La «vittima» ai sensi dell’art. 34 CEDU, tra flessibilità e rischi di imprevedibilità. Il contrasto tra le recenti decisioni M.A. e altri c. Francia e A.M. e altri c. Polonia
Lorenzo Acconciamessa (Università di Palermo; membro della redazione)*
1. Il 31 agosto 2023 la Corte europea dei diritti umani (di seguito anche solo “la Corte) ha pubblicato la propria decisione di ammissibilità nel caso M.A. e altri c. Francia, che riunisce i ricorsi di 261 donne e uomini di varie nazionalità che esercitano in Francia, volontariamente, l’attività di prostituzione (di seguito “sex workers”). Dinnanzi alla Corte si lamentano della legge n. 2016-444 del 13 aprile 2016, la quale ha introdotto nell’ordinamento francese il reato di «achat de relations de nature sexuelles», che sanziona penalmente i clienti della prostituzione, allo stesso tempo abrogando il delitto di «racolage public». Secondo l’impostazione prospettata nel ricorso, tale legge violerebbe gli artt. 2 e 3 della Convenzione europea dei diritti umani (di seguito CEDU o ‘la Convenzione’) in quanto, relegando l’attività di prostituzione alla clandestinità e i sex workers all’isolamento, ne metterebbe in pericolo la vita e l’integrità fisica, facilitando violenze e soprusi perpetrati ai loro danni da parte dei clienti, che resterebbero più facilmente impuniti. Inoltre, la criminalizzazione di coloro che usufruiscono dell’attività di prostituzione, sia pur tra adulti consenzienti e in spazi puramente privati, violerebbe il diritto all’autonomia personale e la libertà sessuale dei sex workers, garantiti dall’art. 8 CEDU.
La Corte ha concluso per l’ammissibilità del ricorso, ritenendo che le ricorrenti e i ricorrenti possano considerarsi «vittime», ai sensi dell’art. 34 CEDU, delle violazioni lamentate. E questo nonostante, come si vedrà, essi non siano i diretti destinatari della legislazione in questione, la quale non è stata applicata né può essere applicata nei loro confronti in quanto sex workers, e che pur non richiede loro di modificare le proprie condotte.
Bisogna in apertura sottolineare che la decisione stupisce non solo per l’approccio particolarmente estensivo adottato, come si vedrà, quanto all’accertamento dello status di vittima; dal punto di vista di politica giudiziaria, sembra infatti evidente il rilievo che la stessa Corte ha voluto attribuirle. Ed infatti, ormai solo raramente, e in casi particolarmente complessi o di risalto mediatico, la Corte adotta una decisione autonoma sull’ammissibilità del ricorso, rinviando a un successivo momento la sentenza sul merito.
In questa sede, dopo aver ricostruito il contenuto della decisione (Sezione 2), si mostrerà come in essa la Corte abbia fatto di ricorso a una nozione ancora piuttosto oscura nella propria giurisprudenza, che potrebbe definirsi come «vittima collaterale» di una misura (legislativa, in questo caso ma, in alcuni precedenti, esecutiva o giudiziaria) diretta nei confronti di altri soggetti, e non del ricorrente (Sezione 3). In generale, può dirsi che un ampliamento della nozione di vittima è un esito da guardare con favore, nell’interesse alla maggiore tutela del diritti garantiti dalla Convenzione. Tuttavia, ciò che sorprende a un più attento esame è il contrasto tra standard diversi di accertamento dello status di vittima, che non sembrano sempre fondarsi su criteri oggettivi e prevedibili. In particolare, in una decisione resa solo pochi mesi prima, nel caso A.M. e altri c. Polonia, la Corte aveva adottato un approccio estremamente più restrittivo (Sezione 4). La breve analisi qui realizzata porta a ritenere che il ricorso a standard diversi di accertamento dell’ammissibilità ratione personae, in assenza di chiari criteri che li giustifichino, rischia di trasformare la flessibilità inerente alla nozione di «vittima» in un fattore di imprevedibilità dell’esito dei ricorsi a Strasburgo.
