La Convenzione di Istanbul quale strumento interpretativo del diritto derivato dell’UE in situazioni di violenza contro le donne: la sentenza C-621/21 della CGUE
Sara De Vido (Università Ca’ Foscari, Venezia)
1. Con sentenza del 16 gennaio 2024, nel caso C-621/21, la Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE), in risposta ai quesiti posti dal giudice del rinvio bulgaro, si è espressa a favore dell’utilizzo della Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica (Convenzione di Istanbul) quale strumento interpretativo di atti di diritto derivato dell’Unione europea, segnatamente la Direttiva 2011/95/EU del Parlamento europeo e del Consiglio sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta (Direttiva “Qualifiche”). Specificatamente, la Corte di giustizia ha ritenuto che l’articolo 10(1)d della Direttiva – che include tra i motivi di persecuzione l’appartenenza ad un «particolare gruppo sociale» in linea con la Convenzione sullo status dei rifugiati del 1951 – debba essere interpretato «nel rispetto della Convenzione di Istanbul, anche se taluni Stati membri, tra cui la Repubblica di Bulgaria, non hanno ratificato detta convenzione» (par. 47).
In questo commento, che non intende esaurire tutti i possibili profili di indagine, si argomenterà, come già in uno scritto precedentemente pubblicato, che la Convenzione di Istanbul è, per le questioni relative al contrasto alla violenza di genere nei confronti delle donne e la violenza domestica, nei limiti delle competenze di attribuzione previste dai trattati dell’Unione, “lo” strumento interpretativo per eccellenza del diritto derivato dell’Unione europea, non solo in materia migratoria, che consentirà all’Unione stessa di rispettare gli obblighi discendenti dallo strumento giuridico del Consiglio d’Europa, cui ha aderito nel giugno 2023 (entrata in vigore per l’Unione il 1 ottobre 2023). Ai fini della tesi qui presentata, si svolgeranno altresì alcune brevi considerazioni sulle conclusioni dell’Avvocato Generale Jean Richard de la Tour, presentate il 20 aprile 2023, le quali, ratione temporis, precedendo l’atto di conclusione del Consiglio prima e del Parlamento europeo poi, non hanno considerato la Convenzione di Istanbul quale «trattato pertinente» conformemente al quale la Direttiva 2011/95 avrebbe dovuto essere interpretata, a fortiori in quanto la Bulgaria non è parte della Convenzione. Non ci si soffermerà invece sulla Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne del 1979, che è stata altresì considerata dalla CGUE, ma non dall’Avvocato Generale, un trattato pertinente ai sensi dell’articolo 78(1) TFUE (par. 44 della sentenza).
2. Il contesto.L’1 giugno 2023, l’Unione europea ha concluso, con due decisioni del Consiglio (la n. 2023/1075 e la n. 2023/1076) il processo di adesione alla Convenzione di Istanbul (per un primo commento si veda qui). La Convenzione era stata firmata dal Consiglio già nel 2017, ma il processo di adesione aveva incontrato molteplici ostacoli, non da ultimo la necessità di attendere il parere della Corte di giustizia dell’Unione europea, reso nel 2021 su richiesta del Parlamento europeo. Le basi giuridiche delle due decisioni, diversamente da quanto avvenuto per la firma del 2017, sono da un lato l’articolo 82(2) e 84 TFUE e, dall’altro lato, l’articolo 78(2) TFUE. Come è noto, la Convenzione di Istanbul (per un commento articolo per articolo, si veda De Vido, Frulli 2023) è stata firmata, ma non ratificata, come si dirà infra, da tutti gli Stati membri dell’Unione europea. La ratifica da parte dell’UE è espressamente prevista dalla Convenzione di Istanbul (art. 75) ed è tra le priorità dell’attuale Commissione von der Leyen, come emerge dalla Strategia per la parità di genere 2020-2025. L’adesione dell’UE alla Convenzione di Istanbul non è solo un atto politico: dal punto di vista giuridico implica dei chiari obblighi di attuarne le disposizioni in capo all’UE e ai suoi Stati membri. L’UE dovrà adeguare, nei limiti delle competenze attribuitele dai trattati, la propria normativa alla Convenzione. La proposta di Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sulla lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica (COM/2022/105 final) dell’8 marzo 2022, che non contiene alcun riferimento alla materia migratoria, è certamente un esempio, ancorché non perfetto e meno “coraggioso” di quanto ci si potesse aspettare, specialmente dopo l’intervento del Consiglio di maggio 2023, di attuazione della Convenzione. Si deve rilevare che l’adozione della Direttiva, su cui è stato raggiunto un accordo informale il 6 febbraio 2024, non può essere considerata l’unico strumento attraverso il quale l’Unione adempie