Pirati nelle rotte migratorie del Mediterraneo centrale
Antonio Leandro e Alessandro Ranieri (Università degli Studi di Bari ‘Aldo Moro’)
1. «Assalto» ai migranti
Il 18 luglio 2023, a circa 18 miglia nautiche dalle coste di Lampedusa, alcuni pescherecci battenti bandiera tunisina hanno assaltato dei barchini che trasportavano migranti diretti verso le coste italiane. Dopo averne interrotto la navigazione e sottratto i motori, gli assalitori sono fuggiti. Successivamente, uno dei pescherecci, l’Assyl Salah, ha fatto ritorno sul luogo dell’assalto e si è avvicinato ad uno dei barchini: i membri dell’equipaggio hanno proposto ai circa 40 migranti a bordo di trainarli verso le acque territoriali italiane in cambio di soldi e telefoni cellulari minacciando di lasciarli alla deriva in caso di rifiuto. Dopo un primo tentennamento, i migranti, impossibilitati a proseguire la navigazione, hanno consegnato quanto richiesto; il peschereccio ha effettivamente trainato il barchino, ma dopo alcuni minuti ha interrotto l’operazione e abbandonato i migranti alla deriva. Tutti questi fatti si sono verificati al di là del mare territoriale italiano, in uno spazio privo di sovranità statale.
Nonostante il tentativo di fuga, le forze di polizia italiane hanno intercettato l’Assyl Salah e condotto il comandante e i tre membri dell’equipaggio in territorio italiano. Ad essi è stato contestato il reato di pirateria marittima e nei loro confronti il Giudice per le indagini preliminari («GIP») di Agrigento ha disposto, con ordinanza del 27 luglio 2023, la convalida del fermo e la custodia cautelare in carcere. Il GIP ha dato atto dell’esistenza di gravi indizi di colpevolezza a carico dei pescatori. Oltre alle testimonianze di alcuni dei migranti – definite plurime e convergenti – il GIP ha valorizzato la presenza dei pescatori a bordo dell’Assyl Salah «in un contesto spazio-temporale assolutamente prossimo a quello della tenuta delle condotte», nonché il rinvenimento della refurtiva e la circostanza che l’attrezzatura da pesca in dotazione al peschereccio fosse inutilizzata.
2. La contestazione del reato di pirateria marittima
Numerosi comportamenti posti in essere dall’equipaggio dell’Assyl Salah integrano la fattispecie di pirateria marittima: oltre alle esplicite minacce, attuate mostrando armi di vario genere, rileva particolarmente la sottrazione dei motori e l’interruzione volontaria della navigazione dei barchini effettuata di concerto con un altro peschereccio, il Mohamed. Indubitabile, infine, è il fine di lucro alla base di tali condotte.
Il GIP ha ritenuto sussistente la giurisdizione italiana in forza dell’art. 7 n. 5 c.p. ai sensi del quale, fra i reati commessi all’estero punibili secondo la legge italiana, rientrano quelli per i quali «speciali disposizioni di legge o convenzioni internazionali stabiliscono l’applicabilità della legge penale italiana». Il riferimento è alla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 10 dicembre 1982 («CNUDM») e, più precisamente, al combinato disposto degli articoli 101 e 105 dal quale si ricava un principio di giurisdizione universale in materia di pirateria marittima e la facoltà dello Stato che ha disposto il sequestro di decidere la pena da infliggere nonché le misure da adottare nei confronti delle navi o dei beni.
È la prima volta che i tribunali italiani sono chiamati a pronunciarsi sull’accusa di pirateria marittima per fatti compiuti nel mar Mediterraneo. I più recenti procedimenti celebrati in territorio italiano hanno riguardato assalti compiuti a danno di navi battenti bandiera italiana impegnate nella navigazione dell’Oceano Indiano, al largo delle coste somale.
