Nessuna “eccezione costituzionalmente giustificata” alla CEDU: contro-limiti vs. supremazia del diritto internazionale in Walęsa c. Polonia
(Lorenzo Acconciamessa, Corte europea dei diritti umani; membro della redazione)*
1. Il 23 novembre 2023 la Corte europea dei diritti umani (di seguito anche solo “la Corte europea”) ha reso la propria sentenza nel caso Walęsa c. Polonia. La pronuncia è di estremo rilievo in quanto costituisce l’esito di una procedura pilota, relativa alla crisi dello Stato di diritto in Polonia (sul punto si veda Leloup). Tuttavia, l’interesse suscitato per uno studioso di diritto internazionale si spinge ben oltre. Si tratta, infatti, del primo caso in cui un Governo ha invocato in modo espresso e netto la teoria dei contro-limiti come difesa nell’ambito di un giudizio internazionale, per sostenere che lo Stato che non adempie a un proprio obbligo internazionale allo scopo di proteggere un principio costituzionale fondamentale non commetterebbe, secondo il diritto internazionale, un atto illecito.
Come è ben noto, la teoria dei contro-limiti sostiene l’assoluta intangibilità di alcuni principi costituzionali ritenuti irrinunciabili per l’ordinamento nazionale, i quali si situano al vertice della gerarchia normativa e sono insuscettibili di essere compromessi per l’effetto dell’applicazione di qualsiasi norma proveniente dall’esterno del sistema giuridico interno. Così inquadrati, i contro-limiti costituiscono un “argine rispetto a possibili violazioni dei principi fondamentali della Costituzione e dei diritti inviolabili da parte degli ordinamenti sovranazionali e internazionale” (Calvano, p. 2) e , secondo alcuni, sarebbero una clausola di salvaguardia indispensabile al funzionamento di uno Stato liberale (von Bogdandy, p. 412).
Nonostante ciò, è evidente che il ricorso alla teoria del contro-limiti o a tecniche simili che postulano la prevalenza dei principi fondamentali delle costituzioni nazionali su norme internazionali incompatibili implica il non rispetto, dunque la violazione, di obblighi internazionali dello Stato e, quindi, la commissione di un illecito e il sorgere della responsabilità internazionale dello Stato (Focarelli, p. 56). Ne deriva che, “from the standpoint of international law, a decision of this kind is hardly acceptable” (Palombino, p. 504). Come vedremo, di recente tale assunto è stato sempre più spesso messo in discussione, e la posizione del Governo polacco si inserisce in una ben più ampia prassi di contestazione del principio che sancisce la supremazia del diritto internazionale sul diritto interno e, in particolare, sui principi costituzionali fondamentali (sul punto si vedano, ad esempio, Nollkaemper e Malenovsky e, quanto alla possibilità che un’eccezione a tale principio si stia formando anche a seguito della nota pronuncia 238/2014 della Corte costituzionale italiana, De Sena e Pisillo Mazzeschi).
Pertanto, dopo aver ricostruito brevemente le vicende che hanno portato alla pronuncia in esame (par. 2), il presente scritto esaminerà in che termini il Governo polacco ha messo in discussione il principio di supremazia del diritto internazionale (par. 3). Una volta analizzata la risposta fornita dalla Corte europea a tale argomento (par. 4), la sentenza sarà inquadrata nel più ampio contesto della recente tendenza a mettere apertamente in discussione il principio che sancisce la prevalenza degli obblighi internazionali sui principi costituzionali ritenuti supremi (par. 5).
2. Bisogna cominciare con il ricordare che la pronuncia Walęsa costituisce solo l’ultima di una serie di sentenze rese dalla Corte europea nei confronti della Polonia, e che accertano una violazione del principio del “tribunale stabilito dalla legge”, di cui all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti umani e delle libertà fondamentali (CEDU), a causa di riforme che hanno fortemente inciso sull’indipendenza del potere giudiziario. La Corte europea si era già di recente pronunciata contro le regole polacche in materia di composizione della Corte costituzionale (Xero Flor w Polsce sp. z.o.o. c. Polonia) e di diverse camere della Corte suprema (Dolinska-Fickek e Ozimek c. Polonia, Advance Pharma sp. z.o.o. c. Polonia, e Roczkovicz c. Polonia), di rimozione per via legislativa di alcuni membri del Consiglio superiore della magistratura (Grzęda c. Polonia e Zurek c. Polonia) nonché di riduzione dell’età di pensionamento dei giudici (Pajak e altri c. Polonia).