Al riguardo, bisogna ricordare che, nella giurisprudenza della Corte, è consolidato il principio secondo cui lo status di «vittima» ai sensi dell’art. 34 della Convenzione, su cui si fonda la legittimazione a proporre ricorso, è una nozione autonoma, indipendente dalle regole di diritto interno in materia di capacità o legittimazione ad agire (Lambert e altri c. Francia [GC] 2015, par. 89; Mukhin c. Russia, 2021, par. 157). Tale nozione deve essere applicata in modo non rigido, meccanico e inflessibile, senza eccessivo formalismo, e tale da garantire l’esercizio pratico ed effettivo, e non teorico ed illusorio, del diritto di ricorso individuale (Stukus e altri c. Polonia, 2008, par. 35; Gorraiz Lizarraga e altri c. Spagna, 2004, par. 35). L’art. 34, come le altre disposizioni della Convenzione, deve essere interpretato in modo evolutivo e in linea con gli sviluppi nella società (Akdeniz e altri c. Turchia, 2021, par. 56). In ogni caso, qualsiasi nozione di vittima sia applicata (diretta, indiretta o potenziale, su cui si veda infra) «il doit exister un lien entre le requérant et le préjudice qu’il estime avoir subi du fait de la violation alléguée» (Akdeniz c. Turchia, 2014, par. 21). Inoltre, la Corte ha chiarito che, anche in materia di accertamento dello status di vittima, la distribuzione dell’onere della prova e il livello di persuasività degli elementi portati alla sua attenzione dipendono intrinsecamente dalla specificità dei fatti, dalla natura delle violazioni lamentate e dai diritti in gioco (N.D. e N.T. c. Spagna [GC], 2020, par. 85). È allora alla luce di tali principi che la decisione deve essere esaminata, tanto isolatamente quanto in relazione al resto della giurisprudenza.
2. Nella decisione nel caso in esame, M.A. e altri c. Francia, la Corte ha ribadito il principio secondo cui l’art. 34 CEDU non conferisce un diritto all’actio popularis (par. 32 della decisione): esso non consente di lamentarsi in astratto di norme di legge o prassi amministrative che non incidano, in modo diretto o indiretto, o anche potenziale, sui diritti del soggetto che presenta il ricorso (Aksu c. Turchia [GC], 2012, par. 50).
Si ricordi che da ciò derivano due conseguenze (sul punto, si veda più ampiamente Voeffrey, 2014). Dal punto di vista della legittimazione ad agire, il ricorrente deve essere, salve le eccezioni che si vedranno a breve, “toccato direttamente” («directly affected») dalla misura contestata, adottata nei propri confronti (Tãnase c. Moldavia [GC], 2010, par. 104). A tal fine, non è in principio sufficiente rientrare tra i soggetti inclusi nel campo di applicazione di una disposizione di legge, in assenza di una misura applicativa concreta nei confronti di chi presenta il ricorso. Dal punto di vista dell’oggetto del giudizio, la Corte non esamina in astratto la compatibilità della misura con la Convenzione, ma il modo in cui la sua applicazione nel caso concreto incide sui diritti del ricorrente (Naumenko and Sia Rix Shipping c. Lettonia, 2022, par. 56; sul punto, sono sempre più spesso rinvenibili eccezioni, su cui si veda tra tutte L.B. c. Ungheria [GC], 2023, par. 130).
Tornando al caso M.A. e altri, la Corte ha escluso che la situazione fosse inquadrabile nella nozione di vittima diretta, almeno per come tradizionalmente interpretata. Essa ha rilevato come «les requérants ne se plaignent pas d’une mesure individuelle qui, prise contre eux, aurait directement affecté leurs droits» (par. 36 della decisione). Ed infatti, le vittime dirette, nel significato sopra richiamato, sarebbero i destinatari della legislazione in questione, ossia i “clienti”, nell’ipotesi in cui fossero condannati per aver ottenuto prestazioni sessuali dietro il pagamento di un corrispettivo. Essi potrebbero, ad esempio, sostenere che la norma che sanziona penalmente il ricorso alla prostituzione costituisca un’ingerenza sproporzionata nel diritto alla vita privata, il quale ricomprende anche il diritto alla libertà sessuale (si vedano, ad esempio, Chocholač c. Repubblica slovacca, 2022, par. 53; Beizaras e Levickas c. Lituania, 2020, par. 109; e Van Kuck c. Germania, 2003, par. 78). I ricorrenti del caso in commento, invece, non rientrano in quanto tali nel campo di applicazione della disposizione; a maggior ragione, nessuna applicazione ne è fatta nei loro confronti, né ciò sarebbe possibile, in quanto essa non vieta lo svolgimento dell’attività di prostituzione in sé.
La Corte ha altresì escluso che nel caso di specie i ricorrenti fossero vittime indirette, in quanto, secondo la loro stessa prospettazione, essi «ne soutiennent pas que les individus qui, comme eux, s’adonnent à la prostitution, tirent leur qualité de victime de celle d’autres qu’eux-mêmes» (par. 37 della decisione). Tale qualità è infatti riconosciuta a coloro cui, pur non essendo destinatari della misura contestata, «the violation would cause harm or who would have a valid and personal interest in seeing it brought to an end» (Vallianatos e altri c. Grecia [GC], 2013, par. 47). Nel caso della vittima indiretta, dunque, la violazione si produce nei confronti di un altro soggetto, e il soggetto che presenta il ricorso ne subisce un danno come conseguenza o, in ogni caso, riesce a dimostrare di essere interessato a porvi fine. Tradizionalmente, tale status è stato riconosciuto agli stretti congiunti di soggetti deceduti o scomparsi prima dell’introduzione del ricorso, proprio allo scopo di lamentare le circostanze del decesso o della scomparsa (Varnava e altri c. Turchia [GC] 2012, par. 112).