L’episodio del 18 luglio 2023 non è isolato, anzi, come lo stesso GIP sottolinea, le condotte dei fermati sono «coordinate e frutto di una prassi consolidata». Il grande numero di barche di migranti che partono dalle coste tunisine nel tentativo di raggiungere le coste italiane, le condizioni di pericolo nelle quali esse versano, nonché la reticenza ad allertare i soccorsi (determinata probabilmente dai timori di respingimento che affliggono i migranti), sono tutti fattori che favoriscono condotte volte a vessare i migranti nella traversata che intraprendono nel Mediterraneo. Tutto ciò rende ancor più pericolosa una rotta migratoria già altamente letale.
L’affermazione della giurisdizione italiana per fatti di pirateria privi di collegamenti ulteriori con l’ordinamento nazionale assume, dunque, particolare importanza perché riduce lo spettro di impunità sul quale i responsabili di simili condotte hanno finora confidato.
3. Estorsione o pirateria?
Il provvedimento in commento segue di poche ore una precedente ordinanza adottata nei confronti degli stessi soggetti. In tale ordinanza, lo stesso GIP aveva dichiarato il difetto di giurisdizione italiana e disposto la liberazione dei fermati.
Il GIP aveva risposto alla richiesta di misure cautelari formulata dal Pubblico Ministero con riguardo ai soli fatti verificatisi nella seconda fase dell’assalto, vale a dire la proposta di soccorso in cambio di soldi e telefoni avanzata dai pescatori tunisini ai migranti e il traino del barchino verso le coste italiane, volontariamente interrotto dopo alcuni minuti.
Dovendo valutare le richieste di misure cautelari sulla scorta dei soli elementi di fatto contestati, il GIP, pur riconoscendo l’esistenza di gravi indizi di colpevolezza a carico dei pescatori (dei quali si è già detto), ha ritenuto che la condotta non integrasse il reato di pirateria marittima bensì quello di estorsione ex art. 629 c.p. Poiché, però, i fatti si erano verificati oltre il limite esterno del mare territoriale italiano, il GIP ha concluso per il difetto di giurisdizione, non avendo l’applicazione della legge penale italiana in caso di estorsione un ambito spaziale analogo a quello della pirateria marittima.
Il GIP avrebbe potuto giungere a diverse conclusioni. Egli osserva che l’art. 1135 c. nav. definisce come piratesco l’atto di depredazione compiuto in danno di una nave o del carico nonché gli atti di violenza commessi in danno di una persona imbarcata a scopo di depredazione. Ed afferma che i fatti contestati ai fermati «non rientrano in alcuna delle due condotte» giacché il barchino era già stato depredato in precedenza e il Pubblico ministero non ha contestato la commissione di atti di violenza in danno dei migranti a bordo. La minaccia di lasciare i migranti alla deriva avrebbe prospettato un male la cui ingiustizia «è già […] a monte ritenuta dal legislatore allorché ha introdotto il reato di omissione di soccorso». In conclusione, «[o]mettere di soccorrere chi si imbatte in pericolo integra omissione di soccorso; sfruttare la situazione per esercitare una pressione morale su chi si trovi in pericolo, costringendolo a privarsi dei propri beni per sperare di salvarsi, integra estorsione».
L’impressione che se ne trae è che, nonostante la gravità della situazione nella quale si trovavano i migranti, il giudice abbia attribuito loro una residua capacità di autodeterminazione e ravvisato nell’accaduto una sorta di base negoziale. Il GIP ritiene che i telefoni cellulari e i soldi rappresentassero il «corrispettivo per l’aiuto» e che la loro consegna costituisse un «atto dispositivo» necessario per ottenere il soccorso.
Invero, le circostanze di tempo e di luogo in cui si sono svolti gli eventi, e la considerazione che l’omesso soccorso avrebbe certamente messo in grave pericolo la vita dei migranti, hanno ridotto, fino ad azzerare, l’autodeterminazione dei migranti al momento di decidere se accettare o meno la proposta di soccorso verso corrispettivo dei pescatori tunisini.
