Stickydiritto internazionale pubblico

Sulla proposta di abrogare il reato di tortura

Antonio Marchesi (Università di Teramo)

1. A poco più di sei anni dalla loro introduzione, avvenuta quasi trent’anni dopo la ratifica italiana della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 1984, le fattispecie di cui all’art. 613-bis e all’art. 613-ter del codice penale (qui), rubricate rispettivamente «tortura» e «istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura», potrebbero essere presto cancellate. Sono stati infatti presentati, e assegnati alla Commissione Giustizia del Senato, due disegni di legge finalizzati a introdurre modifiche alla disciplina penalistica della tortura: il ddl n. 341 («Modifiche al codice penale in materia di introduzione di una circostanza aggravante comune in materia di tortura») e il ddl n. 661 («Modifiche agli articoli 613-bis e 613-ter del codice penale, in materia di tortura e istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura»). Il ddl n.341, il cui primo firmatario è il Senatore Iannone di Fratelli d’Italia, prevede l’abrogazione tout court degli art. 613-bis e 613-ter e la contestuale introduzione di una nuova circostanza aggravante. Il ddl n. 661, a firma della Senatrice Bilotti del MoVimento 5 Stelle, ha invece come obiettivo dichiarato quello di adeguare le norme degli art. 613-bis e 613-ter «a un indirizzo giurisprudenziale maggioritario», correggendo talune «storture … che ne ostacolano una corretta applicazione». Una proposta di legge, la n. 623, il cui contenuto è molto simile a quello del ddl n. 341, è stata presentata alla Camera dei Deputati dall’Onorevole Vietri («Modifiche agli articoli 61 del codice penale e 191 del codice di procedura penale in materia di introduzione della circostanza aggravante comune della tortura»). La presentazione di quest’ultima è stata, peraltro, l’occasione di un’interrogazione parlamentare finalizzata a conoscere l’orientamento del Governo in materia, alla quale ha fornito risposta il Ministro della Giustizia. Se è difficile, al momento, prevedere l’esito che avranno i tentativi in corso di modificare l’attuale disciplina statale in materia di tortura, la riapertura della discussione sulle modalità di adattamento dell’ordinamento italiano agli obblighi internazionali di punizione di quest’ultima costituisce di per sé, a nostro avviso, motivo di preoccupazione. Il rischio, infatti, quantomeno nell’ipotesi che siano approvate le proposte di cancellare dal nostro ordinamento giuridico i reati di cui agli art. 613-bis e 613-ter, e non semplicemente di modificarne la formulazione, è che si compia sotto questo profilo un significativo passo indietro.

2. Non è utile ripercorrere per intero la vicenda che ha portato all’introduzione delle norme di cui viene ora proposta la modifica o la cancellazione. Basti richiamarne alcuni passaggi. La ratifica italiana della Convenzione contro la tortura del 1984, depositata nel 1989, è stata preceduta dall’approvazione della legge n. 498 del 1988 che contiene, oltre all’autorizzazione alla ratifica, alcune norme di adattamento che non hanno, tuttavia, trovato applicazione. Non fu introdotto all’epoca nel nostro ordinamento un reato specifico di tortura, elemento centrale attorno al quale ruota – non può che ruotare, a nostro avviso – un sistema di punizione efficace. I tentativi di colmare tale lacuna normativa non hanno, per quasi tre decenni, avuto successo: in un primo momento a causa dell’interesse limitato che hanno riscosso le proposte presentate al Parlamento; successivamente, in ragione dei contrasti sorti in ordine alla definizione della fattispecie di tortura, rivelatasi assai divisiva. Nel frattempo, nell’indisponibilità di strumenti idonei a punire la tortura in modo efficace, quest’ultima, quand’anche i fatti siano stati accertati – non mancano le sentenze nelle quali espressamente si afferma che sono stati commessi atti di «tortura» nel senso della definizione «internazionale» di quest’ultima (si veda, ad esempio, Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza n. 30780/12) – , non è stata punita adeguatamente o non è stata punita affatto. L’assenza di una fattispecie ad hoc ha infatti comportato che i giudici abbiano dovuto fare riferimento a fattispecie di reato generiche, punibili con pene lievi e, di conseguenza, soggette termini di prescrizione brevi.

