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Arbitrato sportivo e ordine pubblico: quale ruolo per la Corte europea dei diritti dell’uomo? Note a margine della sentenza Semenya contro Svizzera

Anna Liebman (Università degli Studi di Milano)

1. Con sentenza resa l’11 luglio 2023, nel caso Semenya c. Suisse (ricorso n. 10934/21), la Corte europea dei diritti dell’uomo (“Corte EDU” o “la Corte”) ha condannato la Svizzera per la violazione degli artt. 8, 13 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (“CEDU”). In particolare, i giudici di Strasburgo hanno rilevato che il «controllo molto ristretto» posto in essere dal Tribunale Federale svizzero nel procedimento di impugnazione di un lodo arbitrale internazionale reso dal Tribunale Arbitrale dello Sport (“TAS”) non avrebbe permesso di esaminare approfonditamente le doglianze di discriminazione sollevate dalla ricorrente, Caster Semenya, un’atleta sudafricana specializzata nel mezzofondo. Alcuni diritti garantiti dalla Convenzione non sarebbero stati così adeguatamente tutelati e la Svizzera si sarebbe pertanto resa responsabile della violazione della CEDU per non aver fornito alla ricorrente sufficienti «garanzie istituzionali e procedurali».

Tale pronuncia, adottata a maggioranza (con 3 giudici dissenzienti) e non ancora definitiva (entro l’11 ottobre 2023 è ancora possibile proporre un rinvio alla Grande Camera della Corte ex art. 44 CEDU), offre l’occasione per alcune riflessioni sul ruolo svolto della Corte EDU in un contesto di questo tipo, sia con riguardo alla giurisdizione della Corte stessa, sia con riferimento al controllo che essa può svolgere sull’interpretazione (in concreto) del concetto di ordine pubblico offerta da un’autorità giurisdizionale di uno Stato aderente alla CEDU. Per illustrarle, sono prima necessari brevi cenni alla controversia e ai termini della decisione resa dalla Corte EDU.

2. La pronuncia in commento trae origine dalle vicende che hanno visto come protagonista Caster Semenya, un’atleta sudafricana specializzata negli 8oo metri piani e intersessuale dalla nascita, condizione che comporta la produzione naturale di un livello elevato di testosterone. Per questa sua condizione, Semenya rientra nella categoria dei c.d. «atleti con DSD», vale a dire con «differences of sexual development» (cfr. il Report del National Health Service Inglese).

Nell’aprile del 2018, l’International Association of Athletics Federations (“IAAF”, ora “World Athletics”) ha adottato un regolamento  (il “Regolamento DSD”) che pone una soglia limite di testosterone per poter partecipare alle competizioni di atletica nella categoria femminile, imponendo quindi a Semenya, per continuare l’attività sportiva, di ridurre il proprio livello naturale di testosterone attraverso dei trattamenti ormonali. L’atleta sudafricana, ritenendo ancora poco conosciuti gli effetti collaterali di tali trattamenti, si è rifiutata di adeguarsi al Regolamento e ne ha contestato la validità dinnanzi al TAS.

Nel lodo reso il 30 aprile 2019, il collegio arbitrale – riconosciuta la legittimità dello scopo perseguito dal Regolamento DSD, vale a dire la garanzia di una competizione equa nelle gare di atletica femminile – ha precisato che è in funzione di tale obiettivo che si sarebbe incentrata la propria indagine sulla legittimità del Regolamento. In proposito, il TAS ha in primo luogo ravvisato la necessità e la ragionevolezza di quest’ultimo in quanto fonda il diritto di essere inclusi nella categoria femminile in funzione di un parametro oggettivo, relativo alla quantità di testosterone nel sangue. Essendo stato dimostrato che un tasso elevato di tale ormone comporta un vantaggio competitivo significativo nelle competizioni sportive, la possibilità di rientrare nella categoria femminile sarebbe cioè basato su un dato biologico, non avendo alcuna rilevanza a tal fine lo status giuridico o l’identità di genere. In secondo luogo, nell’esame sulla proporzionalità del Regolamento, il collegio arbitrale, soppesati tutti gli aspetti che entrano in gioco nella sua applicazione (gli effetti dell’assunzione di contraccettivi orali, l’obbligo per gli atleti con DSD di sottoporsi ad esami fisici invasivi, il limite consentito per i livelli di testosterone, ecc…), ha rilevato che gli effetti collaterali del trattamento ormonale previsto non sarebbero sproporzionati rispetto agli obiettivi perseguiti dalla IAAF. Pertanto, pur riconoscendo gli effetti discriminatori del Regolamento DSD, il TAS ha sancito la legittimità di tale misura rispetto all’obiettivo di garantire un’equa competizione nella categoria femminile.

L’atleta sudafricana ha quindi proposto un ricorso avverso il lodo arbitrale dinnanzi al Tribunale federale svizzero, poiché uno degli aspetti peculiari del sistema di giustizia sportiva consiste nella circostanza che tutti gli arbitrati amministrati dal TAS devono obbligatoriamente avere la sede arbitrale a Losanna. Ciò comporta la circostanza che tutti i lodi arbitrali resi da TAS sono lodi «svizzeri», ai sensi dell’ordinamento elvetico e sono dunque impugnabili soltanto dinnanzi al Tribunale federale svizzero, che funge dunque da «vera ultima istanza giudiziaria dello sport mondiale» (Coccia, p. 1168 ss.; sul contenzioso dinnanzi al Tribunale Federale Svizzero per impugnazione dei lodi emanati dal TAS, v. Rigozzi).