È vero che la nozione di interesse a porre fine alla violazione nei confronti di altri è interpretata in modo sempre più espansivo. Ma, in ogni caso, tale interesse non era riscontrabile nel caso dei sexworkers francesi. I ricorrenti, che sicuramente non sono stretti congiunti dei propri possibili clienti, lamentavano una violazione indipendente da quella che sarebbe ipotizzabile in capo ai clienti stessi.
La Corte ha quindi esaminato se la posizione dei ricorrenti fosse inquadrabile nella nozione di vittima futura o potenziale (la distinzione tra le due categorie non ha, di fatto, rilevanza nella giurisprudenza; v. Saccucci, p. 639) Si ricordi che a tale nozione si fa ricorso quando, pur in assenza di una misura adottata ed eseguita nei confronti del soggetto che presenta il ricorso, quest’ultimo riesce a fornire «reasonable and convincing evidence of the likelihood [probabilità] that a violation affecting them personally would occur; mere suspicion or conjecture is insufficient in this respect» (Shortall e altri c. Irlanda, 2021, par. 48, Centre for Legal Resources on behalf of Valentin Câmpeanu c. Romania [GC], 2014, par. 101). Lo status di vittima potenziale risulta principalmente riconosciuto in tre tipologie di casi: (1) quando il carattere segreto di misure di sorveglianza (Big Brother Watch e altri c. Regno Unito [GC], 2021, par. 467; Centrum för Rättvisa c. Svezia [GC], 2021, par. 167) o di trattamento di dati personali (Ekimdzhiev e altri c. Bulgaria, 2022, par. 377) impedisce al ricorrente di conoscere con certezza se e quando sia stato sottoposto a tali misure; (2) quando, pur precedentemente all’attuazione di misure come l’espulsione o estradizione di stranieri (Soering c. Regno Unito, 1989, par. 91) o la confisca di beni (The Holy Monasteries v. Greece, 1994, par. 65; ), non vi sono circostanze che indicano che tali misure non siano più eseguibili o che le autorità abbiano rinunciato ad eseguirle; e, da ultimo, (3) ove una legislazione nazionale, pur non essendo stata applicata nei confronti di un individuo, costringa quest’ultimo a modificare la propria condotta, dietro minaccia di una sanzione penale. Tale ipotesi è stata ad esempio riscontrata con riferimento a leggi che criminalizzavano l’omosessualità (Dudgeon c. Regno Unito [Plenaria] 1981, par. 41; Norris c. Irlanda [Plenaria], 1988, par. 32-33), o che obbligavano un avvocato a fornire informazioni alle autorità, in violazione del proprio obbligo al segreto professionale (Michaud c. Francia, 2012, par. 51), o alla legislazione che vieta in Francia l’uso del velo in pubblico (S.A.S. c. Francia [GC], 2014, par. 57).
Tuttavia, nel caso di specie la Corte ha sottolineato come, a differenza che nei precedenti qui richiamati, «les personnes qui, tels les requérants, s’adonnent à la prostitution, ne se trouvent pas obligées de changer de comportement “sous peine de poursuites” du fait de cette législation» (par. 38 della decisione). Infatti, i ricorrenti non sono destinatari della norma. Sono i loro clienti ad essere vittime potenziali delle conseguenze della stessa, essendo costretti a modificare il proprio comportamento (non ricorrere a prestazioni sessuali dietro pagamento di un corrispettivo) allo scopo di evitare una sanzione penale.
All’esito di tale esame, che porterebbe ad escludere lo status di vittima dei ricorrenti, la Corte ha tuttavia ricordato che «le caractère “direct” des effets de la législation litigieuse sur la situation de la catégorie de personnes à laquelle appartient un requérant doit s’apprécier avec une certaine souplesse» (par. 39 della decisione; si veda anche Gorraiz Lizarraga e altri c. Spagna, 2004, par. 35, secondo cui «there must be a sufficiently direct link between the applicant and the harm which they consider they have sustained on account of the alleged violation»).
Essa ha quindi ritenuto che, pur non dirigendosi nei loro confronti, la norma di legge che vieta il ricorso alla prostituzione (sanzionandone i “clienti”) crea una situazione fattuale di cui i ricorrenti (i sex workers) subiscono direttamente gli effetti: in primo luogo, in quanto la criminalizzazione dell’acquisto di prestazioni sessuali suppone l’implicazione di chi venda quelle prestazioni («suppose l’implication des personnes prostituées»), senza che la Corte abbia chiarito cosa ciò voglia esattamente dire o quale conseguenza ne derivi; in secondo luogo, in quanto tale legge, secondo l’impostazione dei ricorrenti, li espone alla clandestinità e all’isolamento e, dunque, a dei rischi per la loro vita e integrità psicofisica, limitando altresì la loro libertà sessuale (par. 43 della decisione). Sulla base di ciò, la Corte ha concluso che i ricorrenti possono considerarsi vittime, ai sensi dell’art. 34, delle violazioni lamentate.