L’inidoneità dell’ordinamento giuridico italiano di fronte all’obiettivo di punire adeguatamente la tortura è stata oggetto delle osservazioni critiche formulate da diversi treaty bodies del sistema delle Nazioni Unite (qui). Il quadro normativo all’epoca vigente è stato inoltre valutato dalla Corte europea dei diritti umani come incompatibile con il rispetto dell’art. 3 della CEDU. Ben quattro diverse sentenze relative ai c.d. fatti di Genova del luglio 2001 hanno accertato violazioni, oltre che dell’aspetto «sostanziale» di quella norma, a causa delle torture inflitte dalle forze di polizia nella scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto, anche del suo aspetto «procedurale», in ragione della risposta gravemente insufficiente dello Stato italiano (qui).

La legge n. 110, approvata nel 2017 anche allo scopo di dare esecuzione a quelle sentenze, introduce il reato di tortura, la cui definizione è stata tuttavia giudicata, da più parti e per diversi aspetti, problematica. In sede di applicazione, peraltro, la norma di cui all’art. 613 bis è stata interpretata dalla Corte di Cassazione in maniera «convenzionalmente orientata», tanto da neutralizzare alcuni difetti della sua formulazione (si veda, in particolare, Corte di Cassazione, Sez. V penale, sentenza n. 50208/19).

3. Ciò premesso, questo commento si concentra sulla motivazione del ddl n. 341, nella quale vengono illustrati gli argomenti a sostegno della proposta di cancellare, e non semplicemente di emendare, gli artt. 613-bis e 613-ter. L’interesse che tale motivazione riveste per gli internazionalisti deriva principalmente dalla circostanza che questa si fonda, in buona parte, su una ricostruzione del contenuto dell’obbligo di prevedere la tortura come reato. Vi si afferma, da un lato, che era sorretto da «pertinenti motivazioni» l’argomento avanzato a suo tempo dall’Italia secondo cui sarebbero state sufficienti, per adempiere a quell’obbligo, le norme già previste nell’ordinamento (si tratta della ben nota tesi della «copertura» dei fatti di tortura attraverso fattispecie di reato preesistenti … di portata ampia e di gravità ridotta). Dall’altro lato, si sostiene che il testo dell’art. 613-bis sarebbe invece «contraddittorio rispetto allo scopo che si prefiggeva» e che questo non adempirebbe «correttamente agli obblighi internazionali» – il cui contenuto viene ricostruito – dal momento che la definizione della fattispecie sarebbe «profondamente divergente rispetto a quella adottata dalla CAT e delineata nella giurisprudenza internazionale».

Nessuno dei due argomenti posti a fondamento dell’ipotesi abrogativa è, a nostro avviso, fondato. Il primo, fatto valere davanti a diversi treaty bodies – sia pure con poca convinzione dal momento che contestualmente i nostri rappresentanti aggiornavano i comitati sugli sforzi compiuti dal Parlamento per introdurre una fattispecie specifica – , non è sostenibile. La mancata previsione di un reato specifico di tortura, che sia rubricato «tortura» e autonomamente definito, contraddice lo spirito della Convenzione, che postula una risposta forte e decisa di fronte a quella che è considerata una violazione dei diritti umani assai grave (…) risposta difficilmente conciliabile con una qualificazione di quest’ultima quale reato di «ordinaria amministrazione». Inoltre, quella lacuna rende di fatto impossibile il rispetto di altri importanti obblighi convenzionali, a partire da quello di punire la tortura con pene adeguate alla sua gravità (non essendo tali, evidentemente, le pene previste per i reati generici di cui sopra).