In questo contesto, sono intervenute due sentenze della Corte costituzionale polacca che, invocando la teoria dei contro-limiti, hanno dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 6 CEDU, per come interpretato nelle summenzionate pronunce della Corte europea, e si sono opposte alla loro attuazione sul piano interno (la traduzione in inglese delle sentenze è allegata Rapporto del Segretario generale del Consiglio d’Europa, reso il 9 novembre 2022 ai sensi dell’art. 52 CEDU).
In una prima pronuncia, resa il 24 novembre 2021 (caso n. K 6/21), la Corte costituzionale polacca ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 6 CEDU, nella parte in cui l’espressione “tribunale stabilito dalla legge” è stata interpretata come riferibile anche alla Corte costituzionale stessa e come implicante il potere della Corte europea di pronunciarsi sulla legittimità del processo di nomina dei giudici costituzionali. La Corte costituzionale ha invocato la difesa della sovranità polacca e dell’identità nazionale:
«In fulfilling its role, the [Constitutional] Tribunal is obliged to uphold the sovereignty of the Republic of Poland and cannot allow the ECtHR, using its jurisdiction in the field of international human rights, to interfere with the legal system of Polish constitutional bodies. Poland, by ratifying the Convention, did not consent to the jurisdiction of the ECtHR in this regard. The Tribunal’s obligation is to defend the Polish constitutional identity. It does so by means of reviewing whether the standard with the content shaped in the ECtHR case-law fits into the Polish constitutional system from the perspective of the principle of supremacy of the Constitution, expressed in its Article 8(1)». (par. 3.2.1 della sentenza, enfasi aggiunta)
Dato che, a detta della Corte costituzionale, solo il Parlamento può pronunciarsi sulla nomina dei giudici costituzionali (par. 5 della sentenza), essa ha dichiarato l’impossibilità costituzionale di dare esecuzione interna alla pronuncia Xero Flor della Corte europea.
In una successiva sentenza resa il 10 marzo 2022 (caso n. K 7/21), la Corte costituzionale polacca ha sancito nuovamente la prevalenza della Costituzione polacca su qualsiasi atto normativo, interno o internazionale, con essa incompatibile (par. 3.1 della sentenza). Essa ha quindi ritenuto di essere legittimata ad esercitare un «right to resistance» in situazioni in «when domestic and international standards collide»: in tali ipotesi, «the fundamental elements of the constitutional order have to be protected because a norm or act of international law are manifestly incompatible with constitutional standards» (ibid, enfasi aggiunta). Tale diritto alla resistenza sarebbe esercitabile in casi in cui la norma internazionale o la pronuncia internazionale in gioco sollevino un problema considerato «systematically serious» e, in particolare, ove l’attuazione di una sentenza internazionale «would significantly undermine the edifice of the domestic legal system (constitutional foundation of statehood)». A detta della Corte costituzionale polacca, la resistenza sarebbe giustificata dalla legittimazione democratica di cui godono il sistema giuridico interno e il giudice costituzionale, mancante invece nel caso di un tribunale internazionale. Nel caso concreto, la Corte costituzionale ha ritenuto che il modo in cui la Corte europea aveva interpretato il requisito del “tribunale stabilito dalla legge” incidesse sulla sovranità politica della Polonia, un problema che concerne «the essence and core of the Constitution, namely an element of Poland’s constitutional identity». (par. 6, enfasi aggiunta). Essa ha quindi sostenuto che
«[t]he guardian of the Constitution is the Constitutional Court, which cannot allow Conventional norms conflicting with the Constitution, derived by way of adjudication and entering the domestic system without the ratification procedure, to have any effect on Poland, whether in international or in domestic law. That would violate the Constitution and therewith the sovereignty of the Polish state» (ibid, enfasi aggiunta).
