L’accordo tra Australia e Tuvalu sui visti ‘climatici’: una svolta per le migrazioni ambientali nel Pacifico?
Martina Sardo (Università di Palermo)
1. Da anni ormai, gli Stati dell’oceano Pacifico, più di altri, sperimentano gli effetti negativi del cambiamento climatico, e dell’innalzamento del livello del mare in particolare. I recenti studi scientifici lasciano pochi dubbi sulle conseguenze devastanti che – nel breve e lungo termine – l’innalzamento dei mari e degli oceani potrà avere sui territori della regione (IPCC, Sixth Assessment Report 2021) e dunque sul benessere e i diritti delle popolazioni che li abitano (Piguet, p. 876).
I cittadini dei piccoli Stati insulari e arcipelagici del Pacifico, tra i più esposti al fenomeno (UNGA, UN Doc. A/HRC/29/L.21, n. 78, Preambolo), rischiano di affrontare, infatti, limitazioni sempre più significative nel godimento dei loro diritti alla vita, al cibo, all’acqua, alla salute e a un alloggio adeguato (Pacific Islands Forum-PIF Submission to the ILC 2021; Office of the Ombudsman, National Human Rights Institution of Samoa, State of Human Rights, Report 2017; UNGA, UN Doc. A/HRC/29/L.21, n. 78, Preambolo). Dinnanzi a simili sfide, i suddetti Stati stanno dimostrando grandi capacità di innovazione e resilienza, impegnandosi a rispettare e proteggere i diritti dei propri cittadini (Mc Adam 2023).
Ciò nonostante, per affrontare i diversi scenari della mobilità umana (ricollocazione, migrazione, spostamento interno) che già sussistono o potrebbero ulteriormente derivare dalla progressiva inabitabilità dei loro territori (Fornalè, pp. 184-186), ma anche per ragioni di giustizia climatica, le comunità del Pacifico stanno richiedendo con insistenza l’assistenza e la cooperazione degli Stati non immediatamente colpiti, specie quelli geograficamente vicini e considerati maggiormente responsabili del riscaldamento globale. Di qui la spinta verso la creazione di percorsi migratori che consentano alle persone costrette a spostarsi in ragione degli effetti negativi del cambiamento climatico di fare ingresso, in sicurezza, nei territori degli Stati vicini (Mc Adam 2023).
Diversi programmi e accordi di mobilità sono stati, negli ultimi anni, richiesti dai piccoli Stati insulari del Pacifico a Paesi come l’Australia o la Nuova Zelanda per garantire lo spostamento dei cittadini colpiti dagli effetti dell’innalzamento del livello del mare. Quelli concordati finora sono stati programmi e accordi di mobilità lavorativa, non specificamente orientati alla migrazione ambientale, che hanno però contribuito – seppure entro certi limiti (cfr. infra par. 4) – a facilitare lo spostamento umano indotto anche dalle minacce derivanti dagli effetti del cambiamento del clima.
Su questo sfondo si colloca l’annuncio, l’11 novembre scorso, durante il Pacific Islands Forum nelle Isole Cook, del Trattato di Unione Australia-Tuvalu Falepili, il primo accordo al mondo sulla mobilità climatica, volto a garantire ai cittadini di Tuvalu lo spostamento e il permanente soggiorno in Australia in ragione del cambiamento del clima. Fondato sul concetto tuvaluano di Falepili, che connota i valori tradizionali di buon vicinato, dovere di diligenza e rispetto reciproco (art. 1), il Trattato di Unione prende per la prima volta specificamente in considerazione il cambiamento climatico come «current and emerging […] challenge» per la sicurezza e, in prospettiva, per l’esistenza stessa del piccolo Stato insulare di Tuvalu. Per questo, la partnership potrebbe rivelarsi rivoluzionaria, spianando la strada ad accordi sulla mobilità climatica in tutta la regione.
2. Il primo accordo bilaterale sulla mobilità climatica è il risultato della richiesta di Tuvalu al governo australiano di sostenere e assistere i suoi sforzi sul cambiamento climatico, sulla sicurezza e sulla mobilità umana (Press conference, Rarotonga, Cook Islands). Tuvalu, come altri piccoli Stati del Pacifico, tra cui Kiribati e le Isole Cook, è infatti sempre più colpito dalle conseguenze dell’innalzamento del livello del mare e sta cercando di preservare la propria cultura, tradizioni e territorio, ribadendo la necessità di una cooperazione tra gli Stati del Pacifico per garantire stabilità, sostenibilità e prosperità in tutta la regione (sul punto cfr. Burson et al., e, più in generale, la Risoluzione ILA 6/2018, contenente la Dichiarazione di principi di Sidney sulla protezione delle persone sfollate nel contesto dell’innalzamento del livello del mare). Per questo, il Trattato di Unione Australia-Tuvalu Falepili è stato annunciato come «the most significant agreement between Australia and a Pacific island nation ever».