La tesi della «copertura», peraltro, non è apparsa soddisfacente al Comitato contro la tortura delle Nazioni Unite il quale, dopo avere preso in esame la situazione del nostro paese, si è detto «concerned that the State party has still not incorporated into domestic law the crime of torture». E la Corte europea dei diritti umani ha ritenuto – né avrebbe potuto, a nostro avviso, fare altrimenti – il sistema italiano di punizione della tortura esistente all’epoca dei fatti di Genova, che si caratterizzava soprattutto per l’assenza di un reato specifico, inadeguato … al punto da ritenere, come si è accennato pocanzi, l’Italia responsabile di una violazione «procedurale», oltre che di una violazione «sostanziale», dell’art. 3 della CEDU.

Quanto al secondo argomento avanzato dagli estensori del disegno di legge, questo si fonda sul presupposto errato che vi sia un obbligo di introdurre una definizione interna uguale a quella internazionale. Le cose non stanno così: l’obbligo di «criminalizzazione» della tortura, così come gli altri obblighi di punizione previsti dalla Convenzione del 1984, è riferito ai fatti di tortura così come individuati nell’art. 1. Tuttavia, come risulta in modo inequivocabile dalla lettura del secondo comma di quell’articolo, «lascia impregiudicato ogni strumento internazionale e ogni legge nazionale che contiene o può contenere disposizioni di portata più ampia» (corsivo aggiunto).

In breve, la tesi, funzionale all’abrogazione delle modifiche al codice introdotte nel 2017, secondo cui la situazione precedente quelle modifiche fosse compatibile con gli obblighi convenzionali dell’Italia e quella successiva no, non è convincente.

4. La parte più corposa della motivazione del ddl n. 341 è dedicata all’approfondimento di quelli che rappresentano, secondo gli estensori, i «profili di più evidente contrasto» delle attuali previsioni del codice con la definizione internazionale. Questi vengono illustrati a partire da una serie di alternative.

La prima alternativa è quella fra reato proprio e reato comune. L’ipotesi di cui all’art.1 della Convenzione contro la tortura andrebbe ricondotta alla figura del reato proprio, che può essere commesso dal solo pubblico ufficiale, mentre l’art. 613-bis prevede un reato comune, sia pure aggravato se commesso dal pubblico ufficiale. Non è questa la sede per ripercorrere le motivazioni della scelta di estendere la previsione del nostro codice a casi di tortura «privata» (dettate essenzialmente dalla volontà di una parte dello schieramento politico di difendere la forze di polizia da una presunta «criminalizzazione»). Basti dire che questa differenza, da cui, secondo i firmatari del disegno di legge, discenderebbe un’incompatibilità fra l’art. 613-bis e le norme convenzionali che vincolano l’Italia, è invece, a nostro avviso, al di là delle diverse possibili valutazioni nel merito, rispettosa di queste dal momento che la norma interna configura una previsione «di portata più ampia» rispetto alla definizione «internazionale».

La seconda alternativa è quella fra reato a forma libera e reato a forma vincolata. Secondo gli estensori del disegno di legge, la Convenzione delle Nazioni Unite prevede la forma libera, poiché non definisce gli atti in cui dovrà consistere la tortura, mentre l’art.613 bis prevede la forma vincolata, visto che contiene taluni elementi definitori della condotta vietata. Più specificamente, l’art. 613-bis prevede tre possibili modalità di condotta: le violenze gravi, le minacce gravi, le azioni commesse con crudeltà. A proposito delle prime due, la scelta del plurale viene valutata positivamente nel disegno di legge in quanto servirebbe allo scopo di evitare «l’esposizione delle Forze dell’ordine a denunce pretestuose». La terza modalità, invece, viene criticata in quanto il parametro della crudeltà sarebbe troppo vago e, dunque, al contrario delle altre due modalità, esporrebbe le forze di polizia al rischio di denunce abusive.