Sulla base di tali considerazioni, la Corte costituzionale polacca ha concluso che le citate sentenze della Corte europea non erano vincolanti per la Polonia ai sensi dell’art. 46 CEDU. È interessante notare come essa abbia aggiunto che la pronuncia resa non costituisse violazione degli obblighi internazionali della Polonia, e del principio di non invocabilità del diritto interno sancito dall’art. 27 della Convenzione di Vienna, in quanto essa «only constitutes the demarcation of a constitutional limit to the — permitted, in principle — dynamic of the ECtHR’s lawmaking leeway and applies solely to the disputed norms created out of Article 6(1) of the Convention» (par. 6). A suo parere, avendo la Corte europea oltrepassato i limiti del consenso espresso dallo Stato rispetto alla sottoposizione alla sua giurisdizione, alcun illecito può essere attribuito alla Polonia.
3. Come è evidente, le pronunce della Corte costituzionale manifestano fermamente l’opinione secondo cui il mancato di un obbligo internazionale giustificata dalla necessità di tutelare i principi costituzionali supremi sarebbe lecito per lo stesso diritto internazionale.
Tuttavia, le due pronunce sono state immediatamente contestate, nell’ambito delle rispettive competenze, da vari organi del Consiglio d’Europa. Già pochi giorni dopo la sentenza del 2021, e nuovamente il 16 marzo 2022, infatti, il Segretario generale ha richiesto spiegazioni alla Polonia, nell’esercizio dei poteri conferiti a tale organo dall’art. 52 CEDU, sulla modalità con cui il proprio diritto interno avrebbe permesso di dare attuazione all’art. 6 CEDU e alle sentenze della Corte europea dichiarate incostituzionali. Il Governo polacco, nelle risposte fornite, ha affermato che la propria Corte costituzionale ha esaminato ampiamente la questione del rapporto tra diritto interno e diritto internazionale, e tra trattati e norme costituzionali, sancendo la supremazia della Costituzione polacca rispetto al diritto internazionale, in generale, e alla CEDU, in particolare: in quanto trattato ratificato dalla Polonia, essa prevale sulle norme di legge ordinaria, ma è sottoposto alle norme costituzionali (par. 18). Il Governo ha specificato che nel caso concreto la Corte costituzionale avrebbe protetto il principio fondamentale secondo cui «the legislator provided for the monopoly of parliament in electing the judges of the Constitutional Court» (par. 16), e come questo principio non potesse che prevalere in quanto la Costituzione nazionale è sovraordinata rispetto a norme incompatibili della CEDU (par. 18) Come evidente, si tratta di argomentazioni che rinviano alla tutela della sovranità e degli interessi nazionali polacchi e che sono state fortemente criticate dal Segretario generale nel citato rapporto del 9 novembre 2022, ove ha concluso che, nonostante le pronunce della propria Corte costituzionale, «Poland has not been released from its unconditional obligation under Article 46 of the Convention to abide with the European Court’s judgments fully, effectively and promptly» (par. 30 del rapporto).
Inoltre, a giugno 2022 e dicembre 2023, nell’ambito delle procedure di monitoraggio sull’attuazione della sentenza Xero Flor cui la Corte costituzionale polacca si è opposta, il Comitato dei ministri ha espresso seria preoccupazione per la situazione, ha richiamato il principio secondo cui uno Stato non può invocare il proprio diritto interno per giustificare la violazione degli obblighi pattizi assunti sul piano internazionale e ha ricordato alla Polonia dell’esistenza di una «unconditional obligation to abide by the Court’s judgments fully, effectively, and promptly, regardless of any barriers which may exist within the national legal framework» (par. 3 della risoluzione del Comitato dei ministri, enfasi aggiunta).