La ricorrente ha dunque demandato a tale autorità giurisdizionale l’annullamento del lodo arbitrale per la pretesa incompatibilità di quest’ultimo con l’ordine pubblico e ciò ai sensi dell’art. 190, par. 2, let. e), della legge sul diritto internazionale privato svizzero (“LDIP”), essendo il procedimento di impugnazione dei lodi arbitrali materia regolata dalla lex loci arbitri (vale a dire la legge del luogo ove ha sede l’arbitrato). In particolare, trattandosi, di presunte violazioni di principi di diritto materiale e non di  tipo procedurale, la ricorrente ha lamentato la contrarietà con il c.d. ordine pubblico materiale (o sostanziale) del lodo reso dal TAS, ritenuto dall’atleta sudafricana incompatibile con il divieto di discriminazione e con la tutela di alcuni suoi diritti fondamentali, nonché lesivo della sua dignità umana.

Nella sentenza resa il 20 agosto 2020, il Tribunale federale ha sostenuto che, sulla base dei fatti accertati e dell’esame approfondito svolto dal TAS, le conclusioni da questo raggiunte non fossero né insostenibili né irragionevoli. Come già precisato dal Tribunale arbitrale, la Corte elvetica ha inoltre evidenziato la legittimità della garanzia di uno sport equo, riconosciuta anche dalla giurisprudenza della Corte EDU (Affaire Fédération Nationale Des Associations Et Syndicats De Sportifs (Fnass) Et Autres c. France, 18 gennaio 2018, ricorsi nn. 48151/11 et 77769/13, par. 166). Il Tribunale federale ha dunque rigettato in toto il ricorso presentato dall’atleta sudafricana, confermando il lodo reso dal TAS.

Semenya ha quindi presentato ricorso dinnanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, denunciando l’avvenuta violazione da parte della Svizzera degli artt. 3 (proibizione della tortura); 6 (diritto a un equo processo); 8 (diritto al rispetto della vita privata e famigliare); 13 (diritto ad un ricorso effettivo); 14 (divieto di discriminazione).

Nonostante il governo svizzero abbia contestato la competenza ratione loci e ratione personae della Corte, riferendosi le doglianze della ricorrente ad un insieme di fatti e di soggetti senza alcun legame con la Svizzera né con alcuno Stato membro del Consiglio d’Europa, essa si è dichiarata competente a conoscere della controversia sottoposta al suo esame sulla base dell’art. 1 della CEDU, il quale delimita il campo di applicazione della Convenzione ratione personae, materiae e loci (v. Irlande C. Royaume-Uni, 18 January 1978, ricorso n. 5310/71, par. 238. V. anche Schabas, p. 84 ss.). I giudici di Strasburgo hanno infatti sostenuto che la possibilità del Tribunale federale – sorta in virtù del ricorso presentato da Semenya – di svolgere un riesame sul lodo arbitrale reso dal TAS avrebbe fatto entrare in gioco la giurisdizione della Svizzera ai sensi dell’art. 1 della CEDU e, di conseguenza, anche la giurisdizione della Corte EDU. Secondo costante giurisprudenza della Corte di Strasburgo, infatti, nel momento in cui una persona agisce davanti al tribunale civile di uno Stato, esiste indiscutibilmente un «legame giurisdizionale» tra quella persona e lo Stato stesso (e ciò anche se i fatti che hanno dato origine all’azione sono di natura extraterritoriale v. Markovic c. Italie [GC], 14 dicembre 2006, par. 49 – 55).

Tale conclusione è stata criticata dalla minoranza dissenziente (l’opinione dei giudici di minoranza è disponibile qui), che ha sostenuto l’inesistenza di una base giuridica che permettesse l’estensione del sindacato della Corte EDU su una controversia riguardante le misure adottate da un’organizzazione di diritto privato del Principato di Monaco (la IAAF) nei confronti di un’atleta sudafricana, residente in Sudafrica. Trattandosi, infatti, di una situazione non collegata con nessuna «Alta Parte contraente» ex art. 1 della Convenzione, i giudici della minoranza hanno negato la giurisdizione della Corte (Ukraine et Pays-Bas c. Russie, 30 novembre 2022, ricorsi nn. 8019/16, 43800/14, et 28525/20, par. 506).

Quanto al merito, i giudici di Strasburgo hanno accolto le doglianze della ricorrente relativamente agli artt. 8, 13 e 14 della CEDU. La Corte ha dapprima ravvisato una violazione dell’art. 14 in combinato disposto con l’art. 8, per non aver la Svizzera fornito sufficienti garanzie istituzionali e procedurali per la tutela dei diritti previsti dalla Convenzione: l’esame svolto dal Tribunale federale svizzero sul lodo reso dal TAS non avrebbe cioè permesso di indagare a fondo alcune questioni di fondamentale importanza (per esempio, quelle relative agli effetti secondari del trattamento ormonale) e non avrebbe consentito di garantire in modo adeguato l’applicazione della CEDU dinnanzi a doglianze di discriminazione consolidate e credibili. Per questo motivo, la Corte ha ritenuto di non poter considerare il Regolamento DSD una misura razionale e proporzionata allo scopo perseguito. Sempre a ragione dell’esame ristretto svolto dall’autorità svizzera sul lodo arbitrale, la Corte – rimarcato il proprio ruolo di custode dell’ordine pubblico europeo – ha riscontrato una violazione anche dell’art. 13 della CEDU, in combinato disposto con gli artt. 8 e 14.

I giudici della minoranza si sono mostrati critici anche rispetto a detta soluzione. In particolare, essi hanno contestato la conclusione secondo cui il Tribunale federale avrebbe dovuto dare piena applicazione alla Convenzione nell’esame svolto in sede di impugnazione del lodo arbitrale, in quanto ciò avrebbe comportato due conseguenze non condivisibili ed erronee: da un lato, l’interferenza della Corte EDU nell’interpretazione del diritto interno; dall’altro, l’applicazione universale della CEDU a tutti gli arbitrati sportivi, risultato sicuramente non previsto dalla Convenzione stessa.