3. Il caso suscita interesse non solo, e non tanto, per le conclusioni raggiunte riguardo alla situazione oggetto del giudizio. La Corte, infatti, ha preso la propria decisione ritenendo di poter formulare, sulla base di due soli precedenti richiamati, il seguente principio:
«La Cour considère ainsi que des personnes qui allèguent que leurs propres droits au titre de la Convention sont affectés par une loi peuvent dans certaines circonstances se dire victimes d’une violation de ces droits alors même que la loi en question ne régit pas directement leur conduite, dès lors que cette loi génère une situation dont ils subissent directement les effets dans la jouissance de ces droits» (par. 42 della decisione).
Come anticipato sopra, sembra dunque che essa abbia espressamente ammesso che si possa essere vittime collaterali di una situazione generata da una norma di legge che si dirige nei confronti di altri soggetti, ma che produce una situazione in grado di incidere sul godimento dei diritti di chi non ne sia destinatario, ma presenta il ricorso a Strasburgo.
Al riguardo, bisogna innanzitutto chiarire che uno dei due precedenti richiamati dalla Corte non giustificava, a parere di chi scrive, tale conclusione. Nel caso Vallianatos e altri c. Grecia ([GC], 2013, par. 49) i ricorrenti erano coppie omosessuali, stabilmente conviventi, che lamentavano una discriminazione nel godimento del diritto alla vita familiare. In particolare, criticavano il fatto che una legge avesse introdotto il “patto di vita comune”, riservandolo alle sole coppie eterosessuali. La Corte aveva osservato come, pur non essendo destinatari della legislazione, i ricorrenti ne erano direttamente incisi e, quindi, avevano interesse a contestarla. In quel caso, però, era evidente la legittimazione a lamentarsi di una legge di cui non si era destinatari, proprio in quanto tale esclusione era l’oggetto della violazione lamentata. Ma si fa a fatica a vedere come tale precedente possa giustificare la formulazione del principio di cui sopra.
Più calzante è, invece, il richiamo al caso Open Door and Dublin Well Woman c. Irlanda (1992). Esso riguardava un’ingiunzione giudiziaria, adottata nei confronti di due ONG, che proibiva di fornire informazioni e supporto nei confronti di donne che intendessero recarsi all’estero per abortire. Oltre alle ONG, due donne avevano presentato ricorso, lamentando la violazione della libertà di ricevere informazioni, garantita dall’art. 10 CEDU. La Corte aveva riscontrato che, pur non essendo le due ricorrenti in stato di gravidanza, «they belong[ed] to a class of women of child-bearing age which may be adversely affected by the restrictions imposed by the injunction» (par. 33). Ciò era stato ritenuto sufficiente dalla Corte, la quale non aveva ritenuto di dover applicare il test della vittima potenziale richiedendo, ad esempio, prove ragionevoli e convincenti della possibilità di una violazione come, ad esempio, il fatto che le due ricorrenti, in stato di gravidanza, avessero richiesto informazioni sulla possibilità di abortire e si fossero viste rigettare la domanda in ragione dell’ingiunzione in questione.
Tale precedente è stato poi seguito o disconosciuto in una serie di casi successivi, anch’essi relativi al diritto di diffondere o condividere idee o informazioni. Nonostante non sia mai stato veramente chiarito in quali termini un soggetto possa lamentarsi di una misura – legislativa, esecutiva e giudiziaria – diretta nei confronti di altri, l’analisi di alcuni di tali casi può forse fornirci qualche indicazione.
Nel caso Otto-Preminger-Institut c. Austria (1994) l’associazione ricorrente lamentava, ai sensi dell’art. 10 della Convenzione, il sequestro e la successiva confisca di una pellicola di un film, dichiarato blasfemo dalle autorità. Pur non essendo proprietaria della pellicola, lo status di vittima è stato riconosciuto all’associazione, notandosi come la confisca «had the effect of making it impossible for it ever to show the film in its cinema in Innsbruck or, indeed, anywhere in Austria» (par. 40). In Tanrikulu, Cetin, Kaya e altri c. Turchia (2001) i ricorrenti contestavano il divieto di distribuzione di un quotidiano in una determinata regione del Paese. La Corte ha riconosciuto lo status di vittima a quelli, tra loro, che fossero giornalisti, ritenendo che «la mesure litigieuse a de réelles répercussions sur la façon dont les huit requérants suscités exercent leur fonction de journaliste». Quanto, invece, ai ricorrenti che agivano a titolo di lettori del giornale, le conseguenze “indirette” della misura non sono state ritenute sufficienti, essendosi concluso che «[l]e seul fait que ces derniers en subissent des effets indirects – d’ailleurs comme tous les lecteurs du quotidien résidant dans la région – ne saurait suffire pour les qualifier de “victimes”».
