Brevi riflessioni sull’uso della forza nella recente escalation del conflitto israelo-palestinese
Marco Longobardo (University of Westminster)
1. Introduzione
Sabato 7 ottobre, come noto, alcune milizie palestinesi riconducibili ad Hamas hanno lanciato una pioggia di missili su Israele e hanno forzato la barriera che separa la Striscia di Gaza da Israele, assaltando alcuni villaggi israeliani e seminando il terrore fra i civili. Vi sono al momento credibili rapporti di massacri di civili israeliani (inclusi anziani, donne e bambini) e presa di ostaggi. Come prevedibile, la reazione israeliana non si è fatta attendere. Il governo guidato da Benjamin Netanyahu ha ordinato di stringere in un assedio totale la striscia di Gaza bloccando acqua ed elettricità, lanciando una campagna di bombardamenti senza precedenti. Un’invasione terrestre sembrerebbe imminente. Al momento, ci sarebbero 1.300 morti israeliani e 1.799 morti e 6.388 feriti palestinesi, ma le cifre sono controverse ed entrambi i bilanci devono ritenersi provvisori.
In un clima di forte contrapposizione e ad eventi ancora in corso, con il cuore pesante per i molti amici e colleghi sparsi fra Israele e Palestina, questo breve post si prefigge di disegnare un quadro generale delle regole sull’uso della forza in territorio occupato, traendo spunto dalle conclusioni della mia monografia su questo tema (Longobardo 2018a). L’analisi si concentrerà sulle norme di jus contra bellum (o jus ad bellum) e su quelle di jus in bello (o diritto internazionale umanitario, o diritto dei conflitti armati). Per ragioni di spazio, altri problemi giuridici relativi alla escalation di questi giorni (es., il ruolo della normativa a tutela dei diritti umani) non potranno essere trattate compiutamente.
2. Perché l’azione di Hamas non è un atto legittimo di resistenza contro la potenza occupante
Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, l’Assemblea Generale, la Corte Penale Internazionale, e il Comitato Internazionale della Croce Rossa considerano la Striscia di Gaza parte integrante del Territorio Palestinese (insieme a Gerusalemme Est e a Cisgiordania), ancora sotto occupazione israeliana nonostante Israele abbia ritirato le sue truppe nel 2005. Tale conclusione è largamente condivisa in dottrina e si fonda sull’effettiva autorità esercitata da Israele sui confini della relativamente piccola Striscia di Gaza, il suo territorio marittimo e aereo, e i rifornimenti di acqua ed energia, almeno dal 2007 (vedi i riferimenti in Longobardo 2018a, pp. 36-38; Dinstein, pp. 297-303 e, da ultimo, il riepilogo di Jaber e Bantekas). D’altra parte, l’art. 42 del Regolamento dell’Aja del 1907, che codifica la definizione consuetudinaria di territorio occupato, non fa mai riferimento alla necessaria presenza di truppe nemiche per mantenere lo stato di occupazione (vedi, per tutti, Grignon, pp. 1593-1596).
La prima domanda da porsi è se, in principio, la popolazione del territorio occupato può prendere le armi contro la potenza occupante. Nonostante la questione negli ultimi decenni sia stata oscurata dalla retorica della guerra al terrorismo (vedi l’eccellente Megret), la risposta è affermativa: il diritto internazionale non vieta alla popolazione di un territorio occupato di prendere le armi contro l’occupante, come ci insegna la storia dei nostri nonni e nonne che hanno combattuto l’occupazione nazista. Inquadrare tale conclusione in via teorica è abbastanza complicato, ma il dibattito può riassumersi nei seguenti termini. Primo, dopo lungo travaglio dottrinale e giurisprudenziale, è ormai pacifico che il diritto dell’occupazione bellica, come codificato dai Regolamenti dell’Aja del 1907 e dalla Quarta Convenzione di Ginevra del 1949, non impone un obbligo di obbedienza sulla popolazione del territorio occupato (vedi art. 45 dei Regolamenti dell’Aja del 1907 e art. 68(3) della Quarta Convenzione di Ginevra del 1949; in dottrina, per tutti, Baxter, e i più recenti riferimenti in Longobardo 2018a, pp. 137-141). Secondo, a determinate condizioni, chi partecipa alla resistenza contro la potenza occupante ha diritto a essere trattato come prigioniero di guerra in quanto legittimo combattente (vedi art. 4(A)(2) della Terza Convenzione di Ginevra del 1949). Terzo, il principio di autodeterminazione dei popoli come codificato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite supporta la legittimità della lotta contro la potenza occupante (vedi Ris. 2649 (XXV), 30 novembre 1970; contrariamente a quanto sostenuto da Schmitt, ciò non riguarda solo la resistenza non armata, in quanto la Ris 35/35, 14 novembre 1980 cita espressamente la lotta armata; si rammenti che in materia di autodeterminazione dei popoli questi risoluzioni hanno carattere normativo secondo la Corte Internazionale di Giustizia, parere sulle Isole Chagos, par. 151-153). Quarto, alcuni trattati internazionali regionali in materia dei diritti umani prevedono la resistenza contro la potenza occupante come un diritto umano (vedi art. 20(2) della Carta Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli del 1981; art. 2(4) della Carta Araba dei Diritti dell’Uomo del 2004). Quinto, gli stati non sono mai addivenuti a una definizione generale di terrorismo proprio per l’opposizione di alcuni di questi a considerare la resistenza contro la potenza occupante sempre e comunque terroristica (Report of the Ad Hoc Committee established by General Assembly Resolution 51/210 of 17 December 1996, Eighth session (28 June–2 July 2004), A/59/37, Annex II, pp. 10-11), ma anzi, alcune convenzioni settoriali sul terrorismo si premurano di escludere la resistenza contro la potenza occupante dal loro campo di applicazione (vedi i riferimenti in Longobardo 2018a, pp. 159-162). Si ricordi infine che alcuni stati non allineati del Sud globale hanno più volte considerato la resistenza contro la potenza occupante come un atto di legittima difesa ai sensi dell’art. 51 della Carta ONU (vedi ad esempio nel parere sulla Namibia (South West Africa) del 1970, l’opinione separata del giudice Ammoun, par. 12; più in generale, vedi Abi-Saab, pp. 437-438, nota 8), anche se questa interpretazione è di solito rigettata per il fatto che l’art. 51 è un diritto degli stati e non anche dei popoli (Dugard, pp. 168-187). Si può quindi concludere che la resistenza contro la potenza occupante non è vietata dal diritto internazionale, ma anzi vi è un certo supporto da alcune sue norme, pur non potendosi configurare un diritto soggettivo alla resistenza (e, infatti, come vedremo sotto, la potenza occupante può legittimamente reagire per proteggersi).
Un primo punto da affrontare brevemente è se le azioni di Hamas si possano configurare in astratto come un atto di resistenza contro la potenza occupante. Mi pare che non vi siano dubbi che il rompere il bocco terrestre sulla Striscia di Gaza, attraverso cui l’occupazione è mantenuta, sia un atto di resistenza contro la potenza occupante. Non mi sembra invece che il massacro di civili descritto sopra sia un atto di resistenza in quanto mi sfugge ogni possibile connessione fra tali atrocità e la sperata fine dell’occupazione.
Inoltre, dire che in principio la resistenza contro la potenza occupante è permessa non significa però affatto affermare che la resistenza è permessa con ogni mezzo, come infelicemente suggerito dal titolo di un recente saggio sul tema (Hammouri). Resistenza è una parola che descrive una realtà empirica che non corrisponde a una nozione del diritto internazionale, né dello jus contra bellum né dello jus in bello. Essa identifica un’azione implicante l’uso della forza che, come tutte le azioni implicanti l’uso della forza, deve rispettare le pertinenti regole di jus in bello. Se anche la resistenza non è proibita dal diritto internazionale, come argomentato qui, essa deve però anche seguire le regole del diritto internazionale umanitario. E sembra oggi incontrovertibile che l’azione militare di Hamas del 7 ottobre ha violato praticamente ogni regola possibile di diritto internazionale umanitario.
Il diritto internazionale umanitario regola in maniera diversa i conflitti armati internazionali dai conflitti armati non-internazionali. La maggior parte della dottrina (es., Cassese, p. 420; Akande, pp. 46-47; Longobardo 2018, pp. 226-229; Dannenbaum; contra, e.g., Annoni, pp. 1006-1009) e la giurisprudenza israeliana (es., Targeted Killings case, par. 18) considerano il conflitto armato fra Israele e Gaza come governato dalle norme sui conflitti armati internazionali. Per la dottrina, la ragione di ciò si rinviene nella considerazione che la Striscia di Gaza è territorio occupato e sarebbe assurdo applicare ai rapporti fra potenza occupante e popolazione locale due diverse discipline, quella dei conflitti armati internazionali all’insieme dell’occupazione, quella dei conflitti armati non internazionali all’uso della forza.