3. Tale sentenza, come dimostra la divergenza di opinioni espressa in seno alla stessa Corte EDU, si occupa di questioni nuove e controverse, rispetto alla quali esistono pochissime linee guida generali, risultando dunque molto difficile trovare un bilanciamento tra i diversi interessi in gioco. Tanto più che, come rimarcato in un recente commento alla sentenza, le difficoltà sorgono anche a causa della complessità di conciliare istanze provenienti da mondi caratterizzati da filosofie, principi e obiettivi diversi e talvolta contrastanti: da un lato, il mondo dell’arbitrato sportivo e, dall’altro, quello, dei diritti umani (Shahlaei).

In realtà, l’assunto secondo il quale l’arbitrato internazionale e i diritti umani sono due realtà distinte e non correlate nel discorso e nella prassi giuridica sembra oggi superato (Benedettelli, p. 631 ss.). Invero, è ormai frequente che disposizioni della Convenzione vengano invocate in casi relativi all’arbitrato internazionale e ciò accade in particolar modo con riferimento all’art. 6 della CEDU, relativo alla garanzia di un equo processo. Con riferimento a tale disposizione, la giurisprudenza della Corte EDU ha riconosciuto nel meccanismo di giustizia sportivo fondato sul TAS un «arbitrato forzato», nel senso che la Corte ha sottolineato l’inesistenza della possibilità per le parti interessate di sottrarre la controversia alla giurisdizione del tribunale arbitrale con sede a Losanna, circostanza spesso imposta dai regolamenti delle organizzazioni sportive. Ciononostante, nel caso Mutu et Pechstein, la Corte ha qualificato il TAS come un «tribunale indipendente e imparziale costituito per legge» ai sensi dell’art. 6 della CEDU, (Mutu e Pechstein, cit., par. 149 e 159), decisione poi confermata nel successivo caso Platini (Platini, cit., par. 65).

La sentenza in esame non si incentra quindi sulla questione – già sottoposta all’attenzione della Corte EDU e da questa risolta in senso affermativo – dell’autonomia e indipendenza del Tribunale arbitrale dello Sport, quanto piuttosto sulle modalità attraverso cui le garanzie previste dalla Convenzione possano trovare applicazione nel contesto del controllo operato su tali decisioni arbitrali dalla Corte suprema svizzera.

Questo tema, così come declinato nella sentenza, apre ad alcune riflessioni che saranno di seguito approfondite da un punto di vista generale, prescindendo dalle questioni di merito relative alla controversia in esame e dalla legittimità del Regolamento DSD. Sulla base di quanto sostenuto dalla Corte, infatti, da un lato, emerge la necessità di indagare il collegamento richiesto tra una data controversia e uno Stato parte della Convenzione (un’«Alta parte contraente» ex art. 1 CEDU) quale presupposto per fondare la giurisdizione della Corte europea dei diritti dell’uomo; dall’altro lato, pare opportuno comprendere quale sia l’ampiezza del controllo che la Corte europea può svolgere sulla definizione e concretizzazione del concetto di ordine pubblico di uno Stato contraente la CEDU.

Le altre questioni che emergono dalla pronuncia, di enorme importanza e strettamente inerenti al merito della controversia, quali gli effetti collaterali dei trattamenti ormonali, l’applicazione orizzontale della CEDU, la struttura altamente gerarchica dei meccanismi di giustizia sportiva ecc.… non saranno dunque oggetto di approfondimento in questa sede.

4. Quanto alla prima questione, la pronuncia in commento offre lo spunto per qualche riflessione sulla possibilità di fondare la giurisdizione della Corte con riferimento a controversie in cui pare difficile ravvisare la responsabilità di uno Stato aderente alla CEDU. La peculiarità del caso in esame, infatti, come evidenziato sia dal governo svizzero sia dalla minoranza dissenziente, deriva dal fatto che la controversia sottoposta all’attenzione della Corte riguarda un procedimento arbitrale con sede a Losanna e il fatto che in Svizzera si sia svolto il procedimento arbitrale rappresenta il solo collegamento della controversia con tale Stato.

Invero, tale questione pare collegata alla già rimarcata circostanza che tutti gli arbitrati amministrati dal TAS devono obbligatoriamente avere sede a Losanna: una convenzione di arbitrato che indichi una diversa sede risulterebbe infatti inefficace. Tale prima questione problematica si pone poiché il fatto che tutti i lodi sportivi amministrati dal TAS siano svizzeri non comporta automaticamente un legame tra la controversia decisa dal Tribunale arbitrale sportivo e lo Stato svizzero.

Il governo elvetico e i giudici della minoranza hanno posto l’accento proprio su tale aspetto per contestare la giurisdizione della Corte EDU: essi hanno infatti evidenziato che il TAS, in quanto organo giurisdizionale dello sport, è un’organizzazione privata che si occupa di controversie tra sportivi professionisti provenienti da tutto il mondo e che molto spesso non hanno alcun legame con la Svizzera (ad eccezione della sede del Tribunale arbitrale e dunque del luogo dove si svolge il processo) e talvolta nemmeno con nessuno degli Stati membri del Consiglio d’Europa. Essi hanno pertanto sostenuto che ritenere la Svizzera responsabile dell’attuazione di tutte le garanzie sostanziali della Convenzione (e dunque ritenere la Corte EDU competente ex art. 1 CEDU) in tutti i casi sottoposti al vaglio del Tribunale federale svizzero a seguito dell’impugnazione di un lodo sportivo reso dal TAS metterebbe completamente in discussione la nozione stessa di arbitrato e la natura del sistema messo in atto nel campo dello sport, determinando, di fatto, che il ruolo di ultima istanza giudiziaria dello sport mondiale sarebbe raccolto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, il cui sindacato potrebbe estendersi su tutte le questioni di diritto sportivo.

Nonostante i rilievi mossi dal governo svizzero, la Corte ha affermato senza esitazione che le doglianze sollevate dalla ricorrente rientrano nella «giurisdizione» della Svizzera ai sensi dell’articolo 1 della Convenzione e ciò anche se il Tribunale federale svizzero non ha fatto esplicito riferimento alle disposizioni della CEDU.