Il giudice esclude l’applicazione dell’art. 1135 c. nav., ma poiché, come si è visto, egli avrebbe successivamente affermato la giurisdizione italiana sul combinato disposto degli articoli 7 n. 5 c.p. e 101-105 della CNUDM e muovendo dalla nozione di pirateria della Convenzione, un analogo percorso argomentativo sarebbe stato utile per stabilire compiutamente se la condotta dei pescatori tenuta al di là del mare territoriale italiano rappresentasse davvero semplice estorsione o costituisse piuttosto pirateria marittima ai sensi della Convenzione. L’art. 101, peraltro, non ha l’effetto di mettere fuori gioco il Codice penale o il Codice della navigazione visto che ad essi occorre rivolgersi per determinare la pena (argomentando ex art. 105 CNDUM) qualora la fattispecie contemplata dall’art. 101 ricada al loro interno secondo la normativa penale italiana.
Ciò detto, è noto che l’art. 101 CNUDM ha contorni decisamente ampi perché indica tre categorie di comportamenti, stabilendo quando essi possono qualificarsi come atti di pirateria. Le ragioni di tale scelta risiedono nella volontà di contemplare una vasta gamma di condotte che, seppure fortemente disomogenee, sono accomunate dal fatto di rappresentare una minaccia alla libertà e alla sicurezza della navigazione.
La prima e più importante categoria di comportamenti è quella contemplata alla lettera a) dell’art. 101 ai cui termini per pirateria si intende «any illegal acts of violence or detention, or any act of depredation, committed for private ends by the crew or the passengers of a private ship or a private aircraft». Come intuibile, ad essere considerato è l’insieme di condotte mediante le quali è concretamente effettuato l’attacco pirata e che rappresentano il nucleo minimo ed essenziale del crimine e per questo, oltre ad essere la più importante, tale categoria è anche quella disciplinata nel dettaglio: per intenderci, i requisiti del fine privato e della natura privata della nave pirata sono riferiti solo ad essa.
Gli atti contemplati alla lettera a) sono ulteriormente distinti nei sottoparagrafi i) e ii) in base al locus commissi delicti. Le fattispecie contemplate nel sottoparagrafo i) dipendono dall’ulteriore requisito della compresenza di almeno due imbarcazioni: dettaglio, questo, che richiama l’ipotesi «tradizionale» di atto piratesco e cioè l’assalto compiuto per impossessarsi del carico o dei beni di bordo o dei beni personali dell’equipaggio o dei passeggeri della nave assaltata. Tuttavia il catalogo delle situazioni riconducibili al sottoparagrafo i) è ben più ampio perché può comprendere l’omicidio di uno o più passeggeri o membri dell’equipaggio della nave assaltata, il rapimento di uno o più passeggeri o membri dell’equipaggio della nave assaltata, la distruzione o il mero danneggiamento del carico trasportato dalla nave assaltata o dei suoi beni di bordo o dei beni personali del suo equipaggio o dei suoi passeggeri, il sequestro della nave compiuto a fini di riscatto (come sovente accaduto al largo delle coste della Somalia).
Tornando alle espressioni « any illegal acts of violence or detention, or any act of depredation […]», è infine possibile osservare che al termine «violenza» si attribuisce un significato ampio, nel senso che, nel rispetto degli altri requisiti previsti dalla disposizione, può essere considerato piratesco un atto basato sulla sola minaccia contro la vita o l’incolumità delle vittime a prescindere dalla finalità di depredazione. D’altro canto, il «fine privato» richiesto dall’art. 101 CNUDM non si identifica necessariamente con il «fine di lucro», ma comprende anche atti di violenza compiuti con desiderio di vendetta o semplicemente di odio, purché non si rientri nella finalità politica, la quale notoriamente estromette la condotta dalla categoria della pirateria.
