La decisione che ci aspettavamo (o quasi): sulla sentenza della Corte costituzionale del 4 luglio 2023, n. 159, tra condanne al risarcimento dei danni per crimini nazisti, preclusione dell’esecuzione forzata e Fondo ristori
Giorgia Berrino (Università degli Studi di Ferrara)
1. Il 21 luglio scorso, la Corte costituzionale ha depositato una decisione destinata – per il noto contesto in cui si inserisce – a divenire storica ancora prima della sua adozione.
Si tratta della sentenza del 4 luglio 2023, n. 159 con cui la Corte ha dichiarato infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate avverso l’art. 43, c. 3, decreto-legge 30 aprile 2022, n. 36, convertito con legge 29 giugno 2022, n. 79, in forza del quale viene preclusa l’esecuzione forzata fondata su titoli aventi ad oggetto la liquidazione dei danni subiti, per la lesione dei diritti inviolabili della persona, dalle vittime dei crimini di guerra e contro l’umanità commessi dal Terzo Reich nel periodo tra il 1° settembre 1939 e l’8 maggio 1945.
2.La decisione dei giudici costituzionali trae origine da lontano, inserendosi nell’annosa controversia italo-tedesca sui risarcimenti nei confronti delle vittime della Seconda guerra mondiale, che involge le immunità giurisdizionali degli Stati esteri e dei loro beni. La questione è ben nota e non sarà oggetto di trattazione (per un recente ed efficace riassunto della “saga” si rinvia a Fazzini; cfr. anche il punto 9 del Considerato in diritto della pronuncia in commento).
In questa sede si consenta soltanto di ricordare le vicende legate al giudizio di esecuzione all’interno del quale è stato promosso il sindacato di costituzionalità dell’art. 43, che ha condotto alla sentenza della Consulta oggetto di odierna analisi.
3. Tra le azioni esecutive esperite al fine di eseguire le sentenze di condanna emesse nei confronti della Germania – a seguito del disconoscimento dell’immunità di tale Stato dalla giurisdizione civile di cognizione straniera – al risarcimento dei danni cagionati alle vittime dei crimini commessi dal Terzo Reich durante il Secondo conflitto mondiale, si annovera anche il pignoramento di quattro immobili di proprietà della Repubblica federale tedesca siti a Roma (l’Istituto Archeologico Germanico; il Goethe Institut; l’Istituto Storico Germanico; la Scuola Germanica).
L’esecuzione è stata azionata dagli eredi di un cittadino italiano (Angelantonio Giorgio) – catturato in Italia e deportato nel campo di concentramento di Dachau – sulla base di una sentenza definitiva di condanna dello Stato tedesco. All’interno della procedura esecutiva è poi intervenuto anche il figlio di un altro cittadino italiano (Gualberto Cavallina) – anch’esso catturato in Italia e deportato in vari lager nazisti – in virtù di un’analoga sentenza.
A fronte dell’azione promossa, la Germania ha depositato un’istanza di sospensione dell’esecuzione forzata rivendicandola natura pubblicistica dei beni, e dunque la loro impignorabilità in forza delle norme di diritto internazionale che sanciscono l’immunità dei beni degli Stati dalle misure coercitive straniere. Il Tribunale di Roma, sez. IV civ., in composizione monocratica, ha rigettato la richiesta con l’ordinanza del 12 luglio 2021, applicando di fatto i principi sanciti dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 238/2014 in sede di esecuzione.
Lo Stato tedesco ha presentato reclamo. L’impugnazione è stata rigettata dal Tribunale – questa volta in composizione collegiale – con l’ordinanza del 3 novembre 2021, sulla base però di una motivazione diversa rispetto a quella del giudice di prime cure, ovvero in virtù del mancato raggiungimento della prova circa la destinazione pubblicistica dei beni da parte del debitore, destinazione che se invece fosse stata provata avrebbe comportato – nell’opinione del Collegio – l’accoglimento della richiesta tedesca, in conformità a quanto disposto dalle norme di diritto internazionale in materia di immunità dei beni degli Stati dalle misure coercitive straniere, rispetto alle quali la 238/2014 non trova applicazione.
La situazione creatasi ha spinto la Repubblica federale tedesca a promuovere il 29 aprile 2022 un nuovoricorso contro lo Stato italiano alla CIG per violazione delle immunità giurisdizionali – il giudizio è attualmente pendente – e l’Italia ad adottare l’art. 43 d.l. 36/2022, poi convertito in l. 79/2022, come “risposta” al ricorso tedesco dinanzi alla CIG (su questi aspetti v. Franzina, Gradoni, Colacino 2022, Caroli 2022; Berrino 2022; Boggero 2022, Bufalini, Fazzini).
L’art. 43, al c. 1, istituisce presso il Ministero dell’economia e delle finanze un Fondo, assicurando continuità all’Accordo italo-tedesco di Bonn del 1961 reso esecutivo in Italia con d.P.R. 14 aprile 1962, n. 1263, per il «ristoro dei danni subiti dalle vittime di crimini di guerra e contro l’umanità per la lesione dei diritti inviolabili della persona, compiuti sul territorio italiano o comunque in danno di cittadini italiani dalle forze del Terzo Reich nel periodo tra il 1° settembre 1939 e l’8 maggio 1945».
La dotazione del Fondo è attualmente pari a 20.000.000 euro per l’anno 2023 ed a 13.655.467 euro per ciascuno degli anni dal 2024 al 2026 (quest’ultima somma, originariamente di 11.808.000 euro, è stata successivamente implementata in forza dell’art. 8, comma 11-quater del d.l. 29 dicembre 2022, n. 198 poi convertito con L. 24 febbraio 2013, n. 14).
A tale Fondo, secondo il c. 2, hanno accesso coloro che siano titolari di una sentenza definitiva avente ad oggetto l’accertamento e la liquidazione dei danni suddetti, a seguito di azioni giudiziarie avviate alla data di entrata in vigore del decreto-legge o entro il termine decadenziale di cui al comma 6 (ovvero il 28 giugno 2023, termine così modificato, da ultimo, dall’art. 8, comma 11-ter del citato d.l. 198/2022), oppure coloro che pongano in essere una transazione, sentita l’Avvocatura di Stato, nei giudizi pendenti alla data di entrata in vigore del decreto o in quelli successivamente instaurati.
Inoltre, l’art. 43, al c. 3, prevede – come anticipato – sia la preclusione delle procedure esecutive fondate su tutti i titoli giudiziali di condanna della Germania al risarcimento dei danni nei confronti delle vittime di crimini di guerra e contro l’umanità commessi dal Terzo Reich durante il Secondo conflitto mondiale sia l’estinzione dei giudizi di esecuzione eventualmente intrapresi, e statuisce che le sentenze aventi ad oggetto l’accertamento e la liquidazione dei danni di cui al c. 1 acquistino efficacia esecutiva esclusivamente al momento del passaggio in giudicato e siano eseguite esclusivamente a valere sul Fondo.
