Sull’illegittimità del Protocollo Italia-Albania in materia migratoria
Andrea Spagnolo, Università di Torino, Membro della Redazione
Il Protocollo tra il Governo della Repubblica italiana e il Consiglio dei Ministri della Repubblica di Albania per il rafforzamento della collaborazione in materia migratoria, firmato a Roma il 6 novembre 2023, che costituirà la base giuridica per la costruzione di due centri per la gestione dei migranti sul territorio albanese, ma posti sotto la giurisdizione italiana, presenta aspetti di forte criticità che meritano attenzione.
A oggi sono noti il testo dell’accordo, diffuso dalla stampa italiana, la conferenza stampa di presentazione, il testo dell’allegato che dettaglia l’ammontare delle spese di cui si farà carico il Governo italiano per la costruzione dei centri, reso pubblico da un sito internet albanese, e, infine, la dichiarazione del Ministro per i rapporti con il Parlamento secondo cui il Protocollo non verrà sottoposto a vaglio parlamentare.
Si tratta di un accordo fortemente critico, che esternalizza il controllo dell’accesso al territorio italiano dei migranti salvati in mare dalla Guardia costiera. Lasciando per ora – e, auspicabilmente, ad altri post – i profili relativi al rispetto dei diritti umani, del diritto dell’Unione europea e del diritto del mare, questo post intende attirare l’attenzione sui profili di illegittimità del Protocollo nella prospettiva delle norme di diritto costituzionale italiano che disciplinano la conclusione dei trattati internazionali.
L’analisi muove dalla dichiarazione del Ministro per i rapporti con il Parlamento, secondo cui il Protocollo non verrà presentato alle Camere.
D’altronde, l’entrata in vigore del Protocollo, disciplinata dall’art. 13, comma 1, dello stesso, è prevista con «successivo scambio di note», non condizionato all’espletamento delle rispettive procedure di ratifica.
Combinando i due elementi è lecito dedurre, pur in assenza di comunicazioni ufficiali sul sito del Governo o sulla raccolta ufficiali dei trattati, che il Protocollo si possa qualificare come un accordo in forma semplificata e che il consenso dello Stato italiano si sia già formato con l’apposizione della firma da parte della Presidente del Consiglio.
Vale la pena ricordare che la Costituzione italiana prevede che il Parlamento autorizzi la ratifica dei trattati internazionali, di cui è competente il Presidente della Repubblica, nei casi previsti dall’art. 80 della Costituzione stessa, tra cui vi rientrano la previsione di oneri per le finanze dello Stato e la natura politica del trattato.
Nonostante le Parti abbiano concordato che le porzioni di territorio albanese siano concesse al Governo italiano a titolo gratuito (art. 3, comma 2), il Protocollo prevede diversi capitoli di spesa, segnatamente per affrontare per l’erogazione di servizi sanitari (art. 4, comma 9), di sicurezza (art. 6, comma 6) e logistici (art. 8, comma 3) e per eventuali risarcimenti del danno (art. 12, comma 2).
L’art. 10 del Protocollo sancisce che tali spese siano inizialmente sopportate dalla Parte albanese e poi rimborsate dalla Parte italiana attraverso le modalità di cui all’allegato 2, il cui testo – giova ricordarlo: diffuso solo grazie alla stampa albanese – indica nella cifra di sedici milioni e mezzo di euro l’ammontare della somma forfettaria convenuta tra i due Stati.
Alla luce di ciò, il Protocollo appare idoneo a comportare oneri per le finanze dello Stato e, quindi, a rientrare nell’ambito di applicazione dell’art. 80 della Costituzione.
Alla stessa conclusione si può giungere argomentando che il Protocollo ha una (forte) natura politica. Ciò è desumibile da una lettura attenta della trascrizione della dichiarazione che la Presidente del Consiglio dei Ministri del Governo italiano ha reso alla stampa in occasione della firma del Protocollo, contestuale alla visita del suo omologo albanese.
Il Protocollo viene sin dalle prime righe aggettivato come «importantissimo […] che arricchisce un’amicizia storica [e] una cooperazione profonda» tra i due Stati. Ancora, la Presidente afferma che il Protocollo costituisce la «cornice politica e giuridica» della collaborazione tra Italia e Albania. Infine, ma forse è questo il passaggio più rilevante, il Protocollo viene definito come «un accordo di respiro europeo». La rilevanza di questo passaggio si spiega alla luce delle dichiarazioni successive, che legano in maniera piuttosto evidente la conclusione del Protocollo al sostegno che l’Italia ha fornito, fornisce e intenderà fornire all’Albania nel processo di adesione all’Unione europea.
Appare difficile negare che un accordo presentato con tale enfasi abbia una natura politica, anche a voler accedere alla tesi secondo cui i trattati di natura politica sarebbero solo quelli che impattano sulla politica estera dello Stato (tesi riportata in A. Cassese, “Art. 80”, in G. Branca, Commentario della Costituzione, Bologna 1979, p. 162).
Il Protocollo, dunque, appare violare le norme costituzionali in materia di conclusione dei trattati, perché rientrando nell’ambito di applicazione dell’art. 80, avrebbe dovuto essere concluso con procedura ordinaria e, quindi, ratificato dal Presidente della Repubblica previa autorizzazione delle Camere. Il Protocollo è anche suscettibile di essere considerato invalido ai sensi dell’art. 46 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati.