gli obblighi discendenti dalla Convenzione di Istanbul. Considerato che non ha apposto riserve all’articolo 59 della Convenzione, l’Unione dovrà adeguare la propria normativa in materia migratoria al capitolo VII della Convenzione di Istanbul. Inoltre, in materia di protezione delle vittime, di cui al capitolo IV della Convenzione, la valutazione dell’attuazione della Direttiva 2012/29 sui diritti delle vittime da reato non potrà che tenere conto per la sua revisione della Convenzione di Istanbul e della proposta di Direttiva (si veda l’analisi dell’European Parliament Research Service di luglio 2023, che enfatizza i limiti della Direttiva 2012/29, inclusa l’inadeguatezza nel prevenire la vittimizzazione secondaria). Anche con riferimento alla prevenzione, nello sradicamento degli stereotipi di genere, l’azione dell’Unione europea sarà fondamentale, ad esempio, per l’avvio di campagne di sensibilizzazione di respiro europeo e l’adozione di protocolli comuni per le autorità che siano sensibili al genere.
È solo avendo chiaro questo contesto che è possibile apprezzare l’importanza della sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea.
3.La situazione esaminata dalla CGUE è tutt’altro che nuova: donne vittime di violenza di genere nel loro paese di origine, presentano domanda di protezione internazionale nel paese (europeo) di destinazione, invocando il timore di persecuzione in quanto donne (su donne migranti e violenza di genere, v. Di Stasi, Cadin, Iermano, Zambrano). I quesiti non sono nuovi: può essere riconosciuto lo status di rifugiata ad una donna che teme di essere vittima o è stata vittima di violenza di genere contro le donne nel paese di origine? Come trattare situazioni di rischio di mutilazioni genitali femminili o comportamenti che vengono ancora considerati in molti paesi alla stregua di «delitti d’onore»?
Nel caso di specie, WS, una cittadina turca, di origine curda, di fede musulmana e divorziata, lasciava la Turchia per recarsi in Bulgaria prima e in Germania poi, dove presentava domanda di protezione internazionale. La Bulgaria, paese di primo ingresso, accettava qualche mese dopo di prenderla in carico ai fini dell’esame della domanda. La donna lamentava di aver subìto violenza e minacce dal marito – poi ex marito – e dalla famiglia di questi, e sosteneva di aver denunciato il partner alla Procura generale di Torbalı (Turchia), accedendo altresì regolarmente a centri di prevenzione e monitoraggio delle violenze presenti sul territorio. Nelle more della pronuncia di divorzio, ottenuta con decisione di un tribunale civile il 20 settembre 2018, la donna si sposava con un altro uomo e fuggiva dalla Turchia, essendo venuto a mancare, quale conseguenza dell’abbandono del domicilio coniugale, anche il sostegno della stessa famiglia biologica. WS dichiarava di temere per la sua vita nel caso di un rientro in Turchia. L’Agenzia di Stato per i rifugiati presso il Consiglio dei Ministri respingeva la domanda di protezione internazionale, ritenendo non soddisfatti i requisiti richiesti per il riconoscimento di status di rifugiata, non essendo le minacce rivolte alla donna collegabili ad alcun motivo di persecuzione ovvero razza, religione, cittadinanza, opinioni politiche o appartenenza ad un determinato gruppo sociale. L’Autorità bulgara sottolineava altresì che la donna non avesse dichiarato di essere perseguita in ragione del suo sesso. Neppure la protezione sussidiaria veniva concessa, in quanto la donna non aveva sporto denuncia a seguito dei reati di aggressione commessi nei suoi confronti e avrebbe lasciato legalmente la Turchia. I due ricorsi avverso la decisione amministrativa venivano respinti. La donna, tuttavia, presentava una ulteriore domanda di protezione internazionale il 13 aprile 2021, allegando nove prove scritte relative alla sua situazione personale e a quella del suo paese di origine. In particolare, WS sottolineava di appartenere ad un gruppo sociale, quello delle donne vittime di violenza domestica, nonché al gruppo delle donne potenziali vittime di delitti d’onore da parte di soggetti non statali dai quali lo Stato non era in grado di proteggerla. In caso di respingimento, la ricorrente temeva di essere uccisa dall’ex marito o costretta ad un matrimonio forzato. Oltre a soddisfare i requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiata, la ricorrente riteneva di soddisfare i requisiti per la concessione dello status umanitario (protezione sussidiaria). L’autorità bulgara negava l’avvio di una nuova procedura. Il tribunale amministrativo della città di Sofia decideva dunque di sospendere il procedimento e sottoporre alla Corte di giustizia cinque quesiti pregiudiziali.