Nonostante ciò, e come anticipato in apertura, il Governo polacco ha reiterato le medesime argomentazioni nelle proprie difese formulate nell’ambito del successivo procedimento dinnanzi alla Corte europea nel caso Walesa. A suo parere, i limiti sanciti dalla Corte costituzionale polacca all’attuazione interna delle pronunce della Corte europea non possono essere considerati in violazione del diritto internazionale. Quest’ultimo ha carattere consensuale, fondato sulla volontà degli Stati: ne deriverebbe che la Polonia ha rinunciato a parte della propria sovranità, conferendo alla Corte europea la competenza a interpretare la Convenzione, ma solo a specifiche condizioni. Tale consenso sarebbe limitato dalla Costituzione, tanto dal punto di vista sostanziale (ossia in relazione al contenuto delle norme accettate), quanto procedurale (in relazione alle procedure da seguire per assumere un obbligo internazionale), e la Corte costituzionale sarebbe guardiana del rispetto di tali limiti. A detta del Governo polacco, pertanto, la Corte europea potrebbe esercitare la propria autorità solo fino a quando essa non sia opposta dallo Stato invocando la Costituzione, sulla base di una sentenza costituzionale (par. 137 della sentenza Walęsa). Dunque, la necessità di difendere i valori costituzionali interni, per come sancita in una sentenza della Corte costituzionale polacca, implicherebbe il venir meno del carattere vincolante degli obblighi internazionali con essi incompatibili e dovrebbe essere considerata come «an emanation of the constitutionally justified objection against the [European] Court’s authority of a judicial and interpretative nature» (par. 138 della sentenza).
In sostanza, il Governo ha ritenuto che dalla Costituzione polacca deriverebbe una «eccezione costituzionalmente giustificata» all’obbligatorietà dell’interpretazione resa dalla Corte europea dell’art. 6 CEDU e all’obbligo di dare attuazione alle sentenze dove tale interpretazione è stata resa.
4. Tale argomento è stato espressamente rigettato dalla Corte europea, la quale ha cominciato con il ricordare che, ai sensi dell’art. 32 CEDU, essa ha il potere di decidere sulla propria giurisdizione e di interpretare e applicare la Convenzione. Inoltre, ha ribadito che gli Stati sono tenuti a rispettare i propri obblighi ai sensi del diritto internazionale, inclusi quelli volontariamente assunti tramite la ratifica della Convenzione. Al riguardo, la Corte ha richiamato il principio ben consolidato nel diritto internazionale secondo cui «a State cannot adduce as against another State its own Constitution with a view to evading obligations incumbent upon it under international law or treaties in force» e che «under the Vienna Convention on the Law of Treaties, a State cannot invoke its domestic law, including the constitution, as justification for its failure to respect its international law commitments» (par. 142 della sentenza).
Di conseguenza, la Corte europea ha sancito che una sentenza di una corte costituzionale non produce alcun effetto sull’efficacia giuridicamente vincolante delle proprie sentenze, prevista invece in modo espresso dall’art. 46 CEDU (par. 143 della sentenza).
La Corte europea ha quindi ritenuto che quello della Polonia fosse un semplice un tentativo mascherato di sottrarsi selettivamente all’adempimento degli obblighi derivanti dalla CEDU e alla propria giurisdizione. A suo parere «the Contracting State – including its highest courts – cannot, at their will, exclude the operation and application of the Convention provisions by, as the Government seem to suggest in the present case, “removing” them, together with the Court’s final and binding judgments, from the legal system» (par. 144 della sentenza). In sostanza, lo stratagemma dei contro-limiti, volto a rimuovere dall’ordinamento interno una norma o una sentenza considerata contraria ai principi costituzionali, non produce alcun effetto sull’efficacia giuridicamente vincolante, sul piano internazionale, di quella norma o sentenza.
La Corte europea ha riconosciuto, conformemente alla propria giurisprudenza consolidata, che gli Stati hanno certamente un margine di apprezzamento nell’adempimento della propria «primary responsibility» di rispettare e garantire i diritti sanciti nella Convenzione, ma ha ribadito che tale margine resta soggetto alla sua giurisdizione. Di conseguenza, gli Stati membri sono tenuti a rispettare i poteri conferiti alla Corte europea dall’art. 32 CEDU in tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione. Pertanto, la Corte ha concluso che «[s]een from this perspective, the Constitutional Court’s judgment cannot be considered anything other than an attempt to restrict the Court’s jurisdiction under Articles 19 and 32 of the Convention, undermining the rule of law standards» (ibid., enfasi aggiunta).
