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Modifica dell’identità di genere e circolazione degli status personali e familiari nell’Unione europea: le conclusioni dell’Avvocato generale De La Tour nel caso Mirin

Curzio Fossati, Università di Cagliari*

1. Premessa

Il 7 maggio 2024, l’Avvocato generale Jean Richard De La Tour ha presentato le proprie conclusioni nel caso Mirin (C-4/23), relativo ad una richiesta da parte di un cittadino rumeno di annotazione sugli atti di stato civile del proprio Paese del cambiamento di identità di genere ottenuto nel Regno Unito (durante il periodo transitorio previsto dall’accordo sul recesso di tale Stato dall’Unione europea).

Il caso si colloca nel contesto dei rinvii pregiudiziali devoluti alla Corte di giustizia in materia di circolazione degli status personali e familiari all’interno dell’Unione europea.

Come noto, la materia del diritto di famiglia e dello stato civile ricade nella competenza esclusiva degli Stati membri, ad eccezione delle misure aventi implicazioni transfrontaliere, che l’Unione europea può adottare, ai sensi dell’art. 81 par. 3 TFUE, con procedura legislativa speciale. Su tale base giuridica sono stati approvati numerosi regolamenti di diritto internazionale privato di famiglia, tra i quali rientrano il regolamento n. 2019/1111 relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e di responsabilità genitoriale (c.d. Bruxelles II-ter), il regolamento n. 4/2009 sulle obbligazioni alimentari, il n. 1259/2010 sulla legge applicabile al divorzio e alla separazione personale dei coniugi (c.d. Roma III) e i regolamenti n. 2016/1103 e n. 2016/1104 in materia di regimi patrimoniali, rispettivamente tra coniugi e partner di unioni registrate. Nel dicembre 2022, la Commissione europea ha presentato una proposta di regolamento relativo alla competenza, alla legge applicabile e al riconoscimento delle decisioni e all’accettazione degli atti pubblici in materia di filiazione e alla creazione di un certificato europeo di filiazione, la cui approvazione, tuttavia, allo stato risulta incerta, in considerazione delle reazioni che essa ha suscitato all’interno di taluni Stati membri, data la particolare sensibilità degli interessi coinvolti (sul punto si vedano Biagioni, Danieli, González Beilfuss e Pretelli). I regolamenti attualmente vigenti non disciplinano la materia dello stato civile, l’esistenza, la validità e il riconoscimento dei matrimoni e neppure l’accertamento, la contestazione e il riconoscimento della filiazione (il regolamento n. 2016/1191 stabilisce requisiti uniformi per la presentazione di documenti pubblici relativi a tali materie, ma non si occupa del riconoscimento degli effetti del contenuto di tali documenti): le relative questioni internazionalprivatistiche vanno pertanto risolte applicando le norme di conflitto nazionali degli Stati membri.

Le notevoli divergenze tra le soluzioni seguite da tali norme, unitamente alle altrettanto marcate differenze tra le normative sostanziali in materia (sul punto si veda Gössl e Melcher), possono costituire un ostacolo alla circolazione degli status personali e familiari all’interno dell’Unione europea e di conseguenza possono comportare una limitazione alle libertà di circolazione e soggiorno riconosciute dall’art. 21 TFUE: il diniego opposto dalle autorità di uno Stato membro al riconoscimento di uno status acquisito da un cittadino dell’Unione europea o da un suo familiare in un altro Stato membro spesso impedisce, o rende più difficile, l’esercizio di tali libertà.

2. I precedenti in tema di circolazione del nome e degli status

La Corte di giustizia ha già avuto modo di pronunciarsi su casi di diniego opposto dalle autorità degli Stati membri al riconoscimento del nome e degli status di coniuge o di figlio acquisiti in altri Stati membri da cittadini europei o da loro familiari.

In tema di riconoscimento del nome, la Corte ha affermato che il diritto alla libera circolazione e soggiorno obbliga ciascuno Stato membro a riconoscere automaticamente i cognomi attribuiti ad un cittadino in base alla legge di un altro Stato membro, a condizione che quest’ultimo presenti stretti legami con l’interessato, che non vi sia abuso del diritto e che il riconoscimento non contrasti con l’ordine pubblico, come nel caso dei cognomi che contengono titoli nobiliari, proibiti dall’ordinamento interno (si vedano, ad esempio, Corte di giustizia, causa C-208/09,Sayn-Wittgenstein e causa C-438/14, Bogendorff).

