La caotica reazione dell’Unione europea alla crisi in Israele e Palestina
Mauro Gatti, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna
In seguito agli attacchi di Hamas del 7 ottobre 2023, e alla reazione israeliana, l’Unione europea si è espressa con diverse voci e trasmettendo messaggi contraddittori. Tanta è stata la confusione che gli Stati membri hanno ritenuto di dover pubblicare, il 15 ottobre, un’estemporanea dichiarazione del Consiglio europeo, che chiarisse – una volta per tutte – la posizione dell’Unione (poi ribadita nel Consiglio europeo straordinario del 17 ottobre). In questo post si mostrerà come la frammentazione dell’Unione sia dipesa, in parte, dalle complesse regole riguardanti la Politica estera e di sicurezza comune (PESC) dell’UE e, maggiormente, dalle azioni della Commissione europea, e in particolar modo della sua Presidente.
L’attivismo di Von der Leyen
A partire dal 7 ottobre, la presidente della Commissione ha ripetutamente espresso sostegno ad Israele, con comunicati stampa e tweet, presentandosi sistematicamente come la voce dell’Unione: “The European Union stands with Israel” (tweet dell’8 ottobre); “Europe stands with Israel” (dichiarazione dell’11 ottobre”). Nelle sue dichiarazioni, Von der Leyen non invita mai Israele alla moderazione. Le sofferenze dei palestinesi, infatti, non sarebbero da imputarsi ad Israele, ma ad Hamas stesso: “Hamas alone is responsible for what is happening” (dichiarazione del 13 ottobre); “Hamas terror is also bringing immense suffering to the Palestinian people” (conferenza stampa, 17 ottobre).
Von der Leyen generalmente non menziona gli obblighi di diritto internazionale che vincolano Israele. La fiducia in questo Stato, del resto, è piena: “I know that how Israel responds will show that it is a democracy” (dichiarazione del 13 ottobre). Solo a partire dalla dichiarazione del 14 ottobre, la Presidente cita en passant l’obbligo di rispettare il diritto internazionale umanitario (presumibilmente per via della crescente pressione esercitata dagli Stati membri, di cui si dirà sotto).
E’ opportuno segnalare che la Presidente ha mantenuto ferma la sua posizione anche quando Israele ha iniziato l’assedio di Gaza, bloccando acqua, viveri, carburante ed elettricità destinati alla popolazione civile della Striscia, verosimilmente violando il diritto internazionale umanitario (v., in particolare, art. 55 della IV Convenzione di Ginevra, 1949; Longobardo). Né hanno smosso Von der Leyen le più di 2000 vittime, un terzo delle quali bambini (CNN), il probabile uso da parte di Israele di fosforo bianco sui centri abitati (Human Rights Watch), il tentativo di evacuazione forzata di 22 ospedali (WHO), o l’ordine di evacuare 1 milione di persone dalla parte settentrionale di Gaza in 24 ore (Betancur).
Con le sue dichiarazioni, Von der Leyen si è arrogata dei poteri che non le sono attribuiti dai Trattati, in violazione del principio di equilibrio istituzionale (art. 13, par. 2, TUE). E’ vero che la ripartizione dei poteri in materia di azione esterna è complessa, segnatamente per quanto riguarda la relazione fra Alto rappresentante, Presidente della Commissione, e Presidente del Consiglio europeo, come dimostrato, per esempio, dal famigerato Sofagate (sul quale v. De Pasquale). Ciò nonostante, i Trattati paiono univoci rispetto alla ripartizione di alcuni poteri relativi alle relazioni esterne.
In primis, alla Commissione non è attribuito alcun potere di rappresentanza in materia di PESC; la Commissione assicura sì “la rappresentanza esterna dell’Unione”, ma “fatta eccezione per la politica estera e di sicurezza comune” (art. 17, par. 1, TUE). In tale settore, il potere di rappresentanza esterna è esercitato dall’Alto rappresentante e dal Presidente del Consiglio europeo (artt. 15, par. 6 e 27, par. 2, TUE). Presentandosi come la rappresentante dell’Unione, Von der Leyen ha ecceduto i poteri della propria istituzione.