Dalle informazioni che ci giungono, appare chiaro che l’azione di Hamas viola lo jus in bello almeno in relazione al lancio di attacchi indiscriminati (vietati dall’art. 51(4) del Primo Protocollo Addizionale del 1977), attacchi diretti ai civili (vietati ivi, art. 51(1) e (2)), attacchi lanciati al solo fine di seminare terrore (vietati ivi, art. 51(2)) e presa di ostaggi (vietati ivi, art. 75(2)(c)). Probabilmente ulteriori violazioni si riscontreranno quando i fatti verranno accertati più compiutamente (vi sono, ad es., testimonianze di violenze sessuali e torture sui civili).
Queste regole di jus in bello sono parte del diritto consuetudinario e la loro violazione dà luogo a crimini di guerra, sia ai sensi del diritto internazionale umanitario (c.d. regime delle «grave breaches»), sia come risulta dallo Statuto della Corte Penale Internazionale (art. 8). Vi sono inoltre gli estremi per considerare i miliziani di Hamas responsabili di crimini contro l’umanità, in quanto è indubbio che uccisioni, sterminio, deportazioni, illegittime detenzioni e sparizioni forzate sono avvenute nel contesto di un attacco diffuso e sistematico contro la popolazione civile israeliana, come parte di un piano ben determinato (ivi, art. 7). Si può quindi concludere sul punto che l’azione di Hamas è illegale ai sensi del diritto internazionale umanitario e i suoi membri sono responsabili di crimini di guerra e contro l’umanità (vedi anche Dannenbaum, Ohlin, Dill). Questa precisazione è importante dal momento che il Procuratore della Corte Penale Internazionale ha da tempo aperto un’indagine su presunti crimini internazionali commessi in Palestina o da cittadini Palestinesi. Il diritto internazionale in nessun modo giustifica, supporta, o legittima quanto commesso da Hamas ai danni dei civili israeliani.
3. Perché la risposta di Israele viola il diritto internazionale
Venendo a una breve disamina della legalità della reazione israeliana, se è indubbio che uno stato – anche una potenza occupante – ha il diritto, nonché il dovere, di difendere i propri civili, bisogna stare attenti a identificare la corretta fonte normativa.
Nel linguaggio giornalistico e diplomatico si fa spesso riferimento al diritto di Israele alla legittima difesa. La Corte Internazionale di Giustizia, però, nel noto parere sulla Legalità del Muro in Cisgiordania del 2004, ha affermato che Israele non può invocare l’art. 51 della Carta ONU contro attacchi provenienti dal territorio occupato (par. 139). Contrariamente a quanto sostenuto da parte della dottrina (es. Sarzo; Schmitt), ritengo del tutto corretta la conclusione della Corte (come spiego in Longobardo 2018a, capitolo 3): una situazione di occupazione bellica è una porzione di conflitto armato dove già lo jus contra bellum è stato azionato (nel nostro caso, con la Guerra dei Sei Giorni del 1967). Ne consegue, quindi, che la potenza occupante non può né deve invocare lo jus contra bellum in relazione a ogni operazione condotta nel territorio occupato. Ne discende che la legittima difesa ai sensi dell’art. 51 della Carta ONU «has no relevance» per la reazione di Israele, per citare la Corte.
La facoltà per Israele di difendere i propri civili discende dal diritto dell’occupazione bellica. L’architrave dell’amministrazione della potenza occupante è l’art. 43 dei Regolamenti dell’Aja del 1907, secondo cui la potenza occupante ha il dovere di ristabilire, finché possibile, l’ordine pubblico e la vita civile in territorio occupato. Questa norma è stata interpretata da giurisprudenza costante come alla base della facoltà della potenza occupante di proteggere i propri cittadini in territorio occupato (vedi i riferimenti Longobardo 2018a, pp. 170-171). Ciò costruisce un contrappeso importante alla mancanza di un obbligo di obbedienza in capo alla popolazione locale: il diritto internazionale umanitario non vieta la resistenza ma permette alla potenza occupante di reprimerla. Chiaramente, la facoltà della potenza occupante di proteggere i propri cittadini vale anche per i cittadini della potenza occupante al di fuori del territorio occupato, come nel caso degli attacchi di Hamas in territorio israeliano di cui stiamo discutendo.
Se non vi è quindi nessun dubbio che Israele possa e debba difendere i propri cittadini, bisogna sempre ricordare che il diritto internazionale umanitario vincola anche le azioni di Israele. Lo jus in bello, infatti, si applica a tutte le parti in conflitto senza distinzioni (come chiarito dal par. 4 del preambolo del Primo Protocollo Addizionale del 1977; in dottrina, per tutti, vedi Koutroulis). Anche volendo ammettere – contro quanto argomentato sopra – che l’azione israeliana sia legittimata dall’art. 51 della Carta ONU, la Commissione del Diritto Internazionale ha chiarito che la scusante dell’azione in legittima difesa non è opponibile per giustificare le violazioni dello jus in bello (Progetto di Articoli sulla Responsabilità degli Stati per Atti Internazionalmente Illeciti del 2001, Commentario all’art. 21, par. 3). Occorre quindi verificare se l’azione israeliana, al momento in corso e legittima per finalità difensive, in concreto rispetti lo jus in bello.
