che possano godere del diritto al risarcimento del danno qualora il diritto applicabile alla controversia sia quello di uno Stato terzo che nulla prevede al riguardo. Come detto, infatti, la Direttiva si limita a imporre l’applicazione necessaria del solo regime di responsabilità civile ivi delineato, come trasposto dagli Stati membri, allorquando la legge applicabile alla controversia non sia quella di uno Stato membro. In altre parole, solo il regime di responsabilità civile e non tutte le disposizioni della Direttiva prevalgono sulla legge applicabile alla controversia in base alle norme di diritto internazionale privato applicabili. 

4. Osservazioni conclusive

Tragedie quali quella del Rana Plaza hanno provato l’esigenza di imporre obblighi di diligenza e vigilanza in capo alle società al fine di tutelare i diritti umani e l’ambiente da attività economiche condotte irresponsabilmente. La Direttiva, tentando di muovere dei passi importanti in questa direzione rappresenta un’iniziativa lodevole. 

Tuttavia, mentre l’obbligo di riparazione per violazioni dei doveri di diligenza e vigilanza di cui alla Direttiva grava su tutte le società destinatarie della stessa, alcune limitazioni alla portata extraterritoriale del regime di responsabilità civile ivi delineato rischiano di inficiarne l’effettività.   

In particolare, nessuna disposizione della Direttiva si occupa di questioni attinenti alla individuazione del foro competente a conoscere delle controversie relative alla violazione degli obblighi di diligenza, con la conseguenza che le norme di diritto internazionale privato applicabili caso per caso ben potrebbero determinare la competenza giurisdizionale di tribunali extra-europei.

Del pari, la Direttiva non si occupa di indicare la legge applicabile alle controversie derivanti dalla violazione degli obblighi di diligenza e sostenibilità, che, ancora una volta, potrebbe essere una legge extra-europea. Ebbene, l’ordinamento dello Stato terzo competente ai sensi delle norme di diritto internazionale privato applicabili potrebbe non prevedere obblighi di diligenza e sostenibilità in capo alle società, con vanificazione degli effetti della Direttiva.

In loro assenza, infatti, sarebbe difficile attribuire la responsabilità per fatto illecito alle società, sicché verrebbe svuotata anche l’unica disposizione di diritto internazionale privato della Direttiva, ovvero l’art. 29, comma 7, secondo cui il regime di responsabilità civile ivi delineato è di applicazione necessaria. In sintesi, l’analisi condotta mostra come, in ultima istanza, rischiano di rimanere civilmente obbligate a risarcire i danni per la violazione degli obblighi di diligenza solo le società europee destinatarie degli obblighi di cui alla Direttiva per eventi lesivi verificatisi in uno Stato membro, mentre l’interposizione soggettiva potrebbe continuare a schermare sia dette società per le violazioni commesse da filiazioni e partner commerciali di Stati terzi, sia le società extra-europee destinatarie della Direttiva e le proprie filiazioni e partner commerciali, con conseguente frustrazione dei fini di sostenibilità che la Direttiva si propone di perseguire.

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