Da tali casi sembra potersi desumere che un criterio essenziale per riconoscere lo status di vittima a chi si lamenti di misure adottate nei confronti di altri soggetti è l’esistenza di ripercussioni reali (concrete e certe) sul godimento del diritto da parte di chi presenta il ricorso.
Tuttavia, come si evince anche dal caso da ultimo richiamato, tale criterio non è di per sé sufficiente. Ed infatti, nel caso Akdeniz c. Turchia (2014), relativo al divieto di accesso sul territorio nazionale a dei siti internet di condivisione di musica, il ricorrente si lamentava di tale decisione in qualità di frequentatore abituale degli stessi siti. La Corte ha ribadito che «le seul fait que le requérant – tout comme les autres utilisateurs en Turquie des sites en question – subit les effets indirects d’une mesure de blocage […] ne saurait suffire pour qu’il se voie reconnaître la qualité de “victime”» (par. 24). Tuttavia, ha anche chiarito che la conclusione avrebbe potuto essere diversa qualora i siti in questione non avessero scopi meramente commerciali (la diffusione di musica), ma fossero indispensabili alla partecipazione dell’individuo a dibattiti di interesse generale (par. 28). O, ancora, in Dimistras and others v. Greece (2017, par. 29) i ricorrenti contestavano una norma di legge che sanzionava penalmente la pubblicazione di sondaggi elettorali nei quindici giorni precedenti le elezioni. Essendo cittadini greci aventi diritto al voto, essi si lamentavano dell’impossibilità di accedere a tali informazioni. Tuttavia, la Corte aveva constatato che i ricorrenti non erano stati sanzionati in applicazione della legislazione in questione; inoltre, il fatto che, come tutti gli elettori greci, fosse loro impedito di accedere ai sondaggi elettorali nei quindici giorni precedenti le elezioni non è stato ritenuto sufficiente per renderli vittime della violazione del diritto a ricevere informazioni, garantito dall’art. 10 (par. 31). Più di recente, il caso Akdeniz e altri c. Turchia (2021) riguardava un divieto, derivante da un’ingiunzione giudiziale, di disseminare e pubblicare informazioni in merito ai lavori di una commissione parlamentare di inchiesta sulla possibile corruzione di quattro ex ministri. I ricorrenti, un giornalista e due accademici impegnati nel settore dei diritti umani, lamentavano una violazione del diritto di ricevere e condividere informazioni e idee. Lo status di vittima è stato riconosciuto alla ricorrente giornalista, in quanto l’ingiunzione le impediva di ricevere e pubblicare informazioni in merito a degli eventi rilevanti per l’opinione pubblica (par. 70). Quanto agli altri ricorrenti, invece, essi sono stati equiparati alla generalità dei cittadini sottoposti al divieto (par. 72), senza che vi fossero circostanze peculiari che dimostrassero, ad esempio, che avessero tentato di pubblicare delle opere in materia e che tale possibilità gli fosse stata negata (par. 73; per una critica a tale approccio, si veda Demir).
Dall’analisi di tale ulteriore giurisprudenza emerge, dunque, che non è sufficiente che la misura adottata nei confronti di altri soggetti abbia ripercussioni concrete sulla sfera della presunta vittima. Quest’ultima deve essere in grado di dimostrare di avere un interesse proprio e individuale a contestare tale misura, che deriva dall’appartenenza a una determinata categoria cui quell’interesse è generalmente ricondotto.
Ora, volendo applicare questi criteri al caso M.A. e altri c. Francia, il riconoscimento dello status di vittima sembra senz’altro giustificato con riferimento alla doglianza sollevata con riferimento all’art. 8 della Convenzione. La condotta vietata dalla norma di legge francese (acquistare relazioni sessuali dietro il pagamento di un corrispettivo) produce una conseguenza reale e diretta sulla sfera dei ricorrenti, che si vedono quanto meno ridotta la possibilità di fornire quelle prestazioni e che, esercitando detta attività, hanno sicuramente un interesse proprio a farlo, che li distingue dalla generalità della popolazione.
Ma, quanto alle doglianze sollevate ai sensi degli artt. 2 e 3 della Convenzione, può dirsi che la legge in questione produca delle «réelles répercussions» sul diritto alla vita e all’integrità fisica? Nelle decisioni qui esaminate, tali conseguenze erano definite come necessariamente dirette: ad esempio, l’impossibilità di fornire informazioni, in ragione del divieto di espresso fornirle, o della confisca del film che si aveva intenzione di mostrare. Al riguardo, l’unica conseguenza della legge francese è che l’attività di prostituzione sarà necessariamente svolta in condizione di clandestinità. Tuttavia, non può dirsi che sia provato in re ipsa il rischio che questo porti a maggiori violenze da parte dei clienti nei confronti dei sex workers, come conseguenza diretta della legge in questione. La Corte non ha quindi richiesto la prova di una “conseguenza reale e diretta”, ma si è accontentata di una conseguenza ulteriore della misura, peraltro non certa ma meramente plausibile. E ciò è stato ritenuto sufficiente a fondare lo status di vittima.