Israele ha annunciato un assedio totale della Striscia di Gaza, che già versava in condizioni di vita estremamente precarie a causa del blocco di terra, mare e cielo già imposto da Israele (vedi diffusamente Report of the Special Rapporteur Michael Lynk on the situation of human rights in the Palestinian territories occupied since 1967, 15 luglio 2020, par. 53-71). Il Ministro della Difesa israeliano ha dichiarato: «I have ordered a complete siege on the Gaza Strip. There will be no electricity, no food, no fuel, everything is closed. […] We are fighting human animals and we are acting accordingly» (traduzione de The Times of Israel). Sono seguiti massicci bombardamenti di quelli che sembrano complessi abitativi civili nella Striscia di Gaza, con il collasso delle infrastrutture elettriche che servivano l’intera area (ospedali compresi).
Secondo attenta dottrina (Dannenbaum, con riferimenti a più ampie opere dello stesso autore in tema) la politica di bloccare l’ingresso di derrate alimentari configurerebbe una violazione del divieto di «starvation» ai sensi del diritto internazionale umanitario (art. 54 del Primo Protocollo Addizionale del 1977), che la Corte Suprema di Israele ha applicato come diritto consuetudinario alle azioni di Israele rispetto alla Striscia di Gaza (Jaber Al-Bassiouni Ahmed, par. 13-15). Tale norma è rafforzata, in territorio occupato, dall’obbligo per la potenza occupante di fornire cibo e materiale medico alla popolazione di un territorio occupato se questo non ne è sufficientemente fornita ai sensi dell’art. 55 della Quarta Convenzione di Ginevra del 1949 – norma, questa, che non prevede alcuna eccezione. Come è noto, «starvation» di popolazione civile è un crimine di guerra ai sensi dello Statuto della Corte Penale Internazionale (art. 8(2)(b)(xxv)). Sembrerebbe quindi che il blocco totale appena annunciato violi il divieto di «starvation», anche alla luce dell’assenza di un chiaro corridoio umanitario e ai recenti bombardamenti del valico di Rafah fra la Striscia di Gaza ed Egitto, unica porzione di confine non controllata da Israele (vedi anche Dill).
Il problema, a questo punto, è capire come il diritto internazionale umanitario permetterebbe ad Israele di reagire contro Hamas senza per questo colpire la popolazione civile della Striscia di Gaza. Nonostante sicuramente i miliziani di Hamas non godano della protezione conferita ai civili in quanto combattenti o in quanto civili che prendono parte alle ostilità (Dannenbaum), cionondimeno la loro presenza nella Striscia di Gaza non fa venire meno il carattere di civili dei membri della popolazione ivi residente (art. 50(3) del Primo Protocollo Addizionale del 1977: «The presence within the civilian population of individuals who do not come within the definition of civilians does not deprive the population of its civilian character»). Inoltre, secondo l’art. 50 dei Regolamenti dell’Aja del 1907 e l’art. 33 della Quarta Convenzione di Ginevra, la potenza occupante non può sottoporre l’intera popolazione del territorio occupato (Striscia di Gaza, in questo caso) a una pena o punizione collettiva per un atto commesso da alcuni suoi membri (Hamas).
Ciò vale sia in relazione al divieto di «starvation», sia in relazione alle perdite civili e ai danni ai beni civili che si stanno verificando a causa dei massicci bombardamenti israeliani di questi giorni. Israele è tenuto all’osservanza dei principi di precauzione, distinzione, e proporzionalità in ogni operazione militare nella Striscia di Gaza, la cui violazione può comportare anche la responsabilità individuale per crimini di guerra. Le pesanti perdite civili palestinesi riportate in questi giorni sembrano indicare la mancanza di volontà israeliana di seguire queste regole, come denunciato da alcuni Relatori Speciali del Consiglio dei Diritti Umani e da varie ONG (ancora Dill). La Corte Penale Internazionale ha giurisdizione anche in questo ambito, dal momento che i presunti crimini commessi sul Territorio Palestinese da chicchessia rientrano nella giurisdizione territoriale della Corte e sono al momento al vaglio del Procuratore.