L’adozione dell’art. 43 da parte del circuito Governo-Parlamento ha sollevato diversi interrogativi tra gli interpreti.
In particolare, non risultava chiaro che cosa dovesse intendersi con il “ristoro” dei danni previsto dal Fondo: l’intero quantum liquidato in sede di cognizione oppure soltanto una somma forfettaria e parziale, rappresentativa di una “qualche” riparazione? Inoltre, nel caso in cui il ristoro fosse coinciso con il quantum individuato nelle pronunce di cognizione, sarebbe stato effettivamente possibile sulla base delle somme stanziate per il Fondo pagare l’intero a tutti i creditori o si sarebbe dovuto procedere ad una ripartizione di tali somme?
A fornire una risposta agli interrogativi sollevati sembrava deputato un decreto interministeriale, che – sulla base di quanto disposto dal c. 4 dell’art. 43 – avrebbe dovuto stabilire, entro 180 giorni dall’entrata in vigore del decreto-legge, la definizione della procedura di accesso al Fondo, le modalità di erogazione degli importi, detratte le somme eventualmente già ricevute dalla Repubblica italiana a titolo di benefici o indennizzi, nonché le ulteriori disposizioni per l’attuazione dell’articolo 43.
Il decreto è stato tuttavia adottato – come meglio diremo – dal Ministero dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministero degli esteri ed il Ministero della giustizia, soltanto il 28 giugno 2023.
Per lungo tempo, dunque, come affermato da Veronesi, «tutto [è parso essere] evanescente e a dir poco vago», mentre in un caso come questo «le certezze da comunicare al creditore [avrebbero dovuto] essere cristalline».
Il riflesso della normativa adottata dall’Italia nella procedura esecutiva richiamata, ed in particolare nel giudizio di esecuzione nelle more instaurato, è stato immediato. Ancor prima, infatti, che il decreto-legge fosse convertito, la Germania ha chiesto l’estinzione della procedura esecutiva; la medesima richiesta è stata inoltre presentata dall’Avvocatura di Stato intervenuta nel giudizio. I creditori hanno invece domandato la sospensione del procedimento esecutivo, ed in subordine il rigetto dell’istanza di estinzione, eccependo l’illegittimità costituzionale dell’art. 43.
Sempre prima della conversione dell’art. 43 in legge, è intervenuta nel procedimento, in qualità di creditrice, la Regione Sterea Ellada, in virtù di titoli costituiti da decisioni italiane di exequatur di sentenze greche che avevano condannato la Germania al risarcimento dei danni derivanti dai crimini nazisti commessi nei confronti di cittadini ellenici sul suolo greco. Tale creditrice ha sostenuto la tempestività del suo intervento, e ciò in quanto l’art. 43 prima della conversione in legge prevedeva che non potessero essere iniziate o proseguite soltanto le procedure esecutive basate su titoli aventi ad oggetto la liquidazione dei danni subiti dalle vittime di crimini compiuti sul territorio italiano o comunque in danno di cittadini italiani dalle forze del Terzo Reich, e che gli eventuali giudizi di esecuzione intrapresi fossero estinti.
Tuttavia, con la conversione in legge dell’art. 43, la situazione è cambiata, in quanto l’impossibilità di procedere all’esecuzione forzata, così come l’estinzione dei giudizi di esecuzione, è stata estesa anche alle procedure fondate su sentenze straniere recanti la condanna della Germania per il risarcimento dei danni provocati dal Terzo Reich tra il 1° settembre 1939 e l’8 maggio 1945.
Il Tribunale di Roma, nutrendo dei dubbi circa la legittimità costituzionale dell’art. 43, c. 3, ha promosso il sindacato di costituzionalità con l’ordinanza del 1° dicembre 2022, iscritta al n. 154 del reg. ord. della Corte costituzionale (v. Baiada 2022 e Caroli 2023).
Tre sono state le questioni di legittimità costituzionale promosse:
i) Anzitutto, è stata affermata la violazione degli artt. 2 e 24 Cost., in quanto l’art. 43, c. 3, priverebbe una specifica categoria di creditori – coloro che detengono un titolo esecutivo di condanna al risarcimento dei danni subiti dalle vittime di crimini di guerra e contro l’umanità per la lesione dei diritti inviolabili della persona, compiuti sul territorio italiano o comunque in danno di cittadini italiani dalle forze del Terzo Reich durante il Secondo conflitto mondiale – dell’esecuzione forzata, che rappresenta una componente essenziale del diritto costituzionalmente garantito di accesso alla giustizia. L’art. 43 renderebbe in questo modo ineseguibili i provvedimenti giurisdizionali di cognizione, con la conseguenza che i creditori, nei confronti dei quali è stato riconosciuto il diritto all’accertamento della lesione dei diritti umani fondamentali sulla base di quanto statuito dalla 238/2014, sarebbero privati del diritto inviolabile alla tutela giurisdizionale in sede esecutiva ed al risarcimento del danno loro riconosciuto dai giudici della cognizione.
ii) In secondo luogo, è stata contestata la violazione degli artt. 3 e 111 Cost. in quanto l’art. 43, c. 3, creerebbe uno sbilanciamento processuale a favore della parte esecutata, senza che tale squilibrio sia controbilanciato dal Fondo, dal momento che i creditori verrebbero privati immediatamente ed irreversibilmente del loro diritto di procedere ad esecuzione forzata a fronte di un mero riconoscimento di accesso al Fondo, senza che sia prevista la disciplina del procedimento amministrativo, il quantum del ristoro nonché le sue modalità di erogazione.
Inoltre, il giudice rimettente, ha sottolineato che la finalità – dichiarata dal Legislatore dal c. 1 dell’art. 43 – di assicurare continuità all’Accordo italo-tedesco di Bonn del 1961 non potrebbe giustificare il sacrificio assoluto del diritto alla tutela giurisdizionale tramite l’esecuzione forzata, ben potendo peraltro tale finalità essere raggiunta dall’Italia ricorrendo all’istituto ordinario dell’adempimento del terzo.
iii) Infine, è stata sostenuta la violazione dell’art. 3 Cost. anche sotto il profilo della ragionevolezza, in quanto l’art. 43 porrebbe in essere una discriminazione tra creditori circa la possibilità di procedere ad esecuzione forzata sulla base del criterio della nazionalità o del locus commissi delicti.