Questo approccio sembra trovare alcuni riscontri nella giurisprudenza. Ad esempio, il caso Grande Oriente era stato introdotto da un’associazione massonica. Quest’ultima si lamentava di una legge regionale che imponeva, per la candidatura a cariche pubbliche, di dichiarare l’appartenenza ad associazioni segrete come le logge massoniche, e sanciva l’incompatibilità tra tale appartenenza e la nomina alla carica. Il Governo aveva contestato lo status di vittima dell’associazione, rilevando come la norma non si dirigesse nei confronti della stessa e non incidesse sulla sua libertà di svolgere la propria attività, garantita dall’art. 11 CEDU. La Corte ha ritenuto, invece, che la legge in questione incidesse sulla vita associativa, in quanto implicava il “rischio” che alcuni dei suoi membri, per non incorrere nell’incompatibilità, abbandonassero l’associazione, nonché in ragione della possibile “perdita di prestigio” che ne derivava (Grande Oriente d’Italia di Palazzo Giustiniani v. Italy, 2001, par. 15). In un successivo caso introdotto dalla stessa associazione, ma in cui si lamentava il fatto che un simile obbligo di dichiarazione fosse discriminatorio, è stato analogamente ritenuto che i ricorrenti possedessero lo status di vittima, in ragione delle possibili “ripercussioni negative” della legge in questione sull’attività dell’associazione (Grande Oriente d’Italia di Palazzo Giustiniani (n. 2) v. Italy, 2007, par 20).
Come nel caso M.A. e altri c. Francia, quindi, la Corte si è accontentata di conseguenze “plausibili” ma, certamente, non supportate da “prove ragionevoli e convincenti” della loro “possibilità”. Tuttavia, posta anche la diversità notevole tra le situazioni fattuali, i diritti invocati e gli interessi in gioco, non risulta chiaro in quali casi la Corte si accontenti della plausibilità e in quali, invece, richieda prove concrete della possibilità di una violazione.
4. Ora, nulla esclude che la Corte possa e voglia abbassare lo standard di accertamento del nesso, necessario al fine del riconoscimento dello status di vittima, che deve sussistere tra ricorrente e violazione lamentata. Anzi, nell’interesse alla tutela effettiva dei diritti umani ciò potrebbe anche essere auspicabile (salve le ovvie ripercussioni sul carico di lavoro della Corte). Tuttavia, ciò che stupisce è che, quando si tratta di soggetti che sono i diretti destinatari di una disposizione legislativa, la Corte non si accontenta della mera plausibilità delle conseguenze. Sulla base del noto test della vittima potenziale, essa richiede prove ragionevoli e convincenti della probabilità di una futura violazione.
È emblematica al riguardo una decisione di poco precedente a quella qui commentata, resa il 16 maggio 2023 nel caso A.M. e altri c. Polonia. Le ricorrenti – donne in età fertile, alcune delle quali in stato di gravidanza – si lamentavano, ai sensi degli artt. 3 e 8 CEDU, della decisione della Corte costituzionale polacca che aveva abrogato la norma che consentiva l’aborto terapeutico in caso di malformazioni del feto. Esse sostenevano che «as women of child-bearing age, they had been affected by the changes to the legislative framework as they had had to adjust their conduct in the most intimate sphere of personal life» (par. 75), in quanto di fatto obbligate a portare a termine una gravidanza anche in caso di possibili malformazioni (par. 76). La Corte ha riconosciuto che in Open Door and Dublin Well Woman la nozione di «nesso diretto» era stata definita in termini particolarmente ampi. Tuttavia, senza fornire una vera motivazione, ha ritenuto, che pur essendo le ricorrenti di fatto esposte al rischio di gravidanze con malformazioni fetali, nel caso di specie «the class of persons who can claim to be “victims” of such a violation must necessarily be much narrower» (par. 78): manca, però, la ragione sul perché debba essere tale. Così, unendo il test in questione a quello della vittima potenziale, la Corte ha quindi richiesto che vi fossero prove ragionevoli e convincenti della probabilità che una violazione si producesse in futuro. In proposito, ha notato che le donne che affermavano di avere patologie implicanti rischi di malformazioni fetali non avevano fornito prove al riguardo (par. 80); che le ricorrenti che avevano provato di essere in stato di gravidanza non avevano dimostrato che delle malformazioni fossero state diagnosticate (par. 81); e che il resto delle ricorrenti si era limitato ad allegare che, desiderando una gravidanza, l’impossibilità di accedere all’aborto terapeutico, se necessario, causava loro ansia e preoccupazione (par. 82). Dunque, la conclusione è stata che le ricorrenti non avessero fornito una prova sufficiente della probabilità che una violazione si verificasse in futuro.