Il primo quesito concerne la rilevanza di nozioni presenti in altri strumenti giuridici internazionali, quali la Convenzione di Istanbul e la CEDAW (benché la CEDAW manchi di una definizione di violenza di genere nel testo, recuperata solo per il tramite della Raccomandazione Generale n. 19), ai fini della classificazione della violenza contro le donne basata sul genere come motivo per il riconoscimento di protezione internazionale ai sensi della Direttiva 2011/95. Con il secondo e il terzo quesito, il giudice del rinvio si interrogava sulla rilevanza del sesso biologico o sociale della vittima (in quanto donna) quale elemento decisivo per accertare l’appartenenza ad un determinato gruppo sociale come motivo di persecuzione, ovvero se sia necessario accertare un ulteriore criterio distintivo interpretando fedelmente l’articolo 10(1)d della Direttiva, secondo cui i requisiti sono cumulativi e gli aspetti inerenti al sesso sono presenti alternativamente. Il quarto quesito si muove verso la responsabilità per azioni di attori non statali. Il giudice del rinvio chiedeva se fosse sufficiente accertare un nesso tra i motivi di persecuzione di cui all’articolo 10 della Direttiva e gli atti di persecuzione (articolo 9(1)) oppure se si debba accertare la mancanza di protezione statale contro la persecuzione denunciata. Infine, con il quinto quesito ci si interroga sulla minaccia di compimento di un delitto d’onore nel caso di un eventuale rientro nel paese di origine quale fondamento per la concessione della protezione sussidiaria ex articolo 15(a) della Direttiva 2011/95, ovvero se la minaccia debba essere considerata quale danno grave ai sensi dell’articolo 15(b) della medesima Direttiva.
4.L’Avvocato Generale Jean Richard de la Tour ha presentato le sue conclusioni nell’aprile 2023, prima dell’adesione dell’Unione europea alla Convenzione di Istanbul (per una lettura critica delle conclusioni, v. Grundler). La sua posizione deve essere letta pertanto alla luce di questo sviluppo, che comporta conseguenze tanto sul piano formale quanto su quello sostanziale. Rispondendo al primo quesito pregiudiziale, l’Avvocato Generale ha rilevato che, in attesa di adesione da parte dell’Unione, la Convenzione di Istanbul non poteva rientrare tra i «trattati pertinenti» conformemente ai quali la Direttiva 2011/95 deve essere interpretata, ai sensi dell’articolo 78(1), TFUE. Ha inoltre sottolineato che neppure la CEDAW, cui l’UE non ha aderito, ancorché ratificata da tutti gli Stati membri dell’Unione europea, poteva ritenersi trattato pertinente. Con riferimento al secondo e terzo quesito, l’Avvocato Generale è giunto a conclusioni simili a quelle raggiunte da corti interne e, pur con una giurisprudenza non così sensibile al genere (sul punto si veda De Vido, p. 31 ss.), dalla Corte europea dei diritti umani, ovvero che le donne, in quanto donne, costituiscono un sottoinsieme sociale avente una identità distinta, data da «caratteristiche innate ed immutabili che possono essere percepite in modo diverso dalla società» (par. 74). Tra gli esempi citati nel considerando 30 della Direttiva, figurano le mutilazioni genitali femminili, la sterilizzazione forzata o l’aborto coatto, nella misura in cui questi comportamenti siano correlati al timore fondato del/la richiedente di subire persecuzioni. Si tratta, ha osservato l’Avvocato Generale, di una lista non esaustiva: ben vi potrebbero rientrare i matrimoni forzati, nonché gli atti di violenza domestica che possono tradursi in «atti di estrema gravità e violenze ripetute che possono condurre a una grave violazione dei diritti fondamentali della persona» (parr. 77-78). Sulla