4. Il quadro all’interno del quale la Corte si sarebbe dovuta pronunciare pareva chiaro. Nel giudizio a quo, l’art. 43 avrebbe comportato l’estinzione immediata del giudizio di esecuzione (e l’impossibilità di promuovere nuove azioni esecutive), con una differenza tra i creditori parti della procedura:
i) ai creditori in forza di titoli derivanti dalla condanna della Germania per i crimini commessi dal Terzo Reich a danno di cittadini italiani e in parte sul territorio italiano, veniva riconosciuto un diritto di accesso al Fondo, senza che questo fosse effettivamente attuato e che si conoscesse il quantum che sarebbe stato irrogato.
ii) per la Regione Sterea Ellada – creditrice in forza di sentenze straniere, oggetto di exequatur in Italia, di condanna della Germania per i crimini commessi dal Terzo Reich nei confronti di cittadini greci sul territorio ellenico – nessun ristoro.
Ci si domandava dunque come mai il giudice rimettente, nella terza questione di legittimità costituzionale promossa, avesse sostenuto l’esistenza all’interno dell’art. 43 di una discriminazione tra categorie di creditori rispetto alla possibilità di procedere ad esecuzione forzata – essendo chiaramente previsto dalla norma, a seguito della conversione in legge, l’impossibilità per tutti i creditori di procedere ad esecuzione forzata – e non avesse invece denunciato la sussistenza di una discriminazione nell’accesso al Fondo, o, comunque, non avesse lamentato, nella prima questione di legittimità costituzionale, la violazione dell’effettività della tutela giurisdizionale anche nei confronti dei creditori in forza di sentenze straniere (sulle plausibili spiegazioni v. Berrino 2023a; Caroli 2023).
5. Sulla base dei presupposti descritti, la dottrina si è interrogata su quale avrebbe dovuto essere l’auspicabile esito del giudizio dinanzi alla Consulta(v. Brunelli et al.; Berrino 2023a; v. anche l’opinione amici curiae presentata dai sopravvissuti e dai familiari delle vittime della strage di Mommio (Fivizzano) ammessa il 23 maggio 2023 nel giudizio dinanzi ai giudici costituzionali).
Senonché a pochi giorni dalla data fissata per l’udienza di discussione dinanzi ai giudici costituzionali, il quadro è parzialmente mutato.
Come anticipato, il 28 giugno 2023 è stato adottato il decreto interministeriale che fino a quel momento aveva latitato. Tale decreto è parso chiarire il significato da attribuire al ‘ristoro’ previsto dal Fondo.
L’art. 2, c. 2, del decreto prevede, infatti, che: «È a carico del Fondo […] il pagamento dei danni liquidati nella sentenza […], e delle spese processuali eventualmente liquidate nella sentenza medesima, detratte le somme ricevute dall’avente diritto dalla Repubblica italiana a titolo di benefici o indennizzi».
L’esistenza di una corrispondenza tra il ristoro e i danni liquidati nelle sentenze – che è sembrata potersi rinvenire nel testo del decreto Giorgetti-Tajani-Nordio – è stata poi confermata dall’Avvocatura di Stato all’udienza di discussione dinanzi alla Consulta del 4 luglio 2023.
In tale sede, l’Avvocatura ha affermato, infatti, che l’art. 43 prevede «espressamente che il creditore procedente che accede al Fondo viene pagato e risarcito esattamente nella stessa misura stabilita dal tribunale nella sentenza di condanna, anche con il pagamento delle spese legali». Inoltre, l’Avvocatura ha sostenuto come il Fondo sia idoneo allo scopo per cui è stato istituito, e che, considerata la somma stanziata, non può essere considerato scarso, anche in considerazione del fatto che tale cifra è incrementabile nel corso degli anni, come peraltro risultava già essere stato fatto rispetto al momento della sua istituzione. Peraltro, a fronte della richiesta della Presidente Sciarra di esplicitare meglio quanto detto sulle somme già stanziate ed eventualmente incrementabili, l’Avvocatura ha anche specificato che: «Qualora non ci dovesse essere capienza sufficiente, anche considerati i notevoli importi che di volta in volta vengono liquidati dai tribunali italiani, il Legislatore provvederà ad incrementare ulteriormente il Fondo».
6. Fatte queste necessarie premesse, entriamo ora in medias res e passiamo ad analizzare il contenuto della sentenza n. 159/2023. Di seguito verranno ripercorsi i passaggi più significativi della decisione.
7. Sull’eccezione di inammissibilità dell’Avvocatura di Stato: la Corte “mette i puntini sulle i” in materia di immunità dei beni degli Stati dalle misure coercitive straniere ma dichiara la questione dell’immunità non rilevante ai fini del giudizio
Secondo l’Avvocatura di Stato, premesso che nell’ordinanza di rimessione non era stato posto in rilievo la differenza tra immunità degli Stati esteri dalla giurisdizione civile straniera e dalla giurisdizione esecutiva e che l’immunità dall’esecuzione riguarda i beni degli Stati esteri a destinazione pubblicistica, la mancata valutazione da parte del giudice rimettente della natura dei beni nel giudizio a quo avrebbe determinato il difetto di rilevanza delle questioni di legittimità costituzionali promosse.
L’Avvocatura sosteneva anche che la mancata valutazione rispetto alla natura dei beni pignorati avrebbe impedito la verifica circa la sussistenza della giurisdizione del giudice rimettente, che sarebbe stata carente in caso di natura pubblicistica dei beni, in forza dell’applicazione della norma di diritto internazionale consuetudinario che prevede l’immunità ristretta degli Stati dall’esecuzione forzata, rispetto alla quale non incidono i principi espressi dalla 238/2014 relativi alla sola cognizione.
Nel pronunciarsi sull’eccezione, i giudici costituzionali hanno quanto mai opportunamente voluto trattare il tema dell’immunità dei beni degli Stati dalle misure coercitive straniere, con la finalità di “mettere ordine” nella materia e porre le basi per valorizzare le motivazioni utilizzate poi nella parte della decisione dedicata al merito.
Si deve, infatti, evidenziare come la giurisprudenza italiana sia sempre stata oscillante rispetto al modus operandi all’interno dei giudizi di esecuzione della norma di diritto internazionale consuetudinario sull’immunità dei beni degli Stati dalle misure coercitive straniere, riconducendo talvolta l’effetto di tale norma alla giurisdizione del giudice dell’esecuzione ed in altri casi alla pignorabilità dei beni (sul punto cfr. per tutti Izzo).
La mancata chiarezza circa il modus operandi della norma nell’ordinamento italiano aveva peraltro creato confusione rispetto a quanto statuito dalla Corte di cassazione in merito alle ripercussioni dell’assetto normativo creato dalla 238/2014 (v. Corte di Cassazione, sez. III civ., sentenza del 25 giugno 2019, n. 21995, parr. 23-24).