È evidente la differenza tra gli standard applicati nei due casi; da un lato, il rischio di violenze ipotetiche, perpetrate per mano di terzi, ritenuto implicitamente plausibile in M.A. e altri c. Francia; dall’altro lato, la necessaria prova di malformazioni fetali in A.M. e altri c. Polonia. A voler seguire quest’ultimo approccio, nel caso francese la Corte avrebbe dovuto richiedere prove ragionevoli e convincenti dell’ulteriore conseguenza, come ad esempio studi e dati statistici in merito alla correlazione tra violenza nei confronti dei sex workers e criminalizzazione della condotta dei clienti, o addirittura la prova della concreta esposizione dei singoli ricorrenti a episodi di violenza. Altrimenti, implicando la valutazione dello status di vittima un “risk assessment” di merito, la Corte avrebbe dovuto rinviare la decisione sul punto (si vedano i precedenti al riguardo citati da Tzevelekos, 2019, par. 29). A prescindere da quale sia, nei due diversi casi, la conseguenza più “plausibile” o “probabile” (le violenze contro i sex workers o la necessità per una donna incinta di ricorrere all’aborto terapeutico) è evidente la differenza di standard probatorio applicata dalla Corte: nel caso francese, non ha richiesto alcuna dimostrazione della probabilità di tali conseguenze, essendosi limitata a prendere atto del possibile rischio per come allegato dai ricorrenti (la Corte ha infatti affermato che «selon les dires des requérants, l’incrimination des clients de la prostitution qu’il opère pousse les personnes prostituées à la clandestinité et à l’isolement, ce qui les exposerait à des risques accrus pour leur intégrité physique et leur vie» (par. 43 della decisione). Nel caso polacco, invece, ha richiesto prove concrete del rischio.
Tale differenza di approccio sembra, a nostro avviso, alquanto inspiegabile. Non che standard diversi nell’accertamento dello status di vittima non siano giustificati. La Corte ha già in passato affermato che la determinazione dello status di vittima di soggetti che si lamentano di un «divieto generale» di realizzare una determinata condotta dipende «d’une appréciation des circonstances de chaque affaire, en particulier de la nature et de la portée de la mesure litigieuse et de l’ampleur des conséquences […] de pareille mesure» (Akdeniz e altri c. Turchia, 2021, par. 57; Cengiz e altri c. Turchia, 2015, par. 49), ribandendo che comunque non sono sufficienti dei «rischi meramente ipotetici» (Schweizerische Radio- und Fernsehgesellschaft e altri c. Svizzera, 2019, par. 72).
Ma a voler applicare tali criteri, il contrasto tra le due decisioni rimane oscuro. Un abbassamento dello standard, infatti, sembrerebbe tanto più necessario in un caso, come quello dell’aborto, in cui sarebbe irragionevole dover attendere, al fine di presentare ricorso a Strasburgo, di aver iniziato una gravidanza e di aver avuto una diagnosi di malformazione del feto. Peraltro, tale questione era già stata affrontata dalla Corte, nell’ambito di ricorsi presentati da donne che lamentavano l’assenza di una legislazione che permettesse loro di ricevere assistenza sanitaria per partorire in casa invece che in ospedale. In Ternovszky c. Ungheria (2010, par. 21) la Corte ha osservato che la ricorrente «was pregnant at the time of the introduction of the application and inclined to give birth at home» e ha pertanto ritenuto che ciò fosse sufficiente a conferirle status di vittima «without any particular measure being applied, simply by virtue of the existence of the impugned legislation» (par. 21). Nel caso Kosaitė-Čypienė a altri c. Lituania (2019), poi, la Corte si era accontentata di ancora meno. Le ricorrenti lamentavano che la legislazione nazionale “dissuadesse” gli operatori sanitari dal prestare tale assistenza sanitaria domiciliare. Tra esse vi erano donne in stato di gravidanza che avevano tentato di ottenere tale assistenza, una donna che aveva già partorito, ma anche una donna che sosteneva che, pur non essendo in stato di gravidanza, «was of child-bearing age and was planning to conceive and to give birth at home» (par. 61). Lo status di vittima le è stato riconosciuto osservando che «it is not disputed that she belonged to a category of women – namely, those of child-bearing age – that may be adversely affected by the restrictions imposed by the prohibition on the provision of medical assistance during home births» (par. 70). Ciò è stato ritenuto sufficiente per escludere che il ricorso costituisse un’actio popularis, volta a contestare in astratto la legislazione vigente. Ancora una volta, se il test da applicare riguarda la “possibilità di essere negativamente toccati” da una misura, non si comprende perche’ delle donne in età fertile o addirittura in stato di gravidanza non possono lamentarsi dell’abrogazione della possibilità di accedere all’aborto terapeutico, dovendo attendere che il rischio (quanto meno la diagnosi) si sia concretamente materializzato. E questo anche tenendo in considerazione che, almeno allo stato attuale della prassi della Corte, difficilmente una ricorrente in una tale situazione riuscirebbe ad ottenere una misura cautelare, ai sensi dell’art. 39 del Regolamento, che obblighi le autorità statali a consentirle l’aborto terapeutico.