quarta questione pregiudiziale relativa all’accertamento del nesso causale tra il motivo di persecuzione e la mancanza di protezione contro l’atto di persecuzione, de la Tour ha sottolineato che affinché atti di violenza domestica siano considerati atti di persecuzione, l’autorità competente deve prendere in considerazione il fatto che lo Stato non può o non vuole fornire protezione alla vittima (par. 84). Questa dimostrazione è certo essenziale, ma ricade inevitabilmente sulla vittima, che potrebbe non essere in grado di dimostrare tolleranza o inerzia statale alla commissione di atti di violenza di genere (sulla protezione par ricochet si veda De Vido). L’Avvocato Generale ha enfatizzato questo punto, indicando che le dichiarazioni di un richiedente protezione internazionale costituiscono solo il punto di partenza della procedura di esame dei fatti e delle circostanze condotta dalle autorità competenti (par. 93). Benché l’esame della domanda sia di natura individuale, le autorità devono considerare tutti i fatti pertinenti che riguardano il paese di origine: in Turchia, paese di origine della ricorrente, ad esempio, gli sforzi delle autorità sono «inadeguati e inefficaci» e le strutture e i servizi di supporto inadeguati, con un basso tasso di condanne per «delitti d’onore» (par. 96). Verrebbe in altri termini dimostrata una chiara inerzia delle autorità al punto da “tollerare” la violenza compiuta da attori non statali. In base all’articolo 9 (3) della Direttiva Qualifiche, le autorità esaminanti la domanda di protezione internazionale devono stabilire il nesso causale tra i motivi su cui si fondano gli atti di violenza e la mancanza di protezione da parte delle autorità del paese di origine (par. 98). Sul quinto quesito, ovvero la qualificazione come «danno grave» degli atti di violenza che la ricorrente rischia di subire ai sensi dell’articolo 15 della Direttiva 2011/95, l’Avvocato Generale ha interpretato «pena di morte o l’essere giustiziato» come comprendente anche il rischio di morte per mano di attori non statali (par. 107). Ne consegue che, accertato il rischio effettivo e fondato di morte per mano di un membro della famiglia o della comunità, l’atto deve considerarsi un grave danno che può portare al riconoscimento dello status di protezione sussidiaria (par. 108). La protezione sussidiaria, ha infine ricordato l’Avvocato Generale, quale alternativa allo status di rifugiata, richiede l’accertamento della fondatezza del rischio a cui si espone la richiedente una volta rientrata nel paese di origine.
5.La CGUE, in un sintetico dispositivo, ha esaminato le prime tre questioni pregiudiziali congiuntamente e osservato come l’interpretazione delle disposizioni della Direttiva 2011/95 debba essere effettuata alla luce tanto delle finalità della Direttiva stessa quanto della Convenzione di Ginevra del 1951 e degli «altri trattati pertinenti» di cui all’articolo 78(1) TFUE. La Corte ha argomentato, in particolare, che la Direttiva deve essere interpretata alla luce della CEDAW, ratificata da tutti gli Stati membri dell’Unione europea, e della Convenzione di Istanbul, che vincola l’Unione dal 1. ottobre 2023, in quanto – e questo è il punto cruciale del ragionamento – lo strumento giuridico del Consiglio d’Europa contiene obblighi rientranti nell’ambito di applicazione dell’articolo 78(2) TFUE (par. 46). Ne consegue che, nei limiti in cui presenta un collegamento con l’asilo e il non-refoulement, la Convenzione stessa «fa parte dei trattati pertinenti di cui all’articolo 78(1) TFUE». Ciò è confermato anche con riferimento alla Bulgaria, paese che non ha ancora ratificato la Convenzione.