Inoltre, come già ricordato, il giudice rimettente, nell’ordinanza con cui nella fase cautelare dello stesso giudizio all’interno del quale è stato promosso il sindacato di costituzionalità dell’art. 43, aveva motivato il rigetto della richiesta di sospensione dell’esecuzione forzata sulla base della (presunta) applicabilità dei principi della 238/2014 all’esecuzione.
L’impostazione seguita dal giudice era stata criticata in modo unanime dalla dottrina, la quale aveva sottolineato l’esigenza di un diverso percorso metodologico affinché eventualmente i principi della 238/2014 potessero trovare applicazione anche in sede di esecuzione, ovvero il promovimento di una questione di legittimità costituzionale ad hoc rispetto alla compatibilità con gli artt. 2 e 24 Cost. della norma consuetudinaria che sancisce l’immunità dei beni degli Stati dalle misure coercitive straniere (rectius la norma interna che, in forza dell’art. 10, c. 1, Cost., dovrebbe riprodurre nel nostro ordinamento la consuetudine internazionale), essendo quest’ultima una norma distinta da quella sull’immunità degli Stati dalla giurisdizione civile di cognizione straniera (Torretta, Salerno, Boggero 2022, Colacino 2022, Asprella, Berrino 2023a).
Nonostante poi il giudice a quo, nell’ordinanza di rimessione, non abbia più fatto diretto riferimento all’applicazione della 238/2014 in fase di esecuzione, parte della dottrina aveva sottolineato come in realtà la proposizione del sindacato di costituzionalità dell’art. 43 si fondasse proprio su tale presupposto (v. per tutti Torretta).
Ora, a prescindere dalle speculazioni su quanto sotteso dal giudice rimettente nell’ordinanza di rimessione (verosimilmente fondate della dottrina), la Corte ha deciso di fare chiarezza una volta per tutte sull’immunità dei beni degli Stati dalle misure coercitive straniere, fornendo una sorta di ‘vademecum’ che impedisce nuove interpretazioni che si discostino dai dicta della Consulta.
In particolare, la Corte ha sostenuto che (v. punto 3.1 e 3.2. del Considerato in diritto):
i) l’immunità c.d. ristretta «opererebbe, di norma, con riguardo sia ai giudizi di cognizione, sia alle procedure esecutive, nella portata definita dalla Corte internazionale di giustizia dell’Aja nella sentenza del 3 febbraio 2012», ma che solo ed esclusivamente rispetto alla giurisdizione di cognizione si è affermata «una regola derogatoria» sulla base di quanto statuito dalla 238/2014, al fine di garantire il diritto alla tutela giurisdizionalenel caso dilesione dei diritti fondamentali;
ii) nel processo esecutivo, al quale non si riferisce la 238/2014, la prospettiva è diversa; ciò in quanto l’immunità ristretta non incide sulla giurisdizione del giudice ma si pone come limite alla pignorabilità dei beni, precludendo l’esecuzione su beni a destinazione pubblicistica degli Stati esteri.
In questo caso, dunque, il diritto alla tutela giurisdizionale, nella sua declinazione in executivis, viene garantito «anche se modulato» dall’operatività della consuetudine internazionale sull’immunità dall’esecuzione.
Di conseguenza, la norma consuetudinaria internazionale sull’immunità dei beni degli Stati dalle misure coercitive straniere, come riconosciuta dalla CIG nella sentenza del 3 febbraio 2012, fa ingresso – in forza del trasformatore permanente di cui all’art. 10, c. 1, Cost. – nel nostro ordinamento «senza che a ciò sia di ostacolo alcun controlimite, né in particolare quello ritenuto dalla sentenza n. 238 del 2014 quanto al giudizio di cognizione».
Chiariti tali aspetti, la Consulta ha affermato che il presupposto interpretativo dell’Avvocatura di Stato – nella parte in cui ha sostenuto il riconoscimento dell’operatività della norma consuetudinaria di diritto internazionale sull’immunità ristretta nelle procedure esecutive – fosse corretto.
Tuttavia, la Corte ha ritenuto l’eccezione infondata, in quanto l’estinzione prevista dall’art. 43 troverebbe applicazione a prescindere dalla natura dei beni oggetto dell’azione esecutiva, facendo sì che la norma consuetudinaria internazionale sull’immunità dei beni degli Stati dalle misure coercitive straniere non assuma (più) rilevanza (a seguito dell’introduzione dell’art. 43) all’interno del giudizio di esecuzione (cfr. punto 3.3. del Considerato in diritto).
L’impostazione assunta dalla Corte, fondata sulla “pregiudizialità” dell’art. 43 rispetto alle norme sull’immunità dall’esecuzione, risulta convincente ed era già stata prospettata in dottrina (v. Berrino 2023b; Boggero 2023; Colacino 2023) come una delle possibili soluzioni per ovviare al problema del difetto di rilevanza.
L’interpretazione fornita dalla Consulta risulta, infatti, l’unica che possa considerarsi aderente al testo dell’art. 43, e ciò anche in quanto tale articolo – come detto – prevede non soltanto l’estinzione dei giudizi di esecuzione eventualmente intrapresi, ma anche l’impossibilità di iniziare ab origine delle procedure esecutive. Va da sé che l’articolo debba trovare necessariamente applicazione in un momento logicamente antecedente rispetto alla norma consuetudinaria sull’immunità dall’esecuzione; quest’ultima infatti richiede una valutazione circa la pignorabilità dei beni, al contrario invece dell’art. 43 che impedirebbe ex ante l’attivazione delle procedure esecutive in forza degli specifici titoli giudiziali a cui l’art. 43 fa riferimento nel precludere l’esecuzione forzata.
8. Il contesto in cui è stato adottato l’art. 43: dal ‘diritto soggettivo all’indennizzo’ al ‘diritto individuale al risarcimento del danno’
Prima di affrontare le questioni di legittimità costituzionale nel merito, la Corte si è addentrata in un lungo excursus dedicato al quadro normativo e giurisprudenziale in cui si è inserito l’art. 43, e all’interno del quale era necessario, agli occhi dei giudici, collocare, dunque, il giudizio di costituzionalità (cfr. punto 4-punto 11 del Considerato in diritto).
Anzitutto, i giudici hanno richiamato il tema delle riparazioni dei danni di guerra, evidenziando come, dopo il Secondo conflitto mondiale, l’Italia, a livello internazionale, abbia rinunciato a suo nome e a nome dei cittadini italiani, ai sensi dell’art. 77, c. 4 del Trattato di Pace di Parigi del 1947, a qualsiasi pretesa nei confronti della Germania e dei cittadini tedeschi, pendente alla data dell’8 maggio 1945, e come, a livello interno, abbia erogato degli indennizzi e contributi.