In secondo luogo, i Trattati chiariscono che la Commissione non può definire la posizione esterna dell’Unione. Ai sensi dell’art. 16 TUE, è il Consiglio che “esercita funzioni di definizione delle politiche”; in particolare, il Consiglio Affari esteri “elabora l’azione esterna dell’Unione”, secondo le linee strategiche definite dal Consiglio europeo (sul punto, cfr., mutatis mutandis, Corte giust., Consiglio c. Commissione, C‑660/13, punto 36). In materia di PESC, in particolare, la definizione della posizione dell’Unione è riservata a Consiglio e Consiglio europeo, i quali decidono generalmente all’unanimità (v., ad es., art. 26 TUE). Presentando le proprie opinioni personali come la posizione dell’Unione, Von der Leyen ha violato le prerogative di Consiglio e Consiglio europeo. Dato che queste istituzioni, in ambito PESC, decidono all’unanimità dei componenti, cioè degli Stati membri, discostarsi dalla posizione dell’Unione ha significato ignorare “the line member states agreed” (cit. in Politico).
Non è la prima volta che un Presidente della Commissione si occupa di politica estera. Von der Leyen, in particolare, si è dimostrata molto attiva rispetto alla guerra in Ucraina. Ad esempio, ad ottobre 2022 ha dichiarato, di fronte al Parlamento europeo: “Russia’s attacks against civilian infrastructure, especially electricity, are war crimes. Cutting off men, women, children of water, electricity and heating with winter coming – these are acts of pure terror”. Questo tipo di dichiarazioni, in passato, sono state generalmente riproduttive della posizione già espressa da altre istituzioni e non sono state, dunque, particolarmente contestate. Le dichiarazioni di Von der Leyen sul conflitto in Medio Oriente costituiscono invece una novità, poiché la Presidente della Commissione si è espressamente pronunciata a nome dell’Unione, veicolando un messaggio diverso dalla posizione ufficiale dell’Unione, stabilita (all’unanimità) dal Consiglio.
L’Unione ha adottato una sua posizione sugli attacchi di Hamas già il 7 ottobre 2023. In tale data, l’Alto rappresentante per gli affari esteri, Josep Borrell, rilasciava una succinta dichiarazione (presumibilmente approvata dal Consiglio), con cui esprimeva sì solidarietà a Israele, ma ricordava anche che esso ha “il diritto di difendersi in linea con il diritto internazionale” (v. anche Consiglio affari esteri informale del 10 ottobre). In altri termini, l’Unione sostiene Israele, ma non in modo assoluto e incondizionato, coerentemente con la posizione che ha adottato in passato (v., ad es., dichiarazione dell’Alto Rappresentante del 15 maggio 2021) e diversamente dalle dichiarazioni della Presidente della Commissione.
L’atteggiamento di Von der Leyen ha innervosito gli Stati membri. Ad esempio, il Presidente della Repubblica irlandese ha dichiarato che la Presidente della Commissione “[was] not speaking for Ireland” (Independent). Alcuni Stati membri sarebbero particolarmente “unhappy that von der Leyen […] had not relayed their calls for Israel to respect international law in Gaza.” Il contrasto tra la posizione dell’Unione e quella (personale) di Von der Leyen è divenuto talmente evidente che l’Alto rappresentante ha dovuto pubblicamente sconfessare la Presidente della Commissione, ricordando che: “the position of the European Union on foreign policy is being determined by the European Union Council”.
Per rimediare a questo caos – e forse per distanziarsi dalle azioni di Israele – gli Stati membri hanno rilasciato, il 15 ottobre, una dichiarazione del Consiglio europeo, che ribadisce ed espande la posizione precedentemente espressa da Borrell. Il Consiglio europeo enfatizza alcune questioni cruciali, omesse dalla Presidente della Commissione, come l’importanza di garantire “la protezione di tutti i civili in linea con il diritto internazionale umanitario” e, più in generale, la necessità di una “soluzione fondata sulla coesistenza di due Stati”. E’ forse indicativo dell’apprensione e dell’irritazione degli Stati membri il fatto che essi abbiano voluto pubblicare la dichiarazione ancor prima che il Consiglio europeo si riunisse per discutere la questione, il 17 ottobre; in tale riunione, il Consiglio europeo ha, peraltro, ribadito la posizione espressa nella dichiarazione precedente (v. conferenza stampa di Charles Michel e Ursula Von der Leyen).
Va detto che il Consiglio europeo non accusa apertamente Israele di violare il diritto internazionale umanitario e non lo fanno nemmeno le precedenti prese di posizione dell’Unione (v. dichiarazione del 7 ottobre e Consiglio affari esteri informale del 10 ottobre). Ciò, del resto, non stupisce, essendo abituale per l’Unione stigmatizzare la condotta dei gruppi palestinesi ed evitare di criticare espressamente gli abusi compiuti dalle autorità israeliane (sul punto, mi permetto di rinviare ad un post precedente). Ad ogni modo, il mero richiamo al diritto internazionale umanitario nel testo della dichiarazione del 15 ottobre 2023 è un evidente, seppure implicito, monito ad Israele, significativamente assente, invece, dalle dichiarazioni di Von der Leyen.