Diverse motivazioni sembrano militare a favore di una tale conclusione, benché sia fuori di dubbio che, nel caso in esame, il contatto della controversia con un’Alta parte contraente (la Svizzera) ex art. 1 della CEDU sia molto limitato. Esso pare tuttavia sufficiente a fondare la giurisdizione della Corte europea dei diritti dell’uomo per i motivi spiegati di seguito. 

Innanzitutto, sembra doveroso evidenziare che, riconosciuti i vantaggi di un sistema centralizzato imposto dall’arbitrato obbligatorio in materia sportiva – basato su clausole compromissorie inserite in statuti o regolamenti di istituzioni sportive –, l’incompetenza della Corte a trattare questo tipo di domande non sarebbe coerente con lo spirito, l’oggetto e lo scopo della CEDU e sarebbe difficilmente conciliabile con l’idea della Convenzione come di uno «strumento costituzionale di ordine pubblico europeo», i cui fondamenti gli Stati contraenti sono tenuti a garantire almeno a tutti gli individui sottoposti alla loro giurisdizione ex art. 1 della CEDU (in questo senso, v. Marguénaud). Inoltre, l’estensione della giurisdizione della Corte a tutti i casi di arbitrato sportivo dinnanzi al TAS va letta tenendo presente che, sempre per la natura obbligatoria dell’arbitrato con sede a Losanna, il fatto che spetti alla suprema Corte elvetica conoscere dell’impugnazione di qualsiasi lodo arbitrale sportivo non dipende da una scelta della parte interessata, la quale, non può far altro che ricorrere a tale via. Diversamente, il problema si sarebbe potuto porre laddove la determinazione del luogo della sede dell’arbitrato fosse stata nella libera disponibilità della parte privata in quanto, in tal caso, la giurisdizione della Corte EDU sarebbe stata creata «ad hoc» sulla base di un’iniziativa di parte.

Quanto ai presupposti della giurisdizione di Strasburgo, occorre ricordare, in secondo luogo, che la giurisdizione della Corte ex art. 1 CEDU è strettamente collegata al tema della responsabilità internazionale dello Stato (Schabas, op. cit., p. 89 ss.) ed è chiaro che, nel caso in esame, sorgono dei dubbi circa l’attribuibilità della condotta posta in essere da soggetti privati alla Svizzera, che in quanto Stato parte della CEDU è tenuta a riconoscere «a ogni persona sottoposta alla [sua] giurisdizione i diritti e le libertà enunciati nel titolo primo della presente Convenzione» (art. 1). Ciononostante, la conclusione raggiunta dalla sentenza in commento, pare in linea con la giurisprudenza della Corte EDU. Secondo giurisprudenza costante, infatti, nel momento in cui una persona agisce davanti al tribunale civile di uno Stato, esiste indiscutibilmente un «legame giurisdizionale» tra quella persona e lo Stato stesso, e ciò anche se i fatti che hanno dato origine all’azione sono di natura extraterritoriale (oltre al già citato caso Markovic c. Italie, cit., si veda, Ukraine et Pays-Bas c. Russie, cit., e il commento a tale decisione di Charlotin). Se è vero che la maggior parte delle pronunce in cui la Corte si è dichiarata competente per fatti avvenuti al di fuori del territorio di uno Stato contraente riguarda situazioni di conflitto armato (v. Grignon, Roos), occorre tener presente che la Corte si è dichiarata competente anche in due casi sottoposti alla sua attenzione dopo un ricorso al Tribunale federale svizzero per impugnazione di un lodo reso dal TAS (Mutu et Pechstein c.. Suisse, 2 ottobre 2018, ricorsi nn. 40575/10 e 67474/10, e Platini, cit.). In particolare, in dette pronunce, la Corte ha sottolineato che il Tribunale federale svizzero, rigettando il ricorso avverso un lodo arbitrale internazionale, attribuisce autorità di cosa giudicata a quest’ultimo e, in questo senso, esercita senz’altro la sua giurisdizione, trattandosi di un atto suscettibile di impegnare la responsabilità dello Stato convenuto ai sensi della CEDU (Mutu et Pechstein, cit., par. 66; Platini, cit., par. 37 – 38).

Questo ragionamento sembra peraltro molto simile a quanto sostenuto dalla Corte in diverse pronunce in cui ha sancito il principio, ormai consolidato nella sua giurisprudenza secondo cui, in sede di exequatur di una sentenza straniera, gli Stati parte della CEDU sono tenuti a verificare che nel procedimento che ha condotto all’adozione di detta sentenza siano state rispettate le garanzie previste dall’art. 6 CEDU. In tale contesto, il riconoscimento degli effetti di una sentenza assunta all’esito di un processo in cui non siano state rispettate tali garanzie può implicare la responsabilità dello Stato richiesto del riconoscimento e dell’esecuzione di detta sentenza (v., ex multis, Pellegrini c. Italia, 20 giugno 2000, ricorso n. 30882/96 e, da ultimo, Dolenc v. Slovenia, 20 ottobre 2022, ricorso n. 20256/20; per un commento alla pronuncia v. Grassi).  In maniera simile, è quindi possibile sostenere che, come nel caso di riconoscimento e esecuzione delle sentenze straniere (v. ex multis e con riferimento particolare alla garanzia dell’art. 6 CEDU, Kinsch, p. 288 ss; Lopes-Pegna, p. 3 ss.; Grassi, op. cit., p. 463), anche nei procedimento di annullamento di un lodo arbitrale, le disposizioni della Convenzione devono trovare un’applicazione «indiretta», essendo dunque vietata la produzione degli effetti decisori o esecutivi di decisioni di un collegio arbitrale a qualsiasi titolo incompatibili con le garanzie della CEDU.