Ora, poiché si è visto che l’art. 101 distingue fra atti di violenza e atti di rapina, è da ritenere che i primi includono anche i casi di acquisizione di beni personali delle vittime o di beni di bordo senza effettiva coercizione, ma a seguito di minaccia di un male ingiusto.
Ne viene che, ai sensi dell’art. 101 CNUDM, costituiscono atti di pirateria una serie di condotte svincolate dalla violenza contro le persone, come, ad esempio, atti di violenza e distruzione commessi contro i beni di bordo oppure non attuati a scopo di depredazione oppure consistenti in minacce sganciate dall’intento di rapinare. In definitiva, la maggiore ampiezza della nozione internazionale di pirateria è in grado di accogliere le condotte dell’equipaggio dell’Assyl Salah che il GIP ha qualificato come estorsione.
4. Il traino interrotto
L’atto di «tagliare la corda», ossia interrompere il traino concordato come corrispettivo dei beni acquisiti dai migranti, offre un ultimo spunto di riflessione.
L’atto del traino, poi interrotto, rappresenterebbe, infatti, un atto di sequestro temporaneo del barchino. In effetti, il «tagliare la corda» rimuove ogni finalità satisfattiva della prestazione pattuita in cambio di beni. Rimarrebbe soltanto il fatto che, nella fase di traino, l’imbarcazione è stata sequestrata. Si rientra, dunque, nella detention, ovvero in una delle categorie di atto piratesco di cui all’art. 101.
Inoltre, l’atto di «tagliare la corda» potrebbe generare una situazione di distress o aggravare quella in corso. Immaginando che il traino sia interrotto mentre l’imbarcazione con i migranti si trova in zona SAR italiana e che i migranti versino in una situazione di pericolo, se essi contattassero le autorità italiane, o queste intervenissero nel corso di un’operazione di sorveglianza, il successivo eventuale ingresso dei migranti in territorio italiano sarebbe «facilitato» dal traino iniziale compiuto dal peschereccio tunisino. In altre parole, il traino, prima, e l’interruzione, successivamente, da cui derivi l’abbandono in mare in acque extraterritoriali su barchini inadatti alla navigazione, così come l’intervento SAR e l’accompagnamento dei migranti nel mare territoriale italiano da parte delle navi pubbliche dei soccorritori, sarebbero direttamente riconducibili ai pescatori/pirati senza soluzione di continuità nello stesso senso che, mutatis mutandis, ha indotto Cass. pen., sez. I, 28 febbraio/27 marzo 2014 n. 14510, ad applicare l’art. 6 c.p. per affermare la giurisdizione italiana sul reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
5. Conclusioni
Non è la prima volta che si assiste ad atti di pirateria nei corridoi marittimi attraversati da flussi di migranti e richiedenti protezione internazionale (numerosi assalti furono compiuti a partire dal 1979 nel golfo di Thailandia ai danni delle imbarcazioni con le quali i richiedenti asilo vietnamiti tentavano di raggiungere le coste malesi e thailandesi; sul punto si rinvia a V. Muntarbhorn, Asylum-Seekers at Sea and Piracy in the Gulf of Thailand, in Revue belge de droit International, 1981-1982, p. 482 ss.).
Questa rinnovata forma di pirateria marittima, vieppiù odiosa perché rivolta contro soggetti particolarmente vulnerabili in quanto reduci da un percorso migratorio terrestre già costellato, nella maggioranza dei casi, da gravi violazioni dei diritti umani, merita un contrasto efficace.
La via della sorveglianza marittima, individuale o collettiva, è senz’altro utile, soprattutto a fini di deterrenza.
Dal canto suo, la categoria contemplata nell’art. 101 CNUDM e il gancio giurisdizionale previsto dall’art. 105 offrono una base adeguata quando la condotta ha luogo al di là del mare territoriale, purché le autorità giudiziarie non si appiattiscano su «definizioni interne», ma ricerchino, nel rispetto del principio di legalità, quella più adatta al fine dell’esercizio della giurisdizione penale.
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