La Corte ha però poi statuito come rispetto al generale tema delle riparazioni di guerra, sia emersa ad un certo punto l’esigenza «peculiare e speciale […] di apprestare un ristoro alle vittime dei crimini di guerra nazisti».
Tale esigenza ha fatto sì che venissero stipulati gli Accordi italo-tedeschi di Bonn del 2 giugno del 1961, ovvero – come noto – l’Accordo relativo al regolamento di alcune questioni di carattere patrimoniale, economico e finanziario, reso esecutivo con d.P.R. 14 aprile 1962 n. 1263 e quello attinente agli indennizzi a favore di cittadini italiani che erano stati colpiti da misure di persecuzione nazionalsocialiste, reso esecutivo con L. 6 febbraio 1963, n. 404.
La Corte si è soffermata in particolare sulla disciplina del secondo Accordo di Bonn menzionato, ovvero quello reso esecutivo con L. 6 febbraio 1963, n. 404, sostenendo come questo fosse maggiormente rilevante nel giudizio, ed evidenziando come tale Accordo preveda all’art. 3 una clausola liberatoria, essendo sancito che con il pagamento di 40 milioni di marchi da parte dello Stato tedesco vengono regolate in modo definitivo tutte le questioni tra Italia e Germania oggetto dell’accordo.
I giudici hanno poi ricostruito come la somma versata dallo Stato tedesco sia stata distribuita in Italia secondo quanto disposto dal d.P.R. 6 ottobre 1963, n. 2043 – che ha previsto, all’art. 6, un termine entro il quale presentare domanda per accedere alle somme versate dalla Germania e, all’art. 10, i criteri di distribuzione della somma tra i beneficiari – e come siano poi successivamente state adottate normative speciali volte ad incrementare la tutela apprestata.
Ciò detto, la Corte ha evidenziato come all’epoca degli Accordi di Bonn operasse l’immunità degli Stati dalla giurisdizione civile di cognizione straniera anche per i delicta imperii, e dunque, gli individui potessero essere considerati titolari di un diritto soggettivo all’indennizzo.
Tuttavia, la Corte ha altresì evidenziato che a seguito dell’evoluzione giurisprudenziale verificatasi in Italia a partire dalla sentenza Ferrini e consolidatosi a seguito della 238/2014, la situazione fosse mutata e fosse sorto un vero e proprio diritto individuale al risarcimento.
L’emergere di un diritto individuale al risarcimento ha posto al legislatore il problema del rispetto della clausola liberatoria contenuta nel richiamato Accordo di Bonn.
Per questo motivo il legislatore ha adottato una norma ad hoc – l’art. 43 – volta a chiudere in modo definitivo ogni questione con lo Stato tedesco, al fine di garantire il mantenimento di buoni rapporti internazionali – anche in considerazione del nuovo ricorso instaurato dalla Germania dinanzi alla CIG – e dare, nel rispetto del vincolo costituzionale (art. 117, c. 1, Cost.) dell’osservanza dei trattati, continuità all’Accordo richiamato.
Citando le parole della Corte: «Proprio in continuità con tale Accordo, lo Stato si fa carico – con una norma virtuosa, anche se onerosa – del «ristoro» dei danni subìti dalle vittime di crimini di guerra, compiuti, dalle forze armate del Terzo Reich, sul territorio italiano o comunque in danno di cittadini italiani».
Peculiare è il fatto che la Corte abbia fatto specifico riferimento all’Accordo di Bonn reso esecutivo con L. 6 febbraio 1963, n. 404, sostenendo come questo rilevasse maggiormente nel giudizio. Come visto, infatti, l’art. 43 afferma invece di voler dare continuità all’Accordo di Bonn reso esecutivo con d.P.R. 14 aprile 1962, n. 1263, tanto è vero che la dottrina, subito dopo l’adozione dell’art. 43, aveva evidenziato come sembrasse che l’Italia intendesse onorare l’impegno preso ai sensi dell’art. 2, c. 1, di tale Accordo, di tenere indenne la Germania e le persone fisiche o giuridiche tedesche – a fronte del pagamento da parte dello Stato tedesco di 40 milioni di marchi – da rivendicazione e richiesta dell’Italia o di persone fisiche o giuridiche italiane, purché derivanti da diritti o ragioni sorti nel periodo tra il 1° settembre 1939 e l’8 maggio 1945, e come ciò costituisse un revirement rispetto alla posizione assunta in passato dall’Italia, che aveva sempre negato che con gli Accordi di Bonn fosse stata risolta – se non in maniera molto limitata – la questione dei risarcimenti per i crimini commessi dal Terzo Reich (v. Gradoni; Boggero 2022; Pavoni; Bufalini).
La decisione dei giudici costituzionali non sembra dunque porsi in perfetta armonia con quanto espressamente richiamato dall’art. 43.
Più che riferimento alla clausola liberatoria di cui all’art. 3 dell’Accordo di Bonn reso esecutivo con L. 6 febbraio 1963, n. 404, sarebbe stato allora forse più opportuno evidenziare l’esistenza di una continuità storico funzionale con, in generale, la finalità ultima perseguita da entrambi gli Accordi di Bonn e ricercata dall’art. 43 con il richiamo all’Accordo reso esecutivo con d.P.R. 14 aprile 1962, n. 1263, ovvero la volontà di porre una pietra tombale sulla questioni relative ai fatti della Seconda guerra mondiale tra Italia-Germania (ed i loro cittadini), passando poi ad evidenziare (così come effettivamente fatto dalla Corte) come il sopraggiungere di un diritto al risarcimento – all’epoca degli Accordi di Bonn inesistente – in forza del venire meno dell’immunità per delicta imperii, abbia reso necessario conciliare due contrapposti interessi, quello della salvaguardia dei rapporti internazionali tra Germania e Italia, regolati dagli Accordi di Bonn, e quello della garanzia della tutela dei diritti sopravvenuti degli individui.
9. Sulla prima questione di legittimità costituzionale (ovvero il cuore della decisione): il Fondo fornisce una adeguata – ed anzi maggiore – tutela alternativa a quella conseguibile con l’esecuzione forzata
Chiarite le ‘radici’ dell’art. 43, la Corte ha affrontato la questione della legittimità costituzionale di tale articolo con riferimento agli artt. 2 e 24 Cost., dichiarandola infondata, in forza del «non irragionevole bilanciamento» operato dal legislatore, nel comporre l’art. 43, tra i principi – entrambi di rango costituzionale – della garanzia della tutela giurisdizionale dei diritti, che comprende anche l’esecuzione forzata in quanto necessaria a rendere effettiva l’attuazione delle sentenze di cognizione, tanto più quando è in gioco la lesione di un diritto fondamentale, e del rispetto degli obblighi internazionali, e quindi anche di quanto previsto dai trattati (v. punto 13 del Considerato in diritto).