Sempre a proposito della giurisdizione della Corte, i giudici della minoranza hanno infine criticato anche la «misura» della giurisdizione della Corte, come a dire che, essendo l’unico contatto con la Svizzera rappresentato dal procedimento arbitrale, ciò avrebbe determinato un restringimento delle garanzie che lo Stato è tenuto a tutelare (e su cui di conseguenza la Corte può esprimersi) alle sole garanzie procedurali. In proposito, essi hanno evidenziato come, nel più volte citato caso Mutu et Pechstein, il ricorso presentato alla Corte riguardava l’art. 6 della CEDU ed è sull’operatività di tale articolo che la Corte si era dichiarata competente. Secondo tali giudici, dunque, affermare che, nel caso in esame, la Svizzera potesse essere ritenuta responsabile anche di violazioni di tipo sostanziale rappresentava un’eccessiva estensione della tutela che doveva essere garantita da tale Stato agli individui sottoposti alla sua giurisdizione.

In realtà neanche tale ragionamento sembra in linea con la giurisprudenza della Corte EDU. Nell’esame svolto in punto di giurisdizione in situazioni in cui la Convenzione ha trovato applicazione indiretta, infatti, emerge che la Corte, nel dichiararsi competente a statuire su un determinata controversia, non abbia mai fatto riferimento alla natura delle presunte violazioni (solo procedurali o anche sostanziali). Inoltre, nel già citato caso Platini, la Corte si è dichiarata competente a conoscere della controversia nonostante la violazione lamentata riguardasse l’art. 8 della CEDU (anche se poi il ricorso è stato rigettato poiché dall’esame dei fatti è emerso che la Svizzera non era venuta meno agli obblighi derivanti dalla Convenzione).

Sulla base di quanto appena rilevato, sembra dunque corretto affermare che i fatti all’origine della decisione della Corte nel caso Semenya hanno effettivamente posto la Svizzera nella condizione di garantire alla ricorrente i diritti e le libertà enunciati dalla CEDU ai sensi dell’art. 1 e ciò, di conseguenza, ha determinato che un’eventuale violazione della Convenzione rientra nella giurisdizione della Corte ai sensi dell’art. 19. Tale conclusione, appare peraltro in linea con quanto sostenuto dalla dottrina, che ha posto in luce la pretesa universalità della Convenzione europea dei diritti dell’uomo: essa si applicherebbe a chiunque sia sottoposto alla giurisdizione di uno Stato contraente (v. Schabas, op. cit., pp. 91 – 92) a qualsiasi titolo ciò accada (Sapienza, in Bartole, De Sena, Zagrebelsky, p. 17 – 18).

5. Riconosciuta la giurisdizione della Corte, la seconda questione di interesse in questa sede riguarda l’ampiezza del sindacato che essa può svolgere sull’interpretazione del concetto di ordine pubblico svolta dall’autorità giurisdizionale nazionale di uno Stato contraente la CEDU e sull’esame della compatibilità di un lodo arbitrale internazionale con tale parametro. Peraltro, le riflessioni che seguono valgono anche con riferimento ai procedimenti di riconoscimento ed esecuzione delle decisioni arbitrali straniere laddove instaurati davanti alle autorità giurisdizionali di Stati contraenti la CEDU: da un lato, infatti, anche la disciplina in punto di exequatur di decisioni arbitrali prevede come motivo ostativo al riconoscimento e all’esecuzione la contrarietà con l’ordine pubblico dello Stato richiesto (art. V Convenzione di New York) e, dall’altro, anche nell’ambito di detti procedimenti, secondo giurisprudenza consolidata, le disposizioni della CEDU devono trovare applicazione «indiretta» (v. supra, par. 4)

Nel caso in esame, come già brevemente illustrato, la Corte EDU ha ritenuto di sanzionare la Svizzera per aver svolto un controllo del lodo troppo ristretto («contrôle très restreint») e per non aver, per questo motivo, sufficientemente garantito i diritti previsti dalla CEDU. Con il richiamo all’esame – «ristretto» – svolto dal Tribunale elvetico, la Corte sembra riferirsi all’interpretazione data da quest’ultimo alla nozione di ordine pubblico prevista dall’art. 190 LDIP: in diversi punti della sentenza, viene infatti rimarcato che, a causa del suo approccio restrittivo, la Corte svizzera detiene un potere di controllo sul lodo arbitrale molto limitato e che questo ha comportato un’ingiustificata soppressione dei diritti garantiti dalla CEDU alla ricorrente.

Pur avendo la giurisprudenza di Strasburgo riconosciuto che il controllo limitato svolto su altri lodi arbitrali resi dal TAS non abbia impedito al Tribunale federale di effettuare un esame compatibile con l’articolo 6 (v. Bakker c. Suisse, 26 settembre 2019, ricorso n. 7198/07, par. 47) e con l’articolo 8 (Platini, cit., par. 70) della Convenzione, essa non ha raggiunto le medesime conclusioni nel caso in esame. La Corte ha infatti osservato che il Tribunale federale svizzero non ha effettuato un esame completo e sufficiente della doglianza di discriminazione, né un’adeguata ponderazione di tutti gli interessi in gioco, poiché siffatto esame non sarebbe rientrato nella nozione di ordine pubblico come interpretata dal medesimo Tribunale. Essa ha pertanto concluso sostenendo che, per effettuare un esame compatibile con i requisiti posti dalla CEDU, la Corte suprema svizzera avrebbe dovuto rispondere in modo più approfondito alle questioni sottoposte al suo vaglio, in particolar modo con riferimento al tema degli effetti collaterali dei trattamenti ormonali previsti dal Regolamento DSD. Inoltre, la Corte ha aggiunto che, se il controllo limitato esercitato dal Tribunale federale può essere giustificato nel campo dell’arbitrato commerciale, dove le imprese sono generalmente poste su un piano di parità e accettano volontariamente di devolvere le loro controversie agli arbitri, tale controllo restrittivo può rivelarsi più problematico nel campo dell’arbitrato sportivo, dove gli individui si trovano di fronte a organizzazioni sportive che sono spesso molto potenti. Con tale ultima affermazione, non meglio precisata dalla Corte, essa sembra riferirsi alla struttura altamente gerarchica del sistema di giustizia sportiva da cui discende l’idea che, alla luce di tale caratteristica del sistema, pare a maggior ragione necessario garantire l’applicazione delle garanzie della CEDU in tale ambito, così da evitare che la protezione giudiziaria garantita agli sportivi professionisti sia minore rispetto alle persone che esercitano un mestiere più convenzionale.