5. La pronuncia costituisce quindi una forte riaffermazione del principio di supremazia del diritto internazionale sul diritto interno. Quest’ultimo è inizialmente stato sancito nel lodo arbitrale Montijo del 1870, dove si è affermato che «a treaty is superior to the Constitution, which the latter must give away», e ripreso nel lodo reso il 14 settembre 1872 nel caso Alabama.Esso è stato poi riaffermato nell’opinione consultiva adottata dalla Corte permanente di giustizia internazionale, il 31 luglio 1930, nel caso Greco-Bulgarian Communities secondo cui «it is a generally accepted principle of international law that in the relations between Powers who are contracting Parties to a treaty, the provisions of municipal law cannot prevail over those of the treaty» e, con specifico riferimento all’impossibilità di invocare il diritto costituzionale per giustificare violazioni di obblighi internazionali, nell’opinione della stessa Corte del 4 febbraio 1932 sul Treatment of Polish Nationals, secondo cui «a State cannot adduce as against another State its own Constitution with a view to evading obligations incumbent upon it under international law or treaties in force». Tale principio è stato successivamente sancito nel 1949 dall’Assemblea generale nella risoluzione che prendeva atto della Draft Declaration on the Rights and Duties of States preparata dalla Commissione del diritto internazionale, il cui art. 13 sanciva che «[e]very state has the duty to carry out in good faith its obligations arising from treaties […], and it may not invoke provisions in its constitution or its laws as an excuse for the failure to perform this duty».
Sul piano normativo, il principio di supremazia è stato successivamente codificato all’art. 27 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969, secondo cui «[a] Party may not invoke the provisions of its internal law as justification for failure to perform a treaty». La natura consuetudinaria della regola codificata all’art. 27 è stata confermata dalla Corte internazionale di giustizia (Question Relating to the Obligation to Prosecute or Extradite, par. 113) e dalla Corte africana dei diritti umani e dei popoli (Alfred Agbesi Woyome c. Ghana, par. 32). Anche la Corte europea dei diritti umani (v. ad esempio, N.D. e N.T. c. Spagna, par. 110, e Al-Nashiri c. Polonia, par. 335), il Comitato ONU dei diritti umani (Commento generale n. 31, par. 4) e la Corte interamericana dei diritti umani (v., ad esempio, opinione consultiva n. OC-14/94, par. 35, e Almonacid-Arellano et al c. Cile, par. 124) hanno invocato il principio in diverse occasioni.
Più di recente, il principio è stato incorporato nelle regole codificate agli artt. 3 e 32 del Progetto di articoli del 2001 sulla responsabilità dello Stato per atti internazionalmente illeciti, elaborato dalla Commissione del diritto internazionale, i quali chiariscono, rispettivamente, che la qualificazione di un atto come internazionalmente illecito è disciplinata dal diritto internazionale, a prescindere dal fatto che il medesimo atto sia qualificato come lecito ai sensi del diritto interno, e che uno Stato non può invocare il proprio diritto interno come giustificazione per l’inadempimento di un obbligo internazionale (al riguardo, si veda la sentenza della Corte internazionale di giustizia resa nel caso Elettronica Sicula S.p.A., par. 73, secondo cui «[c]ompliance with municipal law and compliance with the provisions of a treaty are different questions. What is a breach of a treaty may be lawful in the municipal law and what is unlawful in the municipal law may be wholly innocent of violation of a treaty provision»).
Al riguardo, è interessante notare che il caso in esame non costituisce l’unica ipotesi in cui una corte suprema interna ha invocato i contro-limiti allo scopo di mettere in discussione il principio di supremazia del diritto internazionale, nonché il carattere giuridicamente vincolante di una pronuncia di un tribunale internazionale sui diritti umani ritenuta in violazione di principi supremi o fondamentali di una costituzione nazionale. Tuttavia, come nel caso Walęsa, tale possibilità è stata negata dagli organi internazionali che hanno avuto modo di pronunciarsi sulla questione.