I passaggi successivi della sentenza sono stati dedicati alle ragioni in virtù delle quali la Consulta ha riscontrato la bontà del bilanciamento.
Anzitutto, la Corte, richiamando la propria pregressa giurisprudenza, ha affermato come talvolta l’illegittimità di disposizioni processuali che determinavano l’estinzione dei giudizi di esecuzione sia stata esclusa, e ciò a fronte dell’esistenza di disposizioni a carattere sostanziale in grado di garantire, per una via diversa rispetto all’esecuzione forzata, «la sostanziale realizzazione dei diritti oggetto delle procedure esecutive» (v. punto 15 del Considerato in diritto).
La Corte ha così smentito di fatto l’impostazione assunta dal giudice rimettente, il quale aveva concepito l’esecuzione forzata come un diritto assoluto, insuscettibile di bilanciamento e, dunque, di compressione.
Tanto premesso, era necessario per la Corte chiarire che cosa dovesse intendersi con quel riferimento alla «sostanziale» realizzazione dei diritti oggetto delle procedure esecutive, ovvero quale dovesse essere il grado di tutela di tali diritti offerto da disposizioni a carattere sostanziale affinché l’esecuzione forzata potesse essere estinta; in altri termini, se il Fondo – per risultare una legittima forma di tutela alternativa all’esecuzione forzata – dovesse necessariamente erogare l’intero quantum individuato nelle sentenze di cognizione o potesse anche limitarsi ad elargire una parte di tale quantum.
La Corte, richiamando la propria sentenza del 22 marzo 1995, n. 103, ha individuato i parametri in forza dei quali operare il giudizio di congruità di un intervento legislativo che determini l’estinzione della tutela in executivis, sostenendo come in passato fosse stata esclusa l’illegittimità costituzionale dell’intervento del legislatore in casi in cui la legge superveniens aveva soddisfatto, anche se non integralmente, le ragioni fatte valere nei giudizi dei quali si imponeva l’estinzione, essendo necessario e sufficiente, per escludere l’illegittimità, riscontrare un arricchimento delle situazioni giuridiche dei creditori in forza della normativa sopravvenuta.
Attraverso il richiamo della propria decisione, la Consulta ha, dunque, ammesso la legittimità costituzionale dell’art. 43 non soltanto qualora il ristoro fornito dal Fondo fosse corrisposto all’intero quantum irrogato dalle sentenze di cognizione, ma – perlomeno potenzialmente – anche qualora fosse stata elargita una somma inferiore rispetto all’intero quantum liquidato.
Tuttavia, la possibilità di considerare eventualmente legittima l’estinzione delle procedure esecutive anche qualora il Fondo avesse erogato un pagamento non corrispondente all’intero quantum delle sentenze, non è stata infine rilevante ai fini della decisione, se non a fortiori.
I giudici costituzionali hanno, infatti, immediatamente evidenziato come l’art. 43 comporti sì l’estinzione della procedura esecutiva ma al tempo stesso offra ai creditori la tutela del Fondo, che istituisce «un meccanismo di traslazione dell’onere economico recato dall’obbligazione risarcitoria accertata con sentenza passata in giudicato» in grado di conciliare i principi costituzionali in gioco nella valutazione della legittimità costituzionale della norma: «al credito risarcitorio nei confronti della Germania è sostituito un diritto di analogo contenuto sul Fondo». (punto 16 del Considerato in diritto).
La Corte ha, dunque, sostenuto che, nel caso di specie, potessero dirsi integrati quei parametri previsti dalla propria giurisprudenza affinché l’estinzione dei giudizi potesse essere considerata legittima, in quanto l’estinzione è compensata dalla tutela approntata dal Fondo che non solo è di pari importo rispetto a quanto individuato in sede di cognizione, ma è addirittura in grado di soddisfare maggiormente le aspettative dei creditori, prevedendo il pagamento (in cui sono incluse anche le spese processuali) in un’unica soluzione entro 180 giorni dalla presentazione della domanda di accesso al Fondo – così come specificato dal decreto interministeriale attuativo all’art. 4, c. 3 – e non essendovi l’incertezza legata all’operatività dell’immunità dei beni degli Stati dalle misure coercitive straniere, la quale invece opererebbe qualora i creditori dovessero ricorrere allo strumento dell’esecuzione forzata per la soddisfazione dei loro diritti (punto 17 del Considerato in diritto).
La decisione dei giudici costituzionali è parsa – almeno in una certa misura – potersi dire ‘annunciata’.
Se è vero, infatti, che, nella prolungata incertezza circa il significato del ristoro previsto dal Fondo, la dottrina si era ‘scontrata’ sulla possibilità di salvaguardare o meno l’art. 43 qualora il Fondo avesse erogato soltanto una parte delle somme liquidate nelle sentenze di condanna (v. Brunelli et al.), questa era però sempre stata concorde nel ritenere che l’elisione dell’esecuzione forzata sarebbe stata legittima qualora, attraverso il Fondo, fosse stato pagato il pieno risarcimento individuato nei giudizi di cognizione.
Alla luce, dunque, del sopravvenire del decreto interministeriale attuativo e dei chiarimenti dell’Avvocatura di Stato all’udienza dinanzi alla Consulta, è sembrato potersi sostenere che il Fondo avrebbe erogato l’intero quantum previsto dalle sentenze di cognizione, andando così a configurare una sorta di adempimento da parte del terzo, per quanto in forma atipica rispetto a quella prevista dal codice di rito (o – come sostenuto dalla Corte sempre al punto 17 del Considerato in diritto – di «una sorta di espromissione ex lege, eccezionalmente a contenuto liberatorio»).
Quello invece che ha stupito della decisione della Corte è stato il fatto che questa abbia sostenuto che la piena esecuzione delle sentenze passate in giudicato potesse essere dedotta direttamente in forza del testo dell’art. 43 (sulla base del fatto che il c. 2 prevede per l’accesso al Fondo la titolarità di sentenze passate in giudicato e che il c. 3 stabilisce che le sentenze siano eseguite esclusivamente a valere sul Fondo), e non invece sulla base di quanto statuito nel decreto interministeriale attuativo, al quale – secondo i giudici costituzionali – erano state demandate soltanto le modalità di erogazione degli importi e non anche l’identificazione del quantum, con la conseguenza che tale decreto si sarebbe limitato ad apportare un ulteriore chiarimento circa la portata della tutela apprestata dal Fondo.