Tale decisione pare criticabile sotto diversi profili: in primo luogo, dalla pronuncia della Corte sembra discendere una compressione della discrezionalità degli Stati rispetto all’interpretazione della nozione di ordine pubblico; in secondo luogo, la Corte non sembra riconoscere che un controllo ristretto delle autorità statali su un lodo arbitrale internazionale pare in linea con la natura stessa e gli obiettivi del meccanismo arbitrale.

Quanto al primo aspetto, occorre fare alcune precisazioni. L’ordine pubblico, com’è noto, viene fatto coincidere con quell’insieme di principi che in un certo momento storico definiscono l’identità ordinamentale di uno Stato. Nella sua dimensione internazionalprivatistica esso viene definito «ordine pubblico internazionale» e rappresenta quella clausola generale che tende ad escludere l’applicazione di norme o il riconoscimento e l’esecuzione di decisioni straniere confliggenti, nel caso concreto, con un nucleo di principi – etici, politici, sociali ed economici – fondamentali nell’ordinamento del foro (ex multis, Barile, voce Ordine pubblico (diritto internazionale privato), in Enc. Dir., XXX, Milano, 1980, p. 1106 ss.; Feraci, p. 27 ss.; Mosconi e Campiglio, p. 302 ss.; Perlingieri e Zarra, p. 23 ss.). Da tempo è ormai riconosciuto che nella nozione di ordine pubblico possono rientrare principi o norme di matrice sovranazionale, quali le norme a tutela dei diritti fondamentali (si vedano, a titolo esemplificativo, con riferimento alle garanzie processuali sancite dall’art. 6 CEDU, la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Krombach c. Bamberski, 28 marzo 2000, in causa C-7/98; e la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, Pellegrini c. Italia, 20 luglio 2001, ricorso n. 30882/96) o i principi e le disposizioni di diritto dell’Unione europea considerati indispensabili (v. Corte di Giustizia dell’Unione europea, Eco Swiss c. Benetton International, 1 giugno 1999, in causa C-126/97). Tuttavia, anche dinnanzi all’emersione di principi e valori comuni di matrice sovranazionale, la dottrina maggioritaria continua a rimarcare la natura puramente interna del concetto di ordine pubblico, che mantiene la sua tradizionale funzione di «difesa» della coerenza e dell’armonia di ciascun ordinamento giuridico statale (Feraci, op. cit., p. 7): tali valori e principi «sovranazionali» possono cioè concorrere a riempire di significato tale concetto astratto soltanto laddove siano integrati nell’ordine pubblico interno e possano dunque considerarsi identificativi di un dato ordinamento statale (v., inter alia, Fumagalli, p. 654; Bertoli, p. 484; Perlingieri e Zarra, op. cit., p. 24 ss.). Ad oggi, la clausola di ordine pubblico funge dunque da difesa non solo di principi puramente interni ma anche della coerenza di un sistema la cui base è rappresentata da quei principi fondamentali e indispensabili, che segnano la partecipazione di ciascuno Stato ad una «comunità di valori» che in quei principi (e nei valori da essi promossi) si riconosce.

Se, come detto, l’esame del rispetto dell’ordine pubblico è prerogativa tipicamente interna che spetta al giudice domestico e che rientra nella sua discrezionalità – trattandosi di un concetto per sua natura indeterminato e il cui contenuto viene precisato in concreto a seconda della funzione cui esso è preordinato (Feraci, op. cit., p. 8 – 9) – stupisce che la Corte EDU abbia riscontrato una violazione della Convenzione da parte della Svizzera per la ponderazione, svolta dalla suprema Corte elvetica, dei diritti e degli interessi in gioco nel caso di specie. La Corte, infatti, rivendicando il proprio ruolo di guardiana dell’ordine pubblico europeo, ha «preteso» l’applicazione delle disposizioni della CEDU nell’ambito dell’esame, svolto in sede di impugnazione di un lodo arbitrale internazionale, sulla compatibilità di quest’ultimo con l’ordine pubblico svizzero e non ha considerato che spettava al Tribunale federale svizzero bilanciare in concreto secondo il proprio apprezzamento alcuni diritti garantiti dalla CEDU con il diritto ad un’equa competizione nella categoria femminile, il quale, seppur non previsto esplicitamente dalla Convenzione, non per questo riveste un ruolo di secondaria importanza.

È infatti generalmente riconosciuto che, nel riempire di contenuto nel caso concreto la clausola generale di ordine pubblico, il giudice interno è tenuto a bilanciare secondo ragionevolezza i diversi principi che entrano in gioco, siano essi di matrice nazionale o sovranazionale, determinando quale, tra i valori promossi da detti principi debba prevalere nel caso concreto (v. Zarra e Perlingieri, op. cit., p. 57 ss.). Nell’operazione di bilanciamento, oltre alle peculiarità del caso specifico e i principi identificativi di ciascun ordinamento giuridico, devono essere presi in considerazioni anche i vincoli imposti dal diritto internazionale e dal diritto dell’Unione europea, senza però che ciò faccia venir meno il margine di apprezzamento che è riconosciuto a ciascuno Stato nell’attuazione dei diritti fondamentali riconosciuti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Zarra e Perlingieri, op. cit., p. 59). Nell’applicazione della CEDU, viene infatti riconosciuto agli Stati contraenti uno spazio di manovra, per consentir loro di bilanciare l’adempimento degli obblighi convenzionali con la tutela di altre esigenze statali. Tale prerogativa è stata peraltro più volte riconosciuta dalla stessa Corte EDU nelle sue pronunce (v., ex pluribus, Handyside c. Regno Unito, 7 dicembre 1976, ricorso n. 5493/72 e Sapienza, Sul margine d’apprezzamento statale nel sistema della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Riv. dir. int., 1991, p. 571 ss.; Arai-Takahashi).