Nel corso della Conferenza Stampa con la quale, assieme al ministro dell’arcipelago tuvaluano, Kausena Natano, ha annunciato la conclusione dell’accordo, il primo ministro australiano Anthony Albanese ha riconosciuto che, in quanto parte della famiglia del Pacifico, l’Australia ha la responsabilità «to act to a gracious request from our friends in Tuvalu and step up the relationship between our two nations».
Le parole pronunciate dal ministro australiano sembrano fare riferimento ad un impegno di natura politica, più che al riconoscimento di una qualche forma di responsabilità giuridica, da parte del governo di Canberra, per i danni provocati dal cambiamento climatico.
In questo senso, l’Australia fornirà assistenza a Tuvalu in risposta a pandemie, aggressioni militari o gravi catastrofi naturali (art. 4), riaffermando l’impegno condiviso nei confronti dei valori del Pacifico, come previsto nella Strategia 2050 per il Blue Pacific Continent, nei principi guida delineati nel Framework for Resilient Development in the Pacific e nella Boe Declaration on Regional Security, che riconosce un concetto ampliato di sicurezza.
Il governo australiano si è impegnato a finanziare, con la somma di 16,9 milioni di dollari, il progetto di adattamento costiero di Tuvalu volto ad espandere il territorio dell’isola principale, Funafuti, di circa il 6%, sostenendo così il governo tuvaluano nello sforzo di garantire ai propri cittadini la possibilità di restare nel proprio Paese di origine, nel pieno rispetto dei loro diritti.
È interessante notare che l’accordo riconosce dislocazione e sradicamento come alcune tra le più grandi forme di perdita culturale, sociale ed economica che i cittadini di Tuvalu potrebbero subire, per il loro attaccamento alle tradizioni e alla terra, spingendosi ad affermare che «the statehood and sovereignty of Tuvalu will continue, and the rights and duties inherent thereto will be maintained, notwithstanding the impact of climate change-related sea-level rise» (art. 2, n. 2).
In altri termini, il governo australiano si sta impegnando a lavorare insieme con Tuvalu per aiutare i suoi cittadini a rimanere nelle loro case con sicurezza e dignità, promuovendo le opportunità di adattamento offerte dagli gli sviluppi tecnologici più recenti e gli interessi di adattamento climatico del piccolo Stato del Pacifico verso altri Paesi, attraverso forum regionali e internazionali (art. 2, n. 3).
3. Il nuovo accordo tra Australia e Tuvalu, inoltre, include l’organizzazione di percorsi migratori volti a garantire ai cittadini tuvaluani che sono costretti a migrare per ragioni legate al cambiamento climatico, la possibilità di muoversi con dignità. Su tale aspetto, in particolare, intendiamo svolgere alcune riflessioni.
Riconoscendo esplicitamente l’esposizione di Tuvalu al cambiamento climatico, per la prima volta, uno Stato sviluppato e non direttamente colpito dal fenomeno, l’Australia, si è impegnato ad offrire la residenza permanente a persone minacciate dagli effetti dell’innalzamento del livello del mare. Secondo le dichiarazioni del ministro, l’Australia implementerà uno speciale programma migratorio che consentirà a un massimo di 280 persone (su una popolazione di circa 11.200 abitanti) di migrare ogni anno nel proprio territorio «to live, study and work» (art. 3 n. 1, a).
L’intesa non pare essere considerata dalle Parti come un’attuazione di obblighi di accoglienza già previsti dal diritto internazionale generale o convenzionale. Nessun riferimento specifico, infatti, è fatto alla Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati o al principio di non refoulement, di importanza cruciale ormai per la materia che ci occupa (Maletto, 2020). Ai cittadini tuvaluani non verrà conferito, dunque, lo status di rifugiato – sul quale tanto si è discusso e si continua a discutere (Mc Adam, 2012, pp. 39-50; Behrman et al., 2018, cap. 3 e 6) e che gli stessi cittadini del Pacifico hanno del resto osteggiato, in ragione delle connotazioni negative che il termine “rifugiato” potrebbe comportare a livello politico e sociale (McAdam et al., 2009) – quanto piuttosto un visto speciale. Per quanto non si tratti di una protezione per rifugiati, il nuovo visto consentirà ai cittadini tuvaluani di accedere all’istruzione, all’assistenza sanitaria, al reddito e al sostegno familiare (art. 3, b) e, dunque, ad alcuni diritti economico-sociali che caratterizzano lo status di rifugiato (cfr. art. 23 e 24 della Convenzione di Ginevra).