La revisione del finanziamento ai palestinesi
Oltre ad avere invaso apertamente il campo della PESC con le dichiarazioni di Von der Leyen, la Commissione – o, almeno, alcuni suoi membri – sembrano aver inteso influenzare indirettamente la politica estera sfruttando la leva della cooperazione allo sviluppo.
Diversi commissari hanno rilasciato dichiarazioni – confliggenti – rispetto ad una possibile sospensione degli aiuti alla Palestina. Il 9 ottobre, Oliver Varhelyi, Commissario europeo per il Vicinato, ha annunciato: “The scale of terror and brutality against Israel and its people is a turning point. […] As the biggest donor of the Palestinians, the European Commission is putting its full development portfolio under review. […] All payments immediately suspended”. Di lì a poche ore, il Commissario per gli aiuti umanitari, Janez Lenarčič, ha precisato che, diversamente dagli aiuti allo sviluppo, l’aiuto umanitario ai palestinesi “will continue as long as needed” (successivamente tale aiuto è stato triplicato). In seguito, l’Alto rappresentante/Vice-Presidente della Commissione ha contraddetto direttamente Varhelyi, affermando che l’Unione non avrebbe sospeso nessun pagamento a favore dei Palestinesi: “punishing all the Palestinian people” danneggerebbe gli interessi dell’Unione nella regione e fomenterebbe il terrorismo.
Nel mentre, con un comunicato stampa, la Commissione aveva adottato una posizione ancora diversa. Da un lato, essa aveva confermato di non voler bloccare gli aiuti umanitari (come Lenarčič) ed aveva escluso la sospensione immediata dei pagamenti degli aiuti allo sviluppo a favore delle autorità palestinesi (come Borrell). D’altro canto, però, aveva motivato tale esclusione con ragioni prettamente tecniche: “there [are] no payments foreseen”; perdipiù, la Commissione ha annunciato una revisione degli aiuti allo sviluppo per la Palestina (come Varhelyi). Di conseguenza, sebbene, ad oggi, non vi sia ancora stato un blocco degli aiuti alla Palestina, non si può escludere a priori che la Commissione cerchi di sospenderli, o almeno ridurli, in futuro. La stessa Presidente della Commissione ha rilevato, in modo sottilmente minaccioso, che il conflitto potrebbe “put in doubt the positive impact of our entire neighbourhood funding. Just as an example, about 10% of the entire budget of the Palestinian authority funding comes from the European Union” (conferenza stampa del 17 ottobre).
Ci si può chiedere fino a che punto la Commissione possa autonomamente decidere rispetto ad un’eventuale sospensione dell’assistenza ai palestinesi. La cooperazione con la Palestina è regolata dallo Strumento di vicinato, cooperazione allo sviluppo e cooperazione internazionale, secondo il quale la Commissione può modificare i “programmi indicativi pluriennali” con i quali sono stanziati i fondi per gli stati partner (v. art. 16 del Regolamento 2021/947/UE), con un atto di esecuzione. Tale atto è soggetto al controllo degli Stati membri, attraverso una “procedura di esame” (v. art. 5 del Regolamento 182/2011/UE sulla c.d. “comitologia”). Ciò significa, in sostanza, che una maggioranza di Stati membri potrebbe opporsi alla modifica, da parte della Commissione, dei suddetti “programmi indicativi pluriennali” – e quindi all’eventuale sospensione degli aiuti alla Palestina (v. anche Öberg).
La Commissione potrebbe cercare di aggirare questo ostacolo utilizzando una procedura d’urgenza (art. 16, par. 5, del Regolamento 2021/947/UE), che permette l’adozione di atti di esecuzione “immediatamente applicabil[i]”. Essi devono, però, essere comunque sottoposti all’attenzione dei rappresentanti degli Stati membri entro 14 giorni; in caso di opposizione di una maggioranza di Stati membri, l’atto di esecuzione dovrebbe essere abrogato (v. art. 8 del Regolamento 182/2011/UE). Atteso che, come rilevato da Borrell, “the overwhelming majority of [foreign affairs] ministers expressed themselves against the suspension of the payments of EU funds”, pare improbabile che la Commissione possa sospendere completamente gli aiuti alla Palestina nel futuro prossimo.