La spiegazione rispetto alla posizione assunta dalla Consulta può essere forse rinvenuta nella volontà della Corte di salvaguardare la norma, eludendo quelle problematiche di legittimità costituzionale che avrebbero potuto porsi qualora la Corte avesse riconosciuto che l’identificazione del quantum erogato dal Fondo fosse stato individuato da una fonte di rango secondario (Veronesi; Berrino 2023a).
Peraltro, se pare non esservi più alcun dubbio sulla possibilità che il Fondo eroghi l’intero quantum dei risarcimenti (sarebbe quanto mai inverosimile un revirement rispetto alle dichiarazioni dall’Avvocatura durante l’udienza dinanzi alla Consulta!), si potrebbe tuttavia anche sostenere che la decisione della Corte vincoli ora l’azione statale.
Attualmente infatti non è possibile sapere se gli importi finora stanziati per il Fondo saranno sufficienti a soddisfare tutte le pretese dei creditori (soprattutto considerato che il termine per la proposizione di nuove azioni è scaduto il 28 giugno 2023). Da questo punto di vista la decisione della Consulta è stata criticata, in quanto la Corte – nell’incertezza delle somme a cui i creditori avranno diritto – non avrebbe potuto ritenere sussistente un effettivo soddisfacimento integrale nei soli sessanta milioni di euro (finora) stanziati (Baiada 2023).
È anche vero che – come più volte sottolineato in dottrina (v. Boggero 2022 e Veronesi) – la nota di lettura al d.l. 36/2022 del Servizio del Bilancio del Senato ha affermato che le somme previste per il Fondo non sono configurati come limiti massimi di spesa; sono unicamente oggetto di una previsione, e non di un’autorizzazione di spesa vera e propria. Inoltre, come già ricordato, l’Avvocatura di Stato ha sostenuto all’udienza dinanzi alla Consulta che il Fondo potrà essere eventualmente rimpinguato (come effettivamente è stato tramite quanto disposto dal già richiamato art. 8, comma 11-quater della L. 24 febbraio 2023 n. 14).
Si potrebbe allora affermare che la Corte abbia consegnato una decisione che – a prescindere da quanto effettivamente chiarito dall’art. 43 o dal decreto interministeriale attuativo – non lasci (più) scelta allo Stato, avendo i giudici costituzionali preso le mosse dal presupposto che il ristoro equivalga al risarcimento del danno. Così, quindi, come la 238/2014 ha vincolato il circuito Governo-Parlamento nel ricercare una soluzione che non si ponesse in contrasto con la decisione dei giudici costituzionali (Rossi), anche la sentenza 159/2023 sembra ora in qualche modo impegnare nuovamente l’azione statale.
10. Sulla seconda questione di legittimità costituzionale: le motivazioni a fondamento della prima quaestio ‘allo specchio’
Rispetto alla seconda questione di legittimità costituzionale attinente alla violazione degli artt. 3 e 111 Cost., la Corte si è limitata a dichiarare la non fondatezza per ragioni analoghe a quelle già evidenziate con riferimento alla prima quaestio legitimitatis, sostenendo come «la disciplina differenziata ed eccezionale» prevista dall’art. 43 sia giustificata dalla «assoluta peculiarità della fattispecie» che richiede un bilanciamento tra i già richiamati principi supremi della Costituzione, e ribadendo come l’art. 43 rappresenti un «non irragionevole punto di equilibrio» (cfr. punto 18 del Considerato in diritto).
11. Sulla terza questione di legittimità costituzionale: un non liquet
Infine, la Consulta ha ritenuto non fondata anche la terza questione di legittimità costituzionale sollevata, ancora una volta, con riferimento all’art. 3 Cost. (cfr. punto 19 del Considerato in diritto).
Secondo la Corte, il giudice a quo avrebbe preso in considerazione il testo dell’art. 43 ante conversione in legge; se effettivamente il testo originario dell’articolo prevedeva la disparità di trattamento invocata dal rimettente, tale disparità è venuta meno con la conversione in legge della norma, che preclude l’esecuzione forzata fondata su tutti i titoli giudiziali di condanna della Germania per i danni cagionati alle vittime dei crimini commessi dal Terzo Reich durante la Seconda guerra mondiale, con la conseguenza che il trattamento di miglior favore, ipotizzato dal rimettente nei confronti dei creditori in forza di sentenze straniere, non sussiste.
La Corte ha evidenziato poi come di ciò fosse ben consapevole anche la Regione Sterea Ellada, la quale, nella memoria depositata nel giudizio costituzionale, ha denunciato il trattamento di minor favore nei suoi confronti, dal momento che il venire meno della procedura esecutiva non viene compensata dal Fondo ristori.
Per questo motivo, la Regione Sterea Ellada ha chiesto alla Corte di sollevare di fronte a sé stessa la questione di legittimità costituzionale nei termini “corretti”. Tuttavia, la Consulta ha ritenuto che la questione si ponesse al di fuori del thema decidendum e che l’autorimessione non potesse essere giustificata in assenza del nesso di pregiudizialità.
Leggendo le motivazioni della decisione rispetto alla terza quaestio legitimitatis si ha l’impressione che la sentenza sia ‘dimezzata‘.
Ammettendo, infatti, l’esistenza di un trattamento di minor favore nei confronti di creditori in forza di titoli stranieri, i giudici sembrano aver implicitamente riconosciuto come potenzialmente possa sussistere una ‘frizione‘ – per quanto da verificare – tra alcuni principi costituzionali e l’art. 43 nella parte in cui prevede l’estinzione delle procedure esecutive (e l’impossibilità di promuovere nuove azioni) fondate su sentenze straniere, senza la possibilità per i creditori di ottenere soddisfazione tramite il Fondo.
Ora al di là dell’effettiva possibilità o meno per la Corte nel giudizio celebrato di pronunciarsi sulla questione nei termini ‘corretti’, quello che deve essere evidenziato è come la questione relativa alla disparità di trattamento (ed alla lesione dell’effettività della tutela giurisdizionale in executivis) nei confronti dei creditori in forza di sentenze straniere sembri ineluttabilmente destinata ad uscire dalla porta per rientrare – mutatis mutandis – dalla finestra.
All’interno, infatti, di un altro giudizio di esecuzione, instaurato a seguito di un pignoramento presso terzi operato dalla Regione Sterea Ellada – sulla base delle già ricordate decisioni di exequatur di sentenze straniere di condanna della Germania – sui crediti vantati da Deutsche Bahn AG nei confronti di Trenitalia s.p.a. e Rete Ferroviaria Italiana s.p.a. (Mariottini) le Ferrovie tedesche hanno chiesto, in forza del sopraggiungere dell’art. 43 post conversione in legge, l’estinzione della procedura esecutiva.