Quanto al riconoscimento dello status di coniuge, la Corte, nella sentenza Coman, ha affermato che ciascuno Stato membro è obbligato a riconoscere il matrimonio contratto da due soggetti dello stesso sesso in un altro Stato membro, al solo fine di concedere il diritto di soggiorno derivato (di cui all’art. 7 della direttiva 2004/38) al componente di tale coppia privo della cittadinanza dell’Unione europea. La Corte ha precisato che gli Stati membri non sono obbligati a riconoscere gli altri diritti derivanti dal matrimonio in base alla legge del Paese in cui è stato celebrato (quali i diritti patrimoniali, quelli successori, etc.), né tanto meno a introdurre nei propri ordinamenti tali forme di matrimonio.

Con la sentenza Pancharevo, analogo principio è stato poi esteso al riconoscimento dello status di figlio. In questa pronuncia la Corte ha affermato che ciascuno Stato membro è obbligato a riconoscere lo status filiationis legalmente attestato in un altro Stato membro, in base alla legge nazionale, tra un minore – cittadino dell’Unione europea – e due soggetti dello stesso sesso, al fine di consentire al medesimo l’esercizio del diritto di circolazione e soggiorno nell’Unione, non potendosi eccepire l’eventuale contrasto delle unioni tra persone dello stesso sesso, o della genitorialità omoparentale, con l’ordine pubblico del Paese di cui il minore risulterebbe cittadino. La Corte ha poi ribadito che non sussiste alcun obbligo degli Stati membri di riconoscere il rapporto di filiazione ad altri fini né di modificare la legislazione interna in materia di diritto di famiglia (nel senso di consentire la filiazione alle coppie dello stesso sesso).

La Corte sinora non si è pronunciata sullo specifico profilo del riconoscimento in uno Stato membro dell’atto o della decisione che accertano il cambio di identità di genere di un proprio cittadino, rilasciati dalle autorità di un altro Stato membro.

3. Il caso Mirin

Nel caso oggetto del nuovo rinvio pregiudiziale, M.- A. A., cittadino rumeno registrato allo stato civile del comune di Cluj-Napoca con il sesso femminile, dopo essersi trasferito nel Regno Unito e ottenuta la cittadinanza di tale Stato, ha chiesto alle autorità del medesimo Paese l’aggiornamento dell’indicazione, nel registro di stato civile, del prenome e del genere da femminile a maschile, e ha altresì ottenuto dalle stesse autorità il «Gender Recognition Certificate», attestante la sua nuova identità maschile. Successivamente, il ricorrente ha chiesto alle autorità rumene l’annotazione nel proprio atto di nascita della nuova indicazione di genere e del nuovo prenome. Le autorità rumene, tuttavia, hanno respinto la richiesta in quanto la normativa nazionale consente di cambiare l’annotazione relativa al sesso sull’atto di nascita dei propri cittadini solo se autorizzato con provvedimento giurisdizionale definitivo, emesso dai giudici nazionali. M.- A. A. ha pertanto presentato ricorso al Tribunale di primo grado del 6° distretto di Bucarest, al fine di ottenere l’ingiunzione alle autorità competenti di effettuare le modifiche richieste. Il Tribunale ha quindi deciso di effettuare rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, domandandole se sia compatibile con lo status di cittadino dell’Unione e/o con il diritto di circolazione e soggiorno dei cittadini nell’Unione, in condizioni di dignità, uguaglianza davanti alla legge e non discriminazione e nel rispetto del diritto alla vita privata e familiare, una normativa nazionale – quale quella rumena – che non consente di riconoscere automaticamente i cambiamenti di annotazioni di stato civile relative al sesso e al prenome ottenuti da un proprio cittadino in un altro Stato membro (di cui il medesimo è del pari cittadino), ma impone di iniziare un procedimento giudiziario davanti alle autorità nazionali. Il giudice del rinvio ha evidenziato che tale procedimento è già stato dichiarato come privo di chiarezza e prevedibilità da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza 19 aprile 2021, ricorsi nn. 2145/16 e 20607/16, X e Y c. Romania) e, nelle fattispecie come quella in esame, l’esperimento obbligatorio di un procedimento giudiziario espone l’istante al rischio di ottenere una decisione contrastante con le modifiche già ottenute all’estero. Il Tribunale ha altresì chiesto alla Corte di giustizia di chiarire se la circostanza secondo cui il procedimento di cambiamento di identità di genere si sia svolto nel Regno Unito e si sia concluso dopo il recesso di tale Stato dall’Unione (sebbene iniziato anteriormente a questo momento), incida sull’obbligo degli altri Stati membri di riconoscere automaticamente al proprio interno gli esiti di tale procedimento.