Con tali affermazioni non si vuole sostenere che le disposizioni della Convenzione non debbano concorrere nella determinazione del concetto di ordine pubblico di uno Stato contraente la CEDU (Benedettelli, op. cit., p. 657). Tuttavia, quello che emerge da tale pronuncia è che la Corte – invece che rimarcare il fatto che il giudice interno rappresenta colui cui è affidata prima facie la garanzia dei diritti sanciti dalla CEDU, ricordando che la Convenzione è parte del sistema delle fonti degli Stati contraenti e che le sue disposizioni dovrebbero contribuire alla definizione di ordine pubblico in ciascuno degli Stati contraente – sembra volersi appropriare della prerogativa di definire il contenuto dell’ordine pubblico attribuendosi il compito di garantire il corretto utilizzo di tale meccanismo da parte del giudice interno.

Il ragionamento svolto nella pronuncia in commento appare dunque problematico sotto questo profilo: la Corte EDU sembra infatti imporre alla Svizzera quale diritto debba prevalere sull’altro, di fatto limitando significativamente quella libertà degli Stati contraenti – che la stessa Corte e la Convenzione tutelano in qualche misura – di stabilire quali siano i propri valori fondamentali e di decidere le modalità per tutelarli. Nel suo ragionamento, la Corte pretende l’applicazione delle disposizioni della CEDU, quasi come se fossero gerarchicamente superiori a quelle che tutelano gli altri interessi e diritti in gioco e a prescindere dalle peculiarità del caso concreto, limitandosi a porre l’accento sul fatto che il controllo svolto dall’autorità giurisdizionale svizzera non sia compatibile con le esigenze della Convenzione e senza guardare nel merito all’operazione di bilanciamento in concreto che il Tribunale federale ha effettivamente svolto.

Invero, la Corte sembra quasi arrivare a sostenere che, a causa del potere di riesame limitato nelle mani del giudice svizzero, non sembri possibile che tale giudice, nell’ambito dell’impugnazione di un lodo arbitrale, possa arrivare a pronunciare l’annullamento di detto lodo per la sua contrarietà con l’ordine pubblico. Tale argomentazione   si scontra con il fatto che il Tribunale federale ha in realtà in passato mostrato una certa sensibilità rispetto alla questione dell’ordine pubblico. In un precedente caso, infatti, la corte elvetica ha annullato un lodo arbitrale reso dal TAS, con cui era stata confermata una sanzione irrogata dal Comitato Disciplinare della FIFA che prevedeva l’interdizione del calciatore brasiliano Matuzalem da qualsiasi attività calcistica poiché il club di sua precedente appartenenza non era stato risarcito del danno derivante dalla prematura risoluzione del contratto (risarcimento che sarebbe spettato al club in cui il calciatore si era trasferito) e questi non aveva provveduto a pagare la multa a lui comminata per il mancato pagamento di quanto dovuto al primo club. Investita della questione, la Corte suprema svizzera ha ricordato che la personalità umana, in quanto bene giuridico fondamentale, deve essere tutelata dalla legge e ha sottolineato che, oltre al diritto all’integrità fisica e mentale e alla libertà di circolazione, essa comprende anche la libertà economica, che garantisce la libera scelta di una professione e il libero accesso a un’attività economica (privata) e il suo esercizio. Pertanto, esso ha annullato il lodo del TAS, ritenuto incompatibile con l’ordine pubblico svizzero (v. sentenza Matuzalem, Tribunale Federale, 27 marzo 2012, 4A_558/2011).

Tutte queste riflessioni consentono di concludere che, il sindacato della Corte EDU si è effettivamente spinto un po’ troppo in là, determinando l’interferenza della Corte EDU nell’interpretazione del concetto di ordine pubblico, concetto per la cui delimitazione i giudici domestici mantengono un margine di apprezzamento che consente loro di bilanciare, secondo la loro discrezionalità, i diritti e principi che entrano in gioco nel caso concreto.

Infine, un ulteriore profilo rende criticabile la compressione della discrezionalità degli Stati contraenti la CEDU realizzata dalla Corte: imponendo loro, in qualche misura, un controllo «stringente» sui lodi arbitrali internazionali essa non sembra infatti tenere in debita considerazione le caratteristiche, gli obiettivi e la natura del meccanismo arbitrale internazionale.

Invero, la stretta correlazione del concetto di ordine pubblico con un ordinamento giuridico statale ha, da sempre, reso i rapporti tra arbitrato e ordine pubblico una questione complessa (v. Arfazadeh, p. 129 ss.; Zarra, p. 539 ss.). Invero, come già sottolineato, l’ordine pubblico è un concetto strettamente collegato ad un ordinamento statale specifico, laddove, invece, l’arbitrato internazionale non rappresenta il prodotto della società statale, bensì una particolare forma di auto-organizzazione che prescinde dall’appartenenza ad un dato ordinamento giuridico: i tribunali arbitrali non sono organi di Stato, ma traggono la loro investitura dall’autonomia delle parti (Luzzatto, Arbitrato commerciale internazionale, in Dig. comm., I, Torino, 1987, 199. Per tutte le specificità dell’arbitrato internazionale v., generalmente, Born). Ciò vale anche con riferimento all’arbitrato internazionale sportivo: come sostenuto in dottrina, il fenomeno sportivo è «per propria natura, idoneo a svolgersi in ambienti sociali non separatamente riconducibili a quelli dei diversi ordinamenti statali» (Fumagalli, p. 488).