Nella prospettiva dell’adempimento dell’obbligo internazionale di previsione della tortura come reato, il problema che si pone è, come si è chiarito, quello di non definire quest’ultimo in maniera che sia meno ampia rispetto alla nozione accolta in ambito convenzionale. Ed è questa prospettiva che si è posta la questione, assai dibattuta a suo tempo in sede parlamentare, dell’individuazione del tipo di condotta in cui può consistere la tortura. L’indicazione – in particolare attraverso l’uso del plurale – delle modalità di condotta in cui consiste la tortura potrebbe essere in effetti problematica nella misura in cui dovesse comportare un’indebita restrizione della portata della fattispecie penale. L’orientamento espresso nella motivazione del ddl. 341, tuttavia, suggerisce una critica di segno opposto: si valuta positivamente la norma nella parte che, essendo tendenzialmente più restrittiva, potrebbe porsi in conflitto con l’obbligo internazionale, mentre si critica il riferimento a una nozione, quella di crudeltà, che al di là della bontà o meno della scelta di includerlo, non pone problemi nella prospettiva del rispetto della Convenzione del 1984.

5. Passiamo all’esame della terza alternativa. Si tratta dell’alternativa tra dolo specifico, elemento che risulterebbe dall’indicazione degli scopi della tortura inclusa nella definizione convenzionale, e dolo generico, che caratterizzerebbe invece la previsione di cui all’art. 613-bis. Dall’insieme degli scopi indicati si ricaverebbe, secondo la motivazione del ddl n. 341, un vero e proprio tratto distintivo della tortura nel senso della Convenzione del 1984 consistente nel fatto che la vittima di questa sarebbe «in una condizione di impotenza» perché in uno stato di privazione della libertà personale. È questa una forzatura interpretativa: a prescindere dalla circostanza che l’elenco di scopi previsti dalla norma convenzionale è un elenco aperto, il cui valore è esemplificativo, non si comprende, anche a voler considerare unicamente gli scopi espressamente indicati (ottenere confessioni o informazioni, intimidire o esercitare pressione, discriminare), come si possa giungere alla conclusione secondo la quale la tortura potrebbe essere inflitta solo nei confronti di persone detenute.

Il passaggio successivo della motivazione è ancora più esplicito nel voler escludere che possa esservi tortura, secondo il diritto internazionale, al di fuori della privazione di libertà in senso stretto. Vi si sostiene che «Non rientrerebbero nella nozione di tortura i trattamenti che, pur procurando forti dolori alla vittima, risultano in ultima analisi “giustificati” in vista dello scopo lecito preso di mira dall’agente. Tra queste condotte rientrerebbero senz’altro le violenze compiute nell’ambito di operazioni militari, di polizia giudiziaria o penitenziaria oppure di ordine pubblico, fermo restando il dovuto rispetto del principio di proporzionalità. In questi casi, qualora si ravvisasse un eccesso nell’uso della forza, l’agente di polizia o il militare che avesse agito per fini diversi da quelli di cui all’articolo 1 della CAT dovrebbe rispondere non di tortura, bensì di trattamenti inumani o degradanti, sempre che gli stessi costituiscano illeciti penali nel sistema giuridico di riferimento. L’infamante accusa di tortura rimarrebbe così confinata ai casi in cui la vittima si trovi in stato di “completa dipendenza o asservimento” all’aggressore, essendo la sua sfera di libertà alla mercé di quest’ultimo in modo simile alle situazioni di schiavitù». A fronte di questa ricostruzione del contenuto della norma internazionale, l’articolo 613-bis avrebbe invece tolto di mezzo il preteso carattere distintivo della tortura «rendendo concreto il rischio, paventato anche dai rappresentanti delle Forze di polizia, di veder la disposizione applicata nei casi di sofferenze provocate durante operazioni lecite di ordine pubblico e di polizia». Il rischio sarebbe aggravato dalla circostanza che il reato comprende tra le vittime le persone che sono semplicemente «in condizione di minorata difesa», condizione che potrebbe riscontrarsi «anche durante le operazioni di ordine pubblico o di polizia giudiziaria non implicanti, di per sé, una privazione della libertà personale, qualora si attuino in un contesto di significativa vulnerabilità e impotenza della vittima, ponendo alcuni rischi di eccessiva penalizzazione del legittimo operato delle Forze di polizia».