4. Le conclusioni dell’Avvocato generale

L’Avvocato generale De La Tour si è espresso nel senso dell’incompatibilità della normativa rumena con il diritto dell’Unione europea.

Innanzitutto, l’Avvocato generale ha concluso per l’irrilevanza ai fini della soluzione della questione pregiudiziale del fatto che l’istanza dell’interessato alle autorità rumene fosse stata presentata in una data in cui il diritto dell’Unione europea non era più applicabile nel Regno Unito, a causa del recesso esercitato da tale Stato: infatti, tale istanza si basa su di un certificato rilasciato dalle autorità del Regno Unito durante il periodo transitorio previsto dall’accordo sul recesso, e tale certificato va pertanto considerato come documento ufficiale di uno Stato membro (punti 43-46).

L’Avvocato generale ha poi affrontato i due aspetti della questione pregiudiziale relativi al prenome e al genere.

Quanto al primo aspetto, secondo l’Avvocato generale, subordinare il riconoscimento del nuovo prenome acquisito dal ricorrente nel Regno Unito al riconoscimento – tramite decisione giurisdizionale interna – della nuova identità di genere ottenuta dallo stesso viola il principio di effettività e costituisce una restrizione delle libertà di circolazione e soggiorno previste dall’art. 21 TFUE (punti 58-60). Le autorità rumene dovrebbero aggiornare automaticamente l’atto di nascita dell’interessato con l’indicazione del nuovo prenome anche se questo appare socialmente associato al genere opposto a quello risultante dall’atto stesso (punto 61). Inoltre, secondo l’Avvocato generale, il riconoscimento del nuovo prenome dovrebbe produrre effetti anche su altri atti di stato civile – quali l’atto di matrimonio o di unione civile – compresi quelli dei familiari, come l’atto di nascita del figlio (punto 62). Tale modifica, da un lato, non altera l’identità dei terzi (al contrario di ciò che si verificherebbe in caso di una variazione del cognome) e, dall’altro lato, evita discordanze tra gli atti di stato civile, che potrebbero ostacolare l’esercizio delle libertà di circolazione e soggiorno dei familiari dell’interessato (punto 63).

Per quanto riguarda il secondo aspetto (relativo al genere), invece, il ragionamento dell’Avvocato generale è più articolato e la soluzione proposta più cauta.

Innanzitutto, l’Avvocato generale ricorda che l’indicazione del genere di una persona è elemento costitutivo della sua identità personale, al pari del nome, e che pertanto, in prima battuta, si potrebbe sostenere l’applicazione al caso in esame degli stessi principi sanciti dalla Corte di giustizia con riferimento al riconoscimento del nome (punti 67-78). Dal momento che da tali principi è possibile ricavare l’obbligo degli Stati membri di riconoscere automaticamente gli elementi identificativi acquisiti dai cittadini negli altri Stati membri, sarebbe incompatibile con gli stessi la normativa interna di uno Stato membro che subordini il riconoscimento del cambiamento dell’identità di genere di un cittadino ad una autorizzazione da parte dell’autorità giurisdizionale nazionale (punti 79-81).