In tale contesto, trovandosi una corte domestica a vagliare la compatibilità con l’ordine pubblico – questione fortemente legata all’ordinamento statale – di sentenze rese da meccanismi arbitrali che presentano gli elementi di internazionalità ed autonomia rispetti agli ordinamenti domestici pocanzi evidenziati, pare sensato che l’autorità giurisdizionale decida di interpretare restrittivamente il concetto di ordine pubblico.  Se è infatti generalmente riconosciuto in dottrina che, in quanto limite all’ingresso di valori esterni in un dato ordinamento, l’ordine pubblico dovrebbe costituire un istituto assolutamente eccezionale (Feraci, op. cit., p. 9), una tale conclusione non può che valere a maggior ragione quando l’esame sulla compatibilità con l’ordine pubblico sia svolto con riferimento ad un arbitrato internazionale. È infatti riconosciuto in dottrina che, da un lato, un controllo eccessivamente ampio sul lodo sarebbe inconciliabile con il divieto di revisione nel merito, principio che viene interpretato in modo sempre più stringente (Radicati di Brozolo, p. 633); dall’altro, ciò si porrebbe in contrasto con l’idea dell’arbitrato internazionale come di un meccanismo che gode del riconoscimento internazionale, in grado di produrre una decisione efficace,  idonea a resistere alle impugnazioni e capace di circolare secondo quanto previsto dalla Convenzione di New York (v. Arfazadeh, op. cit., p. 153, il quale, con riferimento all’ordine pubblico come previsto dall’art. V(2)(b) della Convenzione di New York, ma facendo una considerazione che sembra valere anche nei casi di impugnazione del lodo arbitrale internazionale, ha sostenuto «le grief de l’ordre public (…) revête une spécificité propre et doive recevoir une interprétation restrictive adaptée au domaine de l’arbitrage international»).

Peraltro, un’ulteriore spiegazione sembra militare a favore dell’interpretazione restrittiva del concetto di ordine pubblico ex art. 190 LDIP (Bucher, op. cit., par. 105 ss.): tale disposizione, infatti, come tutto il Capitolo 12 della LDIP, si applica soltanto ai lodi arbitrali «internazionali», vale a dire quei lodi che riguardano controversie in cui almeno una delle parti non aveva né la residenza abituale né il domicilio in Svizzera al momento della conclusione della clausola compromissoria (art. 176 LDIP) e che presentano, di conseguenza, un collegamento ristretto con la Svizzera. Invero, come rimarcato dalla Corte di Strasburgo, l’interpretazione restrittiva della nozione di ordine pubblico riflette una precisa scelta del legislatore svizzero, volta ad aumentare l’attrattiva dell’arbitrato internazionale, scelta che risulta legittima e proporzionata rispetto allo scopo perseguito (Mutu et Pechstein, cit. par. 97 – 98)

6. Sulla base dell’analisi svolta è possibile affermare, in conclusione, che la Corte europea dei diritti dell’uomo pare effettivamente svolgere sempre più di frequente il ruolo di giudice di ultima istanza nel caso di controversie in materia sportiva sottoposte al Tribunale Arbitrale dello Sport. La sede del TAS a Losanna determina infatti la possibilità di impugnazione del lodo dinnanzi al Tribunale federale svizzero e ciò, a sua volta, comporta la giurisdizione della Corte EDU. Tale conclusione non sembra tuttavia presentare profili di problematicità: la CEDU infatti non si applica di per sé nell’arbitrato, ma risulta applicabile quando il lodo viene impugnato davanti ai giudici svizzeri, i quali, in quanto autorità giurisdizionale di uno Stato contraente la CEDU, devono garantire i diritti da questa tutelati. È chiaro, tuttavia, che questa circostanza impone in qualche misura un’applicazione indiretta della Convenzione all’arbitrato sportivo amministrato dal TAS in quanto un lodo arbitrale non conforme ai principi della CEDU correrebbe il rischio di essere annullato nel giudizio di impugnazione davanti al Tribunale federale elvetico. L’applicazione delle garanzie della CEDU anche agli arbitrati sportivi che presentano minimi collegamenti con uno Stato parte della Convenzione non sembra creare grandi problemi: da un lato, infatti, i ricorrenti traggano solitamente vantaggio dalla possibilità di sottoporre le questioni di diritto sportivo alla Corte EDU, dall’altro, tale circostanza è peraltro causata dalla scelta delle organizzazioni sportive di rendere obbligatorio l’arbitrato davanti al TAS e una tale conseguenza, seppure non inizialmente prevista e voluta, appare ora inevitabile.

Quanto affermato, tuttavia, non comporta e non deve comportare un’interferenza della Corte EDU nell’interpretazione della clausola di ordine pubblico offerta da uno Stato contraente la CEDU (in questo caso dalla Svizzera). Posto che le garanzie della CEDU concorrono senz’altro a plasmare il contenuto concreto di tale clausola generale, il bilanciamento tra i diversi diritti che entrano in gioco nel caso concreto rimane nella discrezionalità del giudice interno. Con riferimento a tale ultimo aspetto, il ragionamento svolto dalla Corte EDU nel caso in commento presenta dunque alcuni profili di criticità precedentemente affrontati. In sostanza, dalla (in parte criticabile) pronuncia in commento, sembra emergere l’idea, promossa dalla Corte stessa, che la protezione dei valori garantiti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo sia diventata una condizione di riconoscibilità e di possibilità di circolazione delle sentenze e dei lodi arbitrali a prescindere dal margine di apprezzamento da sempre riconosciuto agli Stati contraenti per bilanciare l’adempimento degli obblighi convenzionali con la tutela di altri valori o esigenze statali. L’obiettivo, in questo senso, sembra sempre di più quello di costituire «una comunità internazionale di valori» (v. Biagioni, in Annoni, Forlati e Franzina, p. 693 ss.) di cui la Corte europea dei diritti dell’uomo si erge a «garante supremo» e il cui sindacato si estende in maniera importante sia sull’operato del giudice interno.

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