Il ragionamento che precede è fondato su un’interpretazione del diritto internazionale sbagliata da più di un punto di vista. Non vi è alcun valido fondamento per restringere la nozione di tortura alla sola ipotesi che le vittime siano persone private della libertà personale (privazione intesa in senso stretto e non come mero controllo di una persona su un’altra). E soprattutto non si comprende il riferimento a situazioni in cui certe condotte, pur rientrando nella nozione di tortura, sarebbero nondimeno giustificate: «operazioni militari, di polizia giudiziaria o penitenziaria oppure di ordine pubblico» … come se fatti di tortura potessero diventare leciti perché compiuti in uno di questi contesti (ignorando, fra l’altro, la circostanza che la tortura è vietata dal diritto internazionale dei diritti umani anche in situazioni eccezionali e che è vietata specificamente, altresì, dal diritto internazionale umanitario). L’unico «contro limite» sarebbe dato dalla necessità di rispettare il principio di proporzionalità … ma ci si domanda in che modo e in quali circostanze una condotta altrimenti qualificabile come «tortura» possa essere proporzionale? e per quale ragione il mancato rispetto della proporzionalità nell’ambito di «operazioni militari, di polizia giudiziaria o penitenziaria oppure di ordine pubblico» si tradurrebbe al massimo nell’ipotesi di «trattamento inumano o degradante», mai in quella di «tortura»? Non è il tipo di operazione nell’ambito della quale la condotta s’inserisce – ma altri elementi, dalla gravità della sofferenza inflitta fino all’intenzionalità ed eventualmente alla pianificazione della condotta – a distinguere, secondo la giurisprudenza internazionale, l’ipotesi della «tortura» da quella del «trattamento inumano o degradante».

6. Quest’ultima distinzione viene presa in considerazione anche in altri passaggi del testo che qui si esamina. Gli estensori del ddl n. 341 criticano l’art. 613-bis per la «inopportuna fusione in un’unica fattispecie delle figure criminose di tortura e di trattamenti inumani e degradanti, da sempre considerate, sul piano internazionale, due figure distinte, meritevoli di considerazione differenziata e generatrici di obblighi non coincidenti». Si tratta, a nostro avviso, di un’osservazione corretta, pienamente condivisibile. L’assorbimento dei trattamenti inumani e degradanti nella nozione penalistica di tortura è discutibile perché si tratta di nozioni diverse che si traducono in obblighi internazionali diversi. È peraltro in linea di massima condivisibile, e piuttosto sorprendente, anche l’osservazione finale secondo cui, «[p]er evitare … il rischio di indebita penalizzazione dell’operato della polizia, sarebbe stato sufficiente adottare la nozione di tortura sancita dalla CAT (…), relegando, eventualmente, gli altri maltrattamenti ad una fattispecie di diversa fattura». Il punto è che quella proposta, da altri formulata in passato (e mai seriamente presa in considerazione dal Parlamento), inserita ora in modo inaspettato nella motivazione del ddl n.341, nulla ha a che vedere con l’articolato che segue, che anziché proporre di allineare meglio, sotto questo aspetto, alla definizione «internazionale» di tortura quella contenuta nel codice penale italiano … ne propone la soppressione.

7. La parte conclusiva della motivazione del ddl n. 341 è chiara nell’indicare quale proprio obiettivo prioritario quello di tutelare onorabilità e immagine delle forze di polizia di fronte ai rischi derivanti da una possibile utilizzazione strumentale del reato di tortura. Vi si legge della «pericolosa attrazione nella nuova fattispecie» di condotte «delle Forze di polizia che per l’esercizio delle proprie funzioni è autorizzato a ricorrere legittimamente anche a mezzi di coazione fisica». Si precisa che «[p]otrebbero finire nelle maglie del reato comportamenti chiaramente estranei al suo ambito d’applicazione classico (sic), tra cui un rigoroso uso della forza da parte della polizia durante un arresto o in un’operazione di ordine pubblico particolarmente delicate (…) ». Si aggiunge infine che «[i]l rischio di subire denunce e processi strumentali potrebbe inoltre disincentivare e demotivare l’azione delle Forze dell’ordine, privando i soggetti preposti all’applicazione della legge dello slancio necessario per portare avanti al meglio il lavoro, con conseguente arretramento dell’attività di prevenzione e repressione dei reati e uno scoraggiamento generalizzato dell’iniziativa operativa da parte delle Forze dell’ordine».