Tuttavia, l’Avvocato generale si è premurato di precisare che il riconoscimento di un atto straniero che accerta il mutamento dell’identità di genere implica una modifica non solo dello status personale (come nel caso di cambiamento del nome) ma, potenzialmente, anche di quello familiare dell’interessato (punti 84-85). Per tale motivo è necessario rispondere alla questione pregiudiziale tenendo conto di quanto affermato dalla Corte di giustizia nelle sentenze Coman e Pancharevo (punto 86). Come sopra ricordato, in tali sentenze la Corte ha precisato che l’obbligo degli Stati membri di riconoscimento degli status familiari acquisiti negli altri Stati membri presenta limiti ben precisi, nel senso che opera ai soli fini dell’esercizio della libertà di circolazione e soggiorno da parte dell’interessato e non riguarda tutte le posizioni giuridiche soggettive connesse allo status secondo la legge del Paese in cui è stato acquisito. L’Avvocato generale ha quindi concluso che – in linea con tale giurisprudenza – anche il riconoscimento da parte di ciascuno Stato membro del cambiamento dell’identità di genere ottenuto da un proprio cittadino in un altro Stato membro debba avvenire entro analoghi limiti (punto 92). In particolare, uno Stato membro dovrebbe modificare l’indicazione del sesso solo sull’atto di nascita dell’interessato e tale variazione dovrebbe produrre effetti solo al fine di consentire il rilascio dei documenti di cui l’interessato necessiti per circolare e soggiornare all’interno dell’Unione (punti 93-95). Inoltre, gli Stati membri non dovrebbero neppure essere obbligati ad annotare il nuovo genere dell’interessato sugli atti di stato civile dei suoi familiari, poiché tale cambiamento implicherebbe il riconoscimento di matrimoni tra persone dello stesso sesso o di rapporti di filiazione omogenitoriali, e il diritto dell’Unione europea non può imporre agli Stati membri tale riconoscimento (punto 94).

5. Osservazioni conclusive

Il caso Mirin rappresenta l’occasione per ottenere dalla Corte di giustizia utili precisazioni in materia di circolazione degli status personali e familiari all’interno dell’Unione europea e sulla applicabilità dei principi dalla stessa enunciati nei propri precedenti anche allo specifico caso – sin ora mai affrontato – del riconoscimento da parte di uno Stato membro del cambiamento di identità di genere ottenuto da un cittadino in un altro Stato membro .

La questione pregiudiziale sottende un delicato bilanciamento tra la tutela delle libertà di circolazione e soggiorno e dei diritti fondamentali dell’interessato (identità personale, rispetto della vita privata e familiare, etc.), da un lato, e l’esigenza di preservare la competenza esclusiva degli Stati membri in materia di diritto di famiglia e di stato civile, dall’altro. Tale bilanciamento risulta problematico soprattutto nei casi in cui vengono in rilievo legislazioni nazionali particolarmente restrittive per quanto concerne il mutamento delle annotazioni sugli atti di stato civile relative al genere (come, appunto, quella rumena, o quella bulgara, sulla quale si veda la recente domanda di pronuncia pregiudiziale nella causa C-43/24, Shipov, in cui la Suprema Corte di Cassazione bulgara ha domandato alla Corte di giustizia se sia compatibile con i principi di uguaglianza e di libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea la propria normativa nazionale – così come interpretata dalla giurisprudenza vincolante interna – che non consente alle persone transessuali di ottenere una modifica dell’indicazione del genere nei propri documenti anagrafici, in assenza di un mutamento, anatomico e irreversibile, del sesso).

La soluzione suggerita dall’Avvocato generale de La Tour è degna di nota in quanto garantisce continuità rispetto alle sentenze Coman e Pancharevo, chiarendo, peraltro, i principi nelle stesse affermati. Le conclusioni in commento ribadiscono, infatti, che le norme del TFUE sulle libertà di circolazione e soggiorno impongono agli Stati membri un obbligo di riconoscimento degli status personali e familiari acquisiti da un cittadino in un altro Stato membro «parziale» o «funzionale» alle libertà menzionate (in questo senso si vedano Kinsch, Meeusen, Feraci e Grassi). Esse dunque rigettano l’impostazione secondo cui le citate norme del trattato contengono una norma implicita di coordinamento tra ordinamenti, fonte di un obbligo in capo agli Stati membri di riconoscimento generalizzato degli status, esteso a tutte le situazioni giuridiche derivanti dai medesimi in base alla legge del Paese d’origine (in questo senso si vedano Rossolillo e Baratta), a conferma della necessità che un simile obbligo venga introdotto tramite un regolamento di diritto internazionale privato dell’Unione europea.