Tale opinione emerge, ad esempio, nella sentenza resa il 19 gennaio 2017 dalla Corte costituzionale della Federazione russa in cui la stessa si è rifiutata di dare attuazione alla pronuncia della Corte europea adottata nel caso Yukos c. Russia. In tale pronuncia è stato sostenuto che la Russia non sarebbe tenuta a dare esecuzione agli obblighi derivanti alla sentenza sull’equa soddisfazione che la condannava al pagamento di un risarcimento pecuniario nei confronti degli azionisti della società ricorrente, in ragione di un’accertata violazione del diritto all’equo processo e del diritto al rispetto dei beni. E questo, a detta della Corte costituzionale russa, in quanto l’attuazione di tale sentenza implicherebbe una violazione della Costituzione russa. Ora, nonostante ai sensi dell’art. 14, par. 4, di quest’ultima, il diritto internazionale prevale sul diritto interno, fin da una precedente pronuncia la Corte costituzionale aveva sostenuto che «the participation of the Russian Federation in any international treaty does not mean giving up national sovereignty» e non implica la subordinazione della Costituzione agli obblighi derivanti dai trattati internazionali (sentenza del 14 luglio 2015). A suo parere, sarebbe pertanto ragionevole realizzare un bilanciamento tra, da un lato, gli obblighi internazionali (compresi quelli imposti in una sentenza della Corte europea) e, dall’altro lato, i «fundamental principles of the constitutional order of the Russian Federation and legal regulation of human and civil rights and freedoms established by the Constitution of the Russian Federation» (p. 6 della sentenza). La Corte costituzionale ha proseguito sostenendo che il principio pacta sunt servanda verrebbe meno nel momento in cui un trattato violi norme di jus cogens, tra cui però essa ha ritenuto di situare anche il principio di sovranità statale e quello di non interferenza negli affari interni di uno Stato. Qualora una pronuncia della Corte europea renda un’interpretazione degli obblighi sanciti nella CEDU che sia incompatibile con tali principi, lo Stato sarebbe legittimato a non darvi esecuzione (p. 7 della sentenza), laddove tale condotta sia l’unica idonea ad evitare una violazione della Costituzione (p. 8 della sentenza). Nel caso di specie, il pagamento del risarcimento, imposto dalla Corte europea nei confronti di una società che aveva commesso degli illeciti fiscali, sarebbe stato incompatibile con il principio costituzionale di equità e giustizia nell’ambito delle relazioni tributarie e, in ragione della sua entità, avrebbe messo in pericolo la stabilità finanziaria dello Stato (p. 19 della sentenza). Come è evidente, la pronuncia costituisce una presa di posizione netta nei confronti dell’obbligo di dare attuazione alle pronunce della Corte europea, sancito dall’art. 46 CEDU, che la Corte costituzionale russa ha ritenuto giustificata ai sensi dello stesso diritto internazionale (sul punto, si veda Marchuk).
Alla pronuncia hanno fatto seguito durissime reazioni. Il Commissario dei diritti umani del Consiglio d’Europa ha dichiarato che tale approccio «threatens the very integrity and legitimacy of the system of the ECHR» e ha invitato la Russia a intervenire urgentemente per «change the Federal Law which gives the Constitutional Court of the Russian Federation the power to prevent the implementation of judgment of the Strasbourg Court». Peraltro, già il 13 giugno 2013, la Sessione Plenaria della Commissione di Venezia, aveva adottato un’opinionein relazione alle modifiche della Legge federale sulla Corte costituzionale adottate nel dicembre 2015, le quali conferivano alla Corte la facoltà di pronunciarsi sulla possibilità di non dare esecuzione interna alle pronunce della Corte europea. In essa, si esprimeva disaccordo e si invitava la Russia ad adottare una serie di emendamenti. Peraltro, che la condotta in questione non sia considerata legittima è dimostrato dal fatto che la procedura di monitoraggio dell’esecuzione delle rispettive sentenze risoluta ancora pendente. In particolare, nel marzo 2022 il Comitato dei ministri ha ribadito che «the provisions of national law cannot justify a failure to perform obligations stemming from international treaties which the State has chosen to ratify» e ha sottolineato la «unconditional obligation assumed by the Russian Federation under Article 46 of the Convention to abide by the judgments of the European Court», esprimendo profonda preoccupazione per l’inadempimento reiterato dell’obbligo di dare esecuzione alla pronuncia.