La Convenzione di Istanbul dedica un intero capitolo a «migrazione e asilo»: in particolare, il paragrafo 1 dell’articolo 60 prevede che la violenza contro le donne come definita nella Convenzione costituisca una forma di «persecuzione» ai sensi della Convenzione di Ginevra (sul punto si veda Staiano), mentre il paragrafo 2 impone alle parti di accertarsi che venga applicata un’interpretazione sensibile al genere a ciascuno dei motivi di persecuzione. Nei casi in cui sia stabilito che il timore di persecuzione è basato su uno o più di tali motivi, la Convenzione prevede che venga concesso alle richiedenti asilo lo status di rifugiata. Considerato quanto disposto all’articolo 10(1)d della Direttiva, la CGUE ha ritenuto che «il fatto di appartenere al sesso femminile costituisce una caratteristica innata ed è, di conseguenza, sufficiente a soddisfare tale condizione» (par. 49). A fortiori, le donne che condividono un aspetto comune supplementare, ad esempio un’altra caratteristica innata o una storia comune che non può essere mutata devono ritenersi appartenere ad un determinato gruppo sociale (par. 53). La verifica dell’appartenenza ad un gruppo sociale deve essere scissa dagli atti di persecuzione ai sensi dell’articolo 9 della Direttiva (par. 54). Con riferimento al secondo profilo richiesto dall’articolo 10(1)d della Direttiva per l’appartenenza ad un gruppo sociale, segnatamente il possesso di un’identità distinta nel paese di cui trattasi, la CGUE ha ritenuto che si debba valutare se il gruppo risulti distinto alla luce delle norme sociali, morali, giuridiche nel paese di origine, ad esempio «le donne che rifiutano un matrimonio forzato, allorquando una tale prassi può essere considerata una norma sociale all’interno della loro società» (par. 58). È del tutto evidente poi che, con riferimento al singolo caso individuale, la valutazione della domanda di protezione internazionale viene svolta dallo Stato membro interessato che verificherà se la persona che invoca tale motivo di persecuzione ha il «timore fondato» di essere perseguitata, in virtù di questa appartenenza, nel proprio paese di origine (par. 59). Al fine di operare questo accertamento, dovrebbero essere raccolte le informazioni rilevanti relative al paese di origine, quali la posizione delle donne davanti alla legge, i loro diritti politici, sociali ed economici, costumi sociali e culturali del paese (par. 61; v. Ertuna Lagrand sul fallimento dello Stato nel fornire protezione alle vittime di violenza domestica). Con riferimento al quarto quesito, la CGUE ha seguito il ragionamento dell’Avvocato Generale, che ha invocato le linee guida dell’UNHCR sulla protezione internazionale, in base alle quali «il nesso causale sussiste anche quando il rischio di essere perseguitati ad opera di un attore non statuale non è collegato a una delle fattispecie previste dalla [Convenzione di Ginevra], ma l’incapacità o la non volontà dello Stato di offrire protezione derivano da una di esse» (par. 69). Viene confermata la posizione dell’Avvocato Generale anche in risposta al quinto quesito.
Ci si potrebbe chiedere, anche alla luce delle osservazioni di de la Tour, se la Convenzione di Istanbul abbia portato ad un cambiamento nel ragionamento della CGUE o se la Convenzione sia stata citata ad abundantiam, considerato che esiste una prassi nazionale e atti di soft law che conducono alla conclusione di considerare le donne vittime o potenziali vittime di violenza domestica nel paese di origine quale «particolare gruppo sociale». A nostro avviso, nel caso di specie, la Convenzione è stata certamente utile alla CGUE per qualificare le donne quale particolare gruppo sociale, perseguitato in quanto donne, ma la sua forza interpretativa non si esaurisce qui. Invero, limitare la caratterizzazione delle donne che fuggono da paesi dove temono una persecuzione per il fatto di essere donne all’appartenenza ad un gruppo sociale è fuorviante e non del tutto sensibile ai fattori che entrano in gioco nella persecuzione. Non tiene conto, ad esempio, che sfidare una norma sociale all’interno della società può qualificarsi quale ragione politica (si veda a riguardo l’articolo 10(1)e della Direttiva 2011/95). La Convenzione di Istanbul consente e consentirà in futuro una lettura più sensibile al genere delle norme in materia di migrazione dell’Unione europea.