È vero che la Corte ha sempre affermato che, nel decidere sullo status di vittima, essa mantiene un certo margine di discrezionalità. Ma essa ha proprio affermato che l’esercizio di tale discrezionalità deriva dall’esistenza di questioni di interesse generale, che «may arise in particular where an application concerns the legislation or a legal system or practice of the defendant State» (si vedano Micallef c. Malta [GC], 2009, par. 46, e la giurisprudenza ivi citata; sulla necessità di fare maggiormente ricorso a tale margine di discrezionalità, si veda Ferri). Se tale è il criterio, esso sembrava presente anche nel caso polacco. Inoltre, bisogna sottolineare che la discrezionalità non è arbitrio e richiede giustificazioni ragionevoli. Insomma, se diversi standard di valutazione del carattere diretto del nesso tra violazione e vittima devono essere applicati, la scelta dovrebbe dipendere da criteri oggettivi, come ad esempio la gravità della situazione, la possibile necessità di pronunciarsi urgentemente, e l’importanza degli interessi in gioco, tenendo in considerazione l’essenziale funzione preventiva e protettiva della nozione di vittima potenziale (Cançado Trindade, 2011).
5. Ciò che emerge dall’analisi sin qui condotta è che la Corte, in conformità ai principi sanciti nella propria giurisprudenza, tende ad applicare il criterio del «nesso», necessario ai fini dell’accertamento dello status di vittima, in modo flessibile.
Tuttavia, la nozione di flessibilità presuppone che vi siano dei criteri oggettivi, sia pur da valutare alla luce delle circostanze peculiari del caso concreto, che giustificano l’applicazione di uno standard più o meno stringente. Ad esempio, nel noto caso Campeanu la Grande Camera aveva giustificato un’eccezione ai principi generali in materia di accertamento dello status di vittima sulla base della gravità della violazione, dell’estrema vulnerabilità del ricorrente, e dell’assenza di soggetti idonei e interessati a rappresentarne gli interessi (Centre for Legal Resources on Behalf of Valentin Cāmpeanu c. Romania [GC], 2014, par. 112).
Nei casi qui citati, invece, sembra che non vi siano criteri oggettivi che giustificano l’uno o l’altro approccio; o, almeno, essi non sembrano emergere dalle motivazioni delle decisioni. Se così è, vi è il rischio che la flessibilità, che certamente è auspicabile nella materia dei diritti umani per prendere in considerazione le circostanze peculiari di ciascun caso, si risolva in fattore di imprevedibilità dell’esito dei ricorsi a Strasburgo, in quanto essa può essere invocata dalla Corte per raggiungere l’uno o l’altro risultato possibile. Una tale situazione è incompatibile con il principio di certezza del diritto, inerente alla Convenzione (si veda, ad esempio, Lupeni Greek Catholic Parish e altri c. Romania [GC], 2016, par. 116) e il quale implica che «while it is not formally bound to follow its previous judgments, it is in the interests of legal certainty, foreseeability and equality before the law that it should not depart, without good reason, from precedents laid down in previous cases» (Savickis e altri c. Lettonia [GC], 2022, par. 202). Ciò implica che la diversità di standard, e il rifiuto di seguite un precedente (peraltro espressamente richiamato dai ricorrenti), devono essere motivati su ragioni appropriate. Tale imprevedibilità sarebbe anche incompatibile con il principio secondo cui il diritto di ricorso individuale alla Corte, riconosciuto dall’art. 34 CEDU, deve essere garantito in termini «pratici ed effettivi» e non «teorici e illusori». Ciò dovrebbe implicare, in conformità alla stessa giurisprudenza della Corte in materia di diritto di accesso alla giustizia, garantito dall’art. 6 della Convenzione, la possibilità di conoscere chiaramente le condizioni di ammissibilità dei ricorsi, possibilità che viene meno quando queste siano applicate in modo imprevedibile o eccessivamente formalistico (Zubac c. Croazia, [GC], 2018, par. 87-89 e 96-99).
In tal senso, sarebbe auspicabile un intervento della Grande Camera, che chiarisca quanto meno quali sono i criteri che giustificano l’applicazione dell’uno o dell’altro standard e che, da un lato, lascino alla Corte il necessario margine di discrezionalità per prendere in considerazione le specificità del caso concreto ma, dall’altro, consentano ai ricorrenti di prevedere l’esito dei propri ricorsi.
* L’autore lavora come Assistente giurista presso la Cancelleria della Corte europea dei diritti umani. Il presente scritto, tuttavia, riflette le opinioni dell’autore, espresse a titolo personale, e non vincola in alcun modo la Cancelleria o la Corte.
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