Il Tribunale di Roma, sez. III civ., con ordinanza del 19 gennaio 2023, ha ritenuto – sulla base di una lettura coordinata dei vari commi dell’art. 43 – che la preclusione all’esecuzione forzata operi soltanto qualora sussista in capo ai creditori sia il requisito dell’accessibilità giuridico-esecutiva (ovvero i creditori siano titolari di un titolo giudiziale di condanna nei confronti dello Stato tedesco per i danni derivanti dai crimini commessi dal Terzo Reich) sia il requisito della continuità con lo Stato italiano (i crimini siano stati compiti sul territorio italiano o in danno di cittadini italiani); di conseguenza, il Tribunale ha rigettato la richiesta di estinzione, ritenendo che l’art. 43 non operi nei confronti della Regione Sterea Ellada, in quanto in capo alla creditrice mancherebbe uno dei due requisiti, ovvero quello della continuità con l’Italia.
A fronte della decisione, le Ferrovie tedesche hanno presentato reclamo. Il Collegio, invece che pronunciarsi sull’impugnazione, ha emesso un provvedimento interlocutorio. Con l’ordinanza del 21 giugno 2023, è stato osservato che, a seguito della conversione in legge dell’art. 43, quanto previsto dal c. 3, con riferimento alle ipotesi in cui sia azionata un’azione esecutiva in favore di cittadini non italiani per crimini commessi dal Terzo Reich al di fuori del territorio italiano, sarebbe suscettibile di diverse interpretazioni, a seconda che si prenda in considerazione il criterio sistematico oppure quello letterale.
Secondo il Collegio, se il criterio sistematico – utilizzato dal giudice di prime cure – consentirebbe un’interpretazione costituzionalmente conforme dell’art. 43, il criterio letterale condurrebbe invece ad un’interpretazione in contrasto con i principi costituzionali di cui agli artt. 2, 24, 3 Cost. poiché «aderendo a quell’opzione interpretativa sarebbero escluse da ogni forma di tutela attuativa dei diritti […] alcune situazioni giuridiche soggettive (i) riconosciute da provvedimenti giurisdizionali ai quali in tutti gli altri casi è garantita quella tutela ovvero (ii) del tutto corrispondenti a quelle a cui la tutela attuativa è riconosciuta, in entrambe si realizzerebbe un’irragionevole disparità di trattamento, tale da precludere del tutto la soddisfazione, nello Stato, di un diritto pienamente riconosciuto».
Il Collegio, invece di individuare immediatamente il criterio da seguire, ha attribuito un termine alle parti (l’11 settembre 2023) per depositare una memoria in cui prendere posizione rispetto all’interpretazione da fornire dell’art. 43.
È evidente, allora, come la pronuncia della Consulta n. 159/2023, per quanto non abbia investito la legittimità costituzionale dell’art. 43 rispetto all’estinzione delle procedure esecutive fondate su sentenze straniere, abbia mutato il quadro in cui il Tribunale di Roma, sez. III civ., dovrà pronunciarsi. I giudici costituzionali hanno infatti chiarito quale interpretazione debba essere fornita dell’art. 43, escludendo così radicalmente la possibilità di un’interpretazione fondata sul criterio sistematico.
Pertanto, sulla base di quanto affermato dal Collegio del Tribunale di Roma, sez. III civ., sembra inevitabile che verrà presto promossa una nuova questione di legittimità costituzionale, questa volta nei termini ‘corretti’, e, dunque, vi sarà una nuova – altrettanto storica – decisione della Consulta.
12. In conclusione, la valutazione sulla sentenza 159/2023 non può che essere positiva. La decisione, infatti, lungi dal rappresentare «una battuta di arresto negativa» – come invece affermato da Gallo e Baiada – nella lunga vicenda storico-giudiziaria che investe i risarcimenti nei confronti delle vittime della Seconda guerra mondiale, sembra piuttosto costituire un passo in avanti verso l’effettiva soddisfazione delle vittime e la chiusura della controversia internazionale tra Italia e Germania.
Questo passo in avanti è stato fatto dalla Corte in maniera particolarmente avveduta, in quanto la salvaguardia dell’art. 43 nella parte in cui preclude ai creditori – in forza di sentenze di cognizione relative ai danni derivanti dai crimini commessi dal Terzo Reich sul territorio italiano o comunque nei confronti di cittadini italiani – l’esecuzione forzata, è stata operata sulla base della presupposta – ed indiscussa da parte dei giudici della Corte – coincidenza tra ‘ristoro‘ e ‘risarcimento del danno‘ che verrà erogato tramite il Fondo, vincolando così l’azione dello Stato ad una soddisfazione integrale della predetta categoria di creditori (per quanto questa fosse già stata preannunciata dall’Avvocatura di Stato).
Peraltro, si deve anche segnalare come l’assenza – lamentata da parte degli avvocati dei creditori all’udienza dinanzi alla Consulta – di una soddisfazione attuale dei creditori da parte del Fondo, a fronte invece dell’estinzione immediata dell’esecuzione forzata (riprendendo quanto sostenuto dal giudice a quo nell’ordinanza di rimessione, su cui la Corte non si è direttamente pronunciata se non nei limiti in cui ha ritenuto la situazione creata dall’art. 43 soddisfare maggiormente le pretese dei creditori), non possa già più dirsi fondata, dal momento che sul sito del MEF risultano oggi disponibili i vari modelli – menzionati dall’art. 3, c. 1, del decreto interministeriale del 28 giugno 2023 – che consentono ai creditori di presentare la domanda per accedere al Fondo, e ricevere – conformemente a quanto affermato dall’art. 4, c. 3 del citato decreto – il pagamento entro 180 giorni.
Ciò detto, non siamo – ancora una volta – però dinanzi alla fine dell’annosa vicenda italo-tedesca, e, anzi, la sensazione che si prova dopo aver letto la decisione è quella di essere in un eterno déjà-vu, fino alla verosimilmente prossima – decisiva – pronuncia della Consulta rispetto alla preclusione dell’esecuzione forzata nei confronti dei creditori in forza di sentenze straniere oggetto di exequatur in Italia, decisione che sembrerebbe (forse) destinata a chiudere il cerchio e a tessere anche il destino – attualmente ancora incerto – della controversia tra Italia e Germania dinanzi alla CIG, ove le parti parrebbero attendere – come sembrerebbero dimostrare le richieste delle parti alla Corte di proroghe per il deposito delle memorie (oltre al fatto che lo Stato tedesco, a seguito dell’adozione dell’art. 43, ha ritirato la domanda di misure provvisorie che era stata presentata con il nuovo ricorso alla CIG ) – la ‘stabilizzazione’ della soluzione attuata dall’Italia con l’art. 43.
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