4. Oltre allo specifico riferimento al cambiamento climatico come motivazione trainante, e dunque come sfida attuale da affrontare, il Trattato di Unione risulta innovativo perché, a differenza che in passato, intende consentire ai cittadini di Tuvalu di spostarsi non soltanto per motivi legati al lavoro o alla formazione. Storicamente, infatti, la maggior parte dei programmi di visto organizzati nella regione del Pacifico sono legati alla mobilità del lavoro (Mc Adam, 2023). Ci riferiamo in particolare a programmi di visto adottati unilateralmente dalla Nuova Zelanda (il Pacific Access e il Samoa quota resident visa), dall’Australia (Pacific Engagement Visa) e, con una serie di accordi bilaterali di libera associazione (Compacts of Free Association), dagli Stati Uniti con le Isole Marshall, gli Stati Federati di Micronesia e Palau.
Ma l’accordo qui in esame costituisce un significativo avanzamento anche rispetto a strumenti adottati in altri contesti regionali direttamente riguardanti le migrazioni climatiche, come ad esempio il programma argentino di visti umanitari per i cittadini e i residenti negli Stati centroamericani e caraibici sfollati da disastri socio-naturali. Se, infatti, l’accesso al programma argentino è consentito solo a seguito del disastro, quando lo sfollamento è cioè già in corso, il Trattato di Unione Australia-Tuvalu Falepili riguarda invece la migrazione anche prima di uno specifico evento, in ragione della ragionevole prevedibilità di disastri legati al clima (Mc Adam, 2023).
Non essendo specificamente vincolato a motivi di lavoro e studio il nuovo visto dovrebbe altresì rivelarsi più ampio ed inclusivo, essendo potenzialmente in grado di fornire un percorso migratorio sicuro alle persone costrette a spostarsi per le minacce connesse al cambiamento climatico e che non rientrano nei programmi esistenti di migrazione della manodopera nel Pacifico, come gli anziani o i disabili.
Per quanto resti ancora da capire come e fino a che punto, nel concreto, i visti opereranno, l’accordo rappresenta uno sviluppo positivo in grado di consentire alle persone di spostarsi e vivere in sicurezza «both legal and psychological» (McAdam, 2023).
5. Per quanto differente, in termini di specificità e funzionamento, rispetto agli strumenti già esistenti, occorre però rilevare che l’intesa annunciata da Australia e Tuvalu si inserisce comunque in una prassi regionale di programmi unilaterali e accordi (bilaterali e multilaterali) che, sebbene non direttamente orientati a fronteggiare la sfida del cambiamento climatico, hanno negli anni contribuito, comunque, a garantire dei percorsi sicuri di mobilità agli abitanti del Pacifico, le cui condizioni di vita e i diritti umani sono fortemente minacciati dagli effetti negativi della crisi ambientale e del cambiamento del clima.
Paesi come l’Australia e la Nuova Zelanda, ma anche – si è detto – gli Stati Uniti, stanno sempre più di frequente concordando programmi di visto con i piccoli Stati insulari del Pacifico, fornendo occasioni di mobilità programmata e sicura che possono spianare la strada anche per accordi multilaterali più ampi, alla luce di una più generale tendenza a cooperare per far fronte agli effetti negativi dell’innalzamento del livello del mare nella regione.
A questo proposito, già diversi autori hanno sostenuto la necessità di sviluppare un harmonized regional approach, cioè un approccio regionale armonizzato alla mobilità transfrontaliera nella regione del Pacifico per motivi umanitari (Burson et al., 2021, ILA, Report Sea Level Rise, Lisbona 2022), «mapping legislative and regulatory opportunities, the authors suggest the development of a “pathway” for regional mobility in the context of climate change anchored in existing policy and practices for the coming decades» (ILA, Report Sea Level Rise, Lisbona 2022, p. 38).