La proposta avanzata a valle di questo ragionamento è, come si è detto, di abrogare gli art. 613-bis e 613-ter e di introdurre, al loro posto, una circostanza aggravante comune (art. 61, co. 11 novies). Il tenore di quest’ultima ricalcherebbe, in buona parte, il linguaggio della Convenzione contro la tortura, senza tuttavia che la parola «tortura» venga mai utilizzata. Si giustifica tale scelta ribadendo che l’art. 4 della Convenzione non imporrebbe «di per sé l’introduzione di una figura autonoma di reato, ma solo che sia assicurata la punibilità, anche attraverso altre ipotesi delittuose, delle condotte individuate dall’articolo 1 della CAT, al di là del nomen iuris (…)». Le fattispecie generiche (la «batteria di norme repressive») già previste dall’ordinamento penale italiano, «unite alla nuova aggravante, andrebbero a comporre – secondo gli estensori del disegno di legge – un’adeguata costellazione punitiva».

8. In breve, la motivazione addotta a sostegno della proposta di abolire la fattispecie specifica di tortura, quantomeno nella misura in cui si ricollega alla pretesa inosservanza di norme internazionali in materia, ad avviso di chi scrive è approssimativa e fuorviante. Le eventuali criticità della norma penale italiana nella prospettiva dell’adeguamento alla Convenzione del 1984 dipendono dal rischio di un indebito restringimento della nozione accolta (un rischio che, peraltro, la giurisprudenza si sarebbe incaricata di ridurre, se non di eliminare del tutto). Una «criminalizzazione» in termini più ampi della tortura in ambito statale può, invece, eventualmente attirare critiche sul piano dell’opportunità ma non pone problemi dal punto di vista dell’adattamento alla Convenzione contro la tortura che, nel lasciare impregiudicate «le disposizioni di portata più ampia», non impone un obbligo di introdurre nell’ordinamento interno una fattispecie che sia uguale a quella di cui all’art. 1. Quanto all’obiettivo, più volte richiamato nella motivazione del ddl n. 341, di eliminare il rischio di abusi nei confronti delle forze di polizia attraverso la limitazione della portata della nozione di tortura a condotte tenute in determinati contesti (di privazione della libertà personale ma anche, per certi versi, assimilabili «alle situazioni di schiavitù»), ad esclusione di altri («operazioni militari, di polizia giudiziaria o penitenziaria oppure di ordine pubblico»), solo un’interpretazione fantasiosa del diritto internazionale nella materia consente, a nostro avviso, di fondare su quest’ultimo un siffatto ragionamento.            

Aggiungiamo, prima di chiudere queste note, un’ultima considerazione. La tesi dell’inadeguatezza della definizione del reato di tortura, anche se chi scrive la ritiene eventualmente tale per ragioni diverse e addirittura opposte rispetto a quelle avanzate dagli estensori del ddl n. 341, avrebbe potuto portare a un confronto sui possibili correttivi da apportare alla fattispecie dell’art. 613-bis. Il disegno di legge, invece, ne propone l’abolizione, argomentando sulla base della tesi superata secondo la quale, ai fini dell’adempimento degli obblighi internazionali di punizione, un reato autonomo non sarebbe necessario. Per di più, scompare, anche dall’aggravante di cui si propone l’introduzione, l’espressione «tortura», sulla base della considerazione, cui si riserva solo uno sbrigativo accenno, che il nomen iuris non sarebbe importante. Chi scrive ritiene, al contrario, che chiamare con la tortura con il suo nome, senza sforzarsi di rimuoverla dall’orizzonte delle possibilità e senza ricorrere ad eufemismi fuorvianti, sia fondamentale, se l’obiettivo di eliminarla è preso sul serio.

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