6. L’utilizzo della Convenzione di Istanbul quale strumento interpretativo non si limita alle questioni trattate opportunamente dalla CGUE, ma potrebbe estendersi ad altri atti di diritto dell’Unione europea, anche diversi dalla materia migratoria. Non è invero necessario che vi sia il riferimento a «trattati pertinenti» per ritenere la Convenzione di Istanbul quale strumento interpretativo. Mutatis mutandis, nella sentenza HK Danmark v Dansk almennyttigt Boligselskab, HK Danmark c. Dansk Arbejdsgiverforening, decisa nel 2013, la CGUE ha interpretato il termine disabilità di cui alla Direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro alla luce della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità – strumento non ratificato da tutti gli Stati membri dell’Unione europea all’epoca del ricorso.
Forniremo qui un esempio di come la Convenzione di Istanbul possa costituire “lo” strumento interpretativo per eccellenza del diritto derivato dell’Unione europea, con riguardo al contrasto alla violenza di genere nei confronti delle donne e la violenza domestica, nei limiti, è bene ribadirlo, delle competenze stabilite dai trattati (si veda più compiutamente, anche con riferimento alle tecniche ermeneutiche, qui). La Convenzione di Istanbul potrebbe essere utile per interpretare l’espressione «violenza sessuale» contenuta nella Direttiva 2014/41 relativa all’ordine europeo di indagine penale. La Direttiva in questione contiene l’espressione «violenza sessuale» senza definirla. Nel preambolo, il par. 36 afferma che «le categorie di reati elencate nell’allegato D» [compresa la violenza sessuale] «dovrebbero essere interpretate in modo coerente con la loro interpretazione ai sensi degli strumenti giuridici esistenti in materia di riconoscimento reciproco». Poiché la violenza sessuale non è definita né nella Direttiva n. 2014/41 né nella Direttiva 2011/99 sull’ordine di protezione europeo – relativa al riconoscimento reciproco tra gli Stati membri delle decisioni in materia di misure di protezione delle vittime di reato – la Convenzione di Istanbul potrebbe essere utilizzata alla stregua di strumento di interpretazione dell’espressione ai fini dell’ordine europeo di indagine penale.
7. Il riconoscimento della Convenzione di Istanbul quale strumento interpretativo di una Direttiva dell’Unione è un passaggio cruciale nell’attuazione dello strumento giuridico del Consiglio d’Europa da parte dell’Unione europea (v. Möschel). Lo è soprattutto alla luce del dibattito politico in corso sulla proposta di Direttiva sulla lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica che, come si è detto, è ormai giunto alle battute conclusive (e con un certo disappunto per il mancato accordo sull’armonizzazione degli elementi del reato di stupro, ancorché il testo sia significativo in materia di prevenzione, protezione delle vittime e di criminalizzazione di alcune forme di violenza digitale). Assente dalle discussioni politiche è proprio l’attuazione del capitolo della Convenzione che si occupa delle donne che fuggono dalla persecuzione nel loro paese di origine in quanto donne. Per via interpretativa, allora, la forza della Convenzione si esprimerebbe attraverso una lettura certamente rispettosa del dettato normativo, ma sensibile al genere e in linea con gli obblighi derivanti da un trattato il cui processo di ratifica incontra molteplici ostacoli in ben cinque (Bulgaria, Repubblica ceca dove recentemente il Parlamento ha respinto apertamente la ratifica, Ungheria, Lituania, Slovacchia) dei ventisette Stati membri della UE.
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