Di recente, alcuni leader politici hanno anche suggerito di creare, nel Pacifico, un’entità regionale, basata sulla cooperazione e sull’integrazione, tale da consentire la libera circolazione in tutta la regione, sulla falsariga dell’accordo di Free Movement firmato dagli Stati dell’Africa orientale, attraverso il quale i cittadini dei Paesi membri dell’Intergovernmental Authority on Development (IGAD) possono varcare i confini del proprio Paese di provenienza in previsione o in risposta a disastri.
Ciò che è più importante in questa sede rilevare, però, è che all’inizio del mese di novembre, poco prima dell’annuncio del Trattato di Unione Australia-Tuvalu Falepili, il Pacific Islands Forum – di cui fanno parte tanto gli Stati più colpiti dall’innalzamento del livello dei mari, come le isole Fiji, Kiribati, le Isole Marshall Islands o Samoa, quanto quelli maggiormente sviluppati e altresì responsabili del cambiamento climatico, come l’Australia e la Nuova Zelanda – ha approvato un primo accordo-quadro regionale sulla mobilità climatica (Pacific Regional Framework on Climate Mobility), secondo il quale i governi del Forum delle Isole del Pacifico – in cooperazione peraltro con le diverse comunità interessate e una serie di attori non statali – dovrebbero impegnarsi nel garantire una mobilità basata sui diritti e incentrata sulle persone nel contesto dei cambiamenti climatici, compresi la permanenza sul posto, il trasferimento pianificato, la migrazione e lo spostamento interno, attraverso «a proactive, inclusive and collaborative regional approach that reflects common Pacific interests in a culturally appropriate manner, while respecting national sovereignty and diversity».
Per quanto sia passato relativamente inosservato, l’accordo-quadro rappresenta senz’altro un tassello importante verso un approccio regionale alla mobilità climatica nel Pacifico. Anche se non giuridicamente vincolante, il Pacific Regional Framework conferma, infatti, la tendenza degli Stati del Pacifico, sviluppati e in via di sviluppo, a impegnarsi per trovare, insieme, strumenti e strategie volte a prevenire e arginare i rischi del cambiamento climatico, inclusi quelli derivanti dalla mobilità umana indotta dall’innalzamento del livello del mare.
Del resto, negli ultimi anni, nella regione del Pacifico, un ampio gruppo di Stati, non limitato solamente agli Stati maggiormente esposti alle conseguenze disastrose dell’innalzamento del livello del mare, ha dichiarato la necessità e la volontà di cooperare, non solo a fini di abbassamento dei rischi e adattamento ad essi, ma anche di protezione delle popolazioni colpite (sulle implicazioni dell’innalzamento del livello del mare per il diritto internazionale si vedano i lavori in corso della Commissione per il diritto internazionale e dell’International Law Association).
In generale, può rilevarsi una sempre maggiore concordanza nelle posizioni assunte dagli Stati del Pacifico che si sta traducendo nella definizione di una serie di standard e strategie comuni e nel rafforzamento di istituzioni e strumenti già esistenti, in uno spirito di ragionevole considerazione degli interessi reciproci e per il raggiungimento di obiettivi comuni (ILA, Report Sea Level Rise, 2022, p. 36). Basti pensare ad esempio a come, in seno al Pacific Islands Forum, l’Australia e la Nuova Zelanda abbiano preso una posizione comune ai piccoli Stati insulari rispetto al mantenimento delle linee di base (Starita, 2022, p. 12).
Il nuovo Trattato di Unione tra Australia e Tuvalu e, forse ancora di più, l’accordo-quadro (nonostante la sua natura non vincolante) confermano come gli Stati del Pacifico siano animati da spirito di cooperazione in materia di cambiamento climatico e mobilità. In tal senso, sembrerebbe possibile affermare quantomeno che, nel Pacifico, va consolidandosi una prassi, a carattere regionale, nel concludere accordi volti a definire quadri di cooperazione per l’adattamento agli effetti negativi del cambiamento climatico oltre che piani e programmi che agevolino la mobilità, dai piccoli Stati insulari, degli individui costretti a spostarsi dalle terre d’origine in ragione delle conseguenze dell’innalzamento del livello del mare. Né è da escludere che tanto il Trattato di Unione Australia-Tuvalu Falepili quanto il Pacific Regional Framework possano altresì spingere verso l’adozione di nuovi trattati (bilaterali o multilaterali) finalizzati, per un verso, a garantire ai governi del Pacifico misure di adattamento al cambiamento climatico e, per altro verso, ad assicurare alle popolazioni colpite percorsi dignitosi di migrazione.
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