Non appaiono dunque casuali i tentativi del Ministro per i rapporti con il Parlamento di argomentare, da un punto di vista giuridico, la legittimità dell’accordo.
Il Ministro, nella già citata intervista, fa notare che il Protocollo si qualifica come «un trattato di collaborazione rafforzata tra Italia ed Albania già previsto dagli accordi internazionali precedenti sottoscritti dai due Paesi. Il primo del 1995, il secondo del 2017. Si tratta quindi di un accordo di collaborazione rafforzata previsto da quelli precedenti già sottoscritti e ratificati negli anni passati, quindi il passaggio non serve».
Serve chiarezza.
Il preambolo del Protocollo fa riferimento a due documenti che ne costituirebbero la cornice giuridica: il Trattato di Amicizia e Collaborazione tra la Repubblica italiana e la Repubblica di Albania, del 13 ottobre del 1995 e il Protocollo tra il Ministero dell’Interno della Repubblica italiana e il Ministero dell’Interno della Repubblica di Albania per il rafforzamento della cooperazione bilaterale nel contrasto al terrorismo e alla tratta di esseri umani, firmato a Tirana il 3 novembre 2017.
Premesso che le Parti non hanno in nessun modo chiarito esplicitamente che il Protocollo firmato il 6 novembre sia collegato agli accordi di cui sopra, anche a voler ritenere che ciò sia implicito nel richiamo preambolare, questa tesi non può essere accettata.
Il Trattato del 1995 è un accordo concluso in forma solenne che tratteggia in termini molto generali obblighi di cooperazione tra Italia e Albania in diversi settori materiali, dall’ambiente alla cultura, passando, questo va concesso, dalla gestione dei fenomeni migratori, a cui sono dedicati gli art. 19 e 20.
L’art. 19 prevede al comma 1 un generico richiamo alla cooperazione nella materia migratoria e al comma 2, un invito alle Parti a concludere un accordo, testuale, «che regoli l’accesso dei cittadini dei due Paesi al mercato del lavoro stagionale». Al comma 3 è presente un ulteriore invito alla formazione di un gruppo congiunto di lavoro.
L’art. 20, costituito da un unico comma, riguarda i problemi relativi al rilascio dei visti, rispetto ai quali le Parti si sono genericamente impegnate a cooperare.
Le note diplomatiche che accompagnano il Trattato, richiamando l’art. 19, fanno riferimento alla reciproca volontà di concludere un «trattato organico rivolto a contrastare l’immigrazione clandestina ed a regolare, conformemente alla legislazione vigente, l’accesso dei cittadini al mercato del lavoro ed in particolare a quello stagionale».
Rispetto a ciò, si deve segnalare che Italia e Albania, prima del Protocollo del 6 novembre, avevano già concluso sia un Accordo bilaterale in materia di lavoro, sia un Accordo sulla riammissione delle persone alla frontiera, attuando l’impegno previsto nell’art. 19.
In ogni caso, anche a voler accedere alla tesi per cui un accordo sarebbe ancora necessario, esso non potrebbe essere rappresentato dall’attuale Protocollo, perché proprio le note diplomatiche appena menzionate facevano riferimento a un accordo organico, che regolasse (nella citazione è presente una ‘e’ di congiunzione) anche l’accesso al mercato del lavoro.
Non ci sono quindi spazi per concludere che nel Trattato del 1995 Italia e Albania si fossero accordate per concludere successivi protocolli in materia migratoria, eccezion fatta per l’impegno contenuto nell’art. 19 comma 2.
Quanto al Protocollo del 2017, occorre notare preliminarmente che esso non è pubblico, ciò che non rende possibile procedere a un’analisi critica del suo contenuto.
Proprio questa circostanza giustifica una critica ancora più radicale.
Una superficiale lettura del titolo del Protocollo del 2017 consente di ascrivere tale accordo al genere delle intese tecniche rispetto alle quali il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale del Governo Italiano (MAECI), da ultimo con la circolare 2/2021, esclude la natura di trattato, in quanto strumenti inidonei a produrre rapporti giuridici regolati dal diritto internazionale; esse sono semplici strumenti di cooperazione tra articolazioni interne di singoli Governi o Ministeri che, direbbe Conforti (p. 82-83), valgono fin che valgono.
Non è questa la sede per svolgere una critica delle cosiddette intese tecniche, che presentano diversi problemi (per un’analisi dei quali si rimanda Tammone e, sia consentito, Spagnolo); se accedessimo, per assurdo, alla tesi del MAECI, allora il Protocollo del 2017 non sarebbe in alcun modo idoneo a formare il quadro giuridico per la costituzione di futuri rapporti giuridici obbligatori tra le Parti; basti segnalare che se le intese tecniche non sono ascrivibili alla categoria dei trattati internazionali, allora esse non possono rappresentare la volontà dello Stato, bensì solo quella della singola amministrazione contraente.
In conclusione, il Protocollo del 6 novembre appare illegittimo nella prospettiva delle norme di diritto costituzionale che regolano la formazione dei trattati internazionali, poiché concluso in violazione dell’art. 80 della Costituzione.
Sarebbe auspicabile che il Parlamento, le cui prerogative sono lese, sollevasse un formale conflitto di attribuzione.
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