Anche ammesso che gli Stati membri approvino una sospensione degli aiuti alla Palestina, questa potrebbe risultare incompatibile con i Trattati. Essa violerebbe probabilmente il principio di proporzionalità (art. 5, par. 4, TUE), secondo cui gli atti delle istituzioni dell’Unione dovrebbero essere “idonei a realizzare i legittimi obiettivi perseguiti dalla normativa di cui trattasi” (inter alia, Corte giust., Portogallo c. Consiglio, C-268/94, punto 37). L’eventuale sospensione degli aiuti alla Palestina avrebbe come esplicito obiettivo “to ensure that no EU funding indirectly enables any terrorist organization to carry out attacks against Israel” (v. Comunicato stampa della Commissione). Però, come confermato dalla stessa presidente della Commissione: “EU funding has never (…) go[ne] to Hamas or any terrorist entity” (Dichiarazione dell’11 ottobre 2023). Del resto, sarebbe curioso se la Commissione si rendesse conto proprio ora di avere, per anni, finanziato Hamas. Si può dunque suppore che sospendere gli aiuti alla Palestina non sia necessario e, quindi, idoneo a ridurre il rischio di finanziamento del terrorismo.
L’obiettivo della revisione dell’assistenza alla Palestina, in effetti, pare un altro: contribuire alla ‘punizione collettiva’ dei palestinesi messa in atto da Israele, in seguito agli attentati di Hamas. Non sembra, però, che si possa utilizzare la cooperazione allo sviluppo per perseguire tali finalità, le quali rientrano nella politica estera, e che sono tipiche della PESC. Ai sensi dell’art. 40 TUE l’applicazione delle misure PESC non può essere pregiudicata da atti adottati nell’ambito di altre politiche, quale la cooperazione allo sviluppo. E’ vero che gli obiettivi della cooperazione allo sviluppo sono ampi (inter alia, Corte giust., Portogallo c. Consiglio, C-268/94, punto 37) e che essa persegue anche gli obiettivi generali dell’azione esterna dell’Unione (art. 21 TUE), come quello di “rafforzare la sicurezza internazionale” (Corte giust. UE, Accordo con l’Armenia, C‑180/20, punto 49). Ed è altresì vero che, in un atto che “persegu[a] principalmente obiettivi connessi […] alla cooperazione allo sviluppo”, la componente principale, relativa alla cooperazione, può assorbire gli elementi accessori relativi alla PESC (Corte giust. UE, Accordo con l’Armenia, C‑180/20, punto 53; Accordo con il Kazakhstan, C‑244/17, punto 46). D’altronde, un’eventuale sospensione degli aiuti alla Palestina, motivata dagli attentati di Hamas, perseguirebbe principalmente – e non solo accessoriamente – obiettivi connessi alla PESC. Come rilevato dalla Corte in ECOWAS, non rientra nell’ambito della cooperazione allo sviluppo un atto che “abbia la finalità primaria di attuare la PESC” (Corte giust. UE, ECOWAS, C-91/05, punto 72; v. anche Corte giust., Tanzania, C‑263/14, punti 48-55). Del resto, perché un atto rientri nell’ambito della cooperazione allo sviluppo, bisogna pur sempre che esso “contribuisca al perseguimento degli obiettivi di sviluppo economico e sociale di quest’ultima” (Corte giust. UE, ECOWAS, C-91/05, punto 67). E una sospensione degli aiuti ad un Paese in via di sviluppo, finalizzata ad imporre una ‘punizione collettiva’ per degli atti di un gruppo terroristico, sarebbe difficilmente riconducibile, a mio modo di vedere, allo sviluppo economico e sociale.
Conclusione
La Commissione europea è da sempre intenzionata a giocare un ruolo in politica estera. La Commissione Von der Leyen, autodefinitasi “Commissione geopolitica” (v. Haroche) ha enfatizzato questa tendenza. Nella risposta alla crisi in Israele e Palestina, la Presidente della Commissione ha forse calcato eccessivamente la mano, esorbitando dai propri poteri e mettendo in discussione la posizione concordata dagli Stati membri in ambito PESC.
Non ha aiutato Von der Leyen l’aver sposato una posizione estrema, di incondizionato sostegno a Israele, che ha esacerbato le divisioni nell’Unione, esposto l’Unione alle critiche di osservatori esterni (v. ad es. Politico, Middle East Eye) e allontanato la Presidente della Commissione dalle cancellerie più prossime alla Palestina (v. ad es. Irish Times). L’attivismo di Von der Leyen e alcuni commissari, e il caos comunicativo da essi generato, hanno spinto gli Stati membri, che pur avevano lasciato un certo margine di azione alla Commissione, a ‘tirare le redini’ con la dichiarazione del 15 ottobre.
Resta da vedere se questi eventi avranno conseguenze a lungo termine sull’equilibrio istituzionale e sulla credibilità della Commissione come attore di politica estera. La débacle della “Commissione geopolitica” non lascia ben sperare.
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