In modo simile, nel 2017 la Corte suprema argentina ha rifiutato di dare attuazione alla pronuncia Fontevecchia e D’Amico della Corte interamericana dei diritti umani (di seguito “la Corte interamericana”), la quale aveva condannato lo Stato ad rimuovere gli effetti di una sentenza di condanna emessa nei confronti di due giornalisti in violazione della libertà di espressione. A detta della Corte suprema argentina, invece, i principi supremi dell’ordine giuridico argentino impedivano di adottare tale misura: «to invalidate the ruling of this Court that has the authority of res judicata is one of the situations in which restitution is legally impossible in the light of the fundamental principles of Argentine public law» (sul punto si veda Orunescu). La Corte suprema ha affermato che l’esecuzione di una sentenza internazionale sarebbe limitata dalla struttura politica dello Stato e dal principio costituzionale di separazione dei poteri e che, dunque, la sentenza in questione non avrebbe potuto essere revocata. Inoltre, ha ritenuto che non vi fosse in quel caso una violazione dell’obbligo di dare attuazione alle sentenze della Corte interamericana, in quanto quest’ultima aveva ordinato una misura che esorbitava la propria giurisdizione.
All’udienza svoltasi davanti alla Corte interamericana in merito al monitoraggio sull’attuazione della sentenza, il Governo argentino ha nuovamente invocato il principio di separazione dei poteri per affermare che la Corte suprema aveva competenza esclusiva a interpretare la Costituzione argentina e che, quindi, il Governo non avrebbe potuto interferire. Tuttavia, nella propria ordinanza del 18 ottobre 2017 sull’attuazione della sentenza la Corte interamericana ha ribadito che «los Estados Partes en la Convención no pueden invocar disposiciones del derecho constitucional u otros aspectos del derecho interno para justificar una falta de cumplimiento de las obligaciones contenidas en dicho tratado» (par. 14 dell’ordinanza). Peraltro, già in passato la Corte interamericana aveva precisato che «the State cannot invoke a decision of a domestic court to justify its non-compliance, even when that court is the highest in the domestic legal order» (si veda l’ordinanza del 23 novembre 2012, resa in merito all’esecuzione della sentenza Apitz Barbera c. Venezuela, al par. 39).
6. La vicenda in esame costituisce quindi l’ennesimo episodio di quello che è stato definito un continuo «duello per la supremazia» (Palombino, p. 1) tra diritto internazionale e principi fondamentali delle costituzioni nazionali. Come si è visto, sempre più spesso gli ordinamenti internazionali pretendono di sottrarsi all’adempimento di obblighi internazionali, e di farlo in modo esente da responsabilità internazionale, quando ciò sia imposto dalla necessità di tutelare quelli che sono ritenuti essere i principi irrinunciabili dell’ordinamento interno.
La forte reazione della Corte europea nel caso Walęsa e degli altri organi internazionali che hanno avuto modo di pronunciarsi sulla questione sembra suggerire che tale pretesa non trova, almeno allo Stato attuale, accoglimento da parte del diritto internazionale (Acconciamessa, p. 369; Saccucci, p. 405). E questo almeno in casi, come quelli qui citati, in cui gli Stati si limitino ad invocare la difesa della propria sovranità e dell’identità costituzionale e non, invece, interessi e valori che sono protetti anche dall’ordinamento internazionale, come la tutela dei diritti umani.
* L’autore lavora come Giurista assistente presso la Cancelleria della Corte europea dei diritti umani. Tuttavia, il presente articolo riflette le opinioni dell’autore, espresse a titolo personale, e non vincola la Cancelleria o la Corte.
No Comment