Sul punto, di più non è possibile al momento concludere, giacché le rilevanti norme di diritto internazionale umanitario si applicano tenuto conto delle circostanza di cui era a conoscenza l’attaccante (in questo caso, Israele), e le informazioni rilevanti al momento non sono disponibili (vedi le critiche di Wuerzner). Ad ogni modo vi è oggi un consolidato trend, almeno nell’azione delle missioni di inchiesta del Consiglio dei Diritti Umani, che suggerisce che la mancanza di informazioni da parte dell’attaccante può essere supplita, almeno ai fini della responsabilità statale, attraverso ragionamenti deduttivi sulla base delle circostanze note (faccio il punto su questo in Longobardo, in corso di pubblicazione).
Si ricordi infine, per completezza, che il diritto internazionale umanitario oggi non è più governato dal principio di reciprocità. Sorprende, e preoccupa, quindi la dichiarazione del Ministro dell’Energia israeliano del 12 ottobre, secondo cui «No electrical switch will be lifted, no water hydrant will be opened and no fuel truck will enter until the Israeli hostages are returned home. Humanitarian for humanitarian.» Le norme di jus in bello proteggono un interesse fondamentale della comunità internazionale nel suo insieme (es., Condorelli e Boisson de Chazournes; Benvenuti) e, come tali, si applicano indistintamente dal fatto che la parte avversaria le applichi o meno. Tale allusione sembra richiamare il concetto delle rappresaglie di guerra, considerate illegali dall’art. 51(6) del Primo Protocollo Addizionale e, secondo alcune camere del Tribunale Penale per l’Ex Yugoslavia, illegali anche ai sensi del diritto consuetudinario (vedi Prosecutor v. Zoran Kupreškić, IT-95-16-T, 14 gennaio 2000, par. 531; Prosecutor v. Milan Martić, IT-95-11-R61, 8 marzo 1996, par. 10). Il Comitato Internazionale della Croce Rossa, sulla base dell’opposizione di alcuni stati a considerare il divieto consuetudinario, ha concluso nel 2005 che il divieto di rappresaglie è consuetudinario nei confronti delle persone protette al di fuori delle ostilità, mentre vi sarebbe un forte trend verso la cristallizzazione di un simile divieto nei confronti di rappresaglie contro civili coinvolti nella condotta di ostilità (Henckaerts e Doswald-Beck, pp. 519-523). A me sembra che dal fatto che la protezione dei civili sia un interesse fondamentale della comunità internazionale nel suo insieme discende che lo stato A non può violare detta regola in risposta al comportamento dello stato B, in quanto quella violazione riguarda tutti gli stati nella comunità internazionale (Longobardo 2018b, pp. 396-397). Non è un caso che la Commissione del Diritto Internazionale ha concluso che l’adozione di contromisure non può violare le norme di diritto internazionale umanitario in materia di rappresaglie (Progetto di Articoli sulla Responsabilità degli Stati per Atti Internazionalmente Illeciti del 2001, art. 50(1)(c)). Non sembra quindi convincente l’argomento del Ministro dell’Energia israeliano.
4. Conclusioni
Il dibattito in questi giorni e nelle ultime decadi sul conflitto israelo-palestinese è stato ‘avvelenato’ dall’atteggiamento – anche da parte di colleghi – da tifoseria da stadio: ha ragione la mia squadra; no, ha ragione la mia. La vicenda qui brevemente commentata è una carrellata di orrori che noi internazionalisti chiamiamo violazioni di diritto internazionale e crimini internazionali. Da quanto noto al momento, i miliziani di Hamas sembrerebbero responsabili di crimini di guerra e contro l’umanità per le atrocità commesse nel sud di Israele, ma ciò non vale per i civili palestinesi indifesi. Alla luce dei dati disponibili, Israele sembrerebbe responsabile per la violazione del diritto internazionale umanitario (e possibilmente crimini di guerra) nella reazione che ha seguito l’attacco di Hamas e che, finora, ha colpito soprattutto i civili palestinesi, senza che ciò faccia venire meno in alcun modo la protezione dovuta ai civili israeliani. Il divieto di uccisione di civili, il divieto di presa di ostaggi, il divieto di «starvation», il divieto di attacchi indiscriminati dovrebbero essere capisaldi dell’umanità piuttosto che argomenti da tifo da stadio legati all’appartenenza delle vittime civili a un campo o all’altro. L’orrore a cui abbiamo assistito in questi giorni dovrebbe invitare a riflettere su soluzioni a lungo termine per la crisi israelo-palestinese e sulla necessità di difendere i principi e le regole del diritto internazionale (soprattutto umanitario), nell’interesse delle vittime civili.
*Il post, e con esso le informazioni contenute, sono aggiornate al 13 ottobre 2023*
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