Tuttavia, l’applicazione al caso di specie dei principi sanciti nei due precedenti, operata dall’Avvocato generale nelle sue conclusioni, non è esente da critiche.

In primo luogo, la soluzione dallo stesso proposta pare di difficile attuazione dal punto di vista pratico: una volta modificato l’atto di nascita di un cittadino, con l’indicazione della nuova identità di genere, non è ben chiaro come le autorità competenti possano limitare l’effetto della modifica al solo rilascio dei documenti che consentano all’interessato di circolare e soggiornare nell’Unione.

Inoltre, come evidenziato dallo stesso Avvocato generale (punto 95), la soluzione individuata potrebbe comportare una discrepanza tra gli atti di stato civile di una coppia o di una famiglia, che, oltre ad essere sicuramente poco soddisfacente dal punto di vista della certezza del diritto, potrebbe ostacolare l’esercizio della libertà di circolazione da parte dei familiari dell’interessato.

Da ultimo, il limitato effetto dell’annotazione della nuova identità di genere sugli atti di stato civile dell’interessato nel Paese richiesto non consente allo stesso di dimostrare, tramite tali atti, i propri legami familiari costituiti nello Stato membro di provenienza, e rischia altresì di impedire la costituzione di nuovi legami familiari, ostacolando l’accesso al matrimonio e/o alla filiazione (qualora nello Stato membro in questione non sia concesso alle coppie del medesimo sesso di sposarsi ed avere figli). Tale soluzione, dunque si traduce in un vulnus al diritto al rispetto della vita privata e familiare, nonché a quello di sposarsi e costituire una famiglia (artt. 7 e 9 CdfUE e artt. 8 e 12 CEDU).

Un riconoscimento senza riserve della nuova identità di genere e la sua annotazione su tutti gli atti di stato civile dell’interessato e dei suoi familiari garantirebbe senza dubbio una più ampia tutela di tali diritti e sarebbe maggiormente in linea con quanto affermato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo al riguardo (si vedano: sentenza 26 giugno 2023, ric. n.76888/17, Y c. Francia, nella quale la Corte ha affermato che ai sensi dell’art. 8 CEDU gli Stati contraenti hanno l’obbligo positivo di adottare le misure che consentano il riconoscimento oltre che del cambiamento di cognome o di nome, anche di quello dell’identità di genere, ottenuto in un altro Stato; sentenza, 11 luglio 2002, ric. 28957/95, Goodwin c. UK, nella quale la Corte ha affermato che gli Stati contraenti devono garantire alle persone transgender sia il diritto a veder cambiata la propria identità in tutti i documenti pubblici, sia quello di sposarsi, tenendo conto della riassegnazione di genere ottenuta; in dottrina, Duràn Ayago, Marino e Carrascosa González).

Tuttavia, pare difficile che la Corte di giustizia possa adottare una soluzione più soddisfacente di quella suggerita dall’Avvocato generale, specie sotto il profilo della tutela dei diritti fondamentali coinvolti. È ben noto, infatti, che la Corte di giustizia e la Corte EDU seguono approcci tra loro molto diversi in tema di obbligo, rispettivamente, degli Stati membri e degli Stati contraenti di riconoscimento degli status personali e familiari acquisiti negli altri Stati, in ragione del diverso fondamento dei due obblighi: rispettivamente, l’art. 21 TFUE e l’art. 8 CEDU (sul punto si veda, per tutti, Marongiu Buonaiuti).

Per garantire una effettiva circolazione degli status in questione all’interno dell’Unione europea – che assicuri una maggiore tutela dei diritti fondamentali coinvolti – pare imprescindibile che le istituzioni dell’Unione procedano a colmare le lacune della regolamentazione internazionalprivatistica della materia in esame. Si auspica che un primo passo in tale senso possa essere rappresentato dall’approvazione del regolamento sulla filiazione.

*The contribution presents part of the research undertaken under the PRIN 2022 project “Fluidity in family structures – International and EU law challenges on parentage matters” (prot. n. 2022FR5NNJ), financed by the Ministry of University and Research of the Italian Republic and by the European Union – Next Generation EU.

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