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Filiazione omogenitoriale e limiti all’iscrizione e trascrizione dei rapporti derivanti da tecniche di PMA vietate in Italia: niente di nuovo sul fronte di Strasburgo

Michele Grassi (Università degli Studi di Milano)

1. Con tre recenti decisioni, rese in data 23 giugno 2023, la Corte europea dei diritti dell’uomo è tornata a occuparsi delle complesse problematiche che accompagnano il riconoscimento dei rapporti di filiazione dei nati a seguito di fecondazione eterologa o surrogazione di maternità, negli ordinamenti, come quello italiano, in cui il ricorso a tali tecniche di procreazione medicalmente assistita (“PMA”) è, in tutto o in parte, vietato. In particolare, nel caso Nuti et al. c. Italia (app. n. 47998/20 e n. 23142/21) la Corte EDU ha dichiarato l’irricevibilità di due ricorsi presentati a fronte del rifiuto opposto dall’ufficiale di stato civile italiano alla ricezione e iscrizione delle dichiarazioni di riconoscimento di minori – concepiti all’estero tramite fecondazione eterologa, ma nati in Italia – quali figli naturali di due coppie di donne (in entrambi i casi cittadine italiane e residenti abitualmente in Italia). Nei casi Bonzano et al. c. Italia (app. n. 10810/20, n. 29038/20 e n. 2738/21) e Modanese c. Italia (app. n. 59054/19, n. 12109/20 e n. 45426/21) la Corte di Strasburgo ha, invece, dichiarato irricevibili sei ricorsi proposti avverso il rifiuto di trascrivere gli atti di nascita, formati all’estero, di minori nati a seguito di surrogazione di maternità, nei quali erano indicati come genitori i rispettivi committenti, partner dello stesso sesso, e, quindi, anche i soggetti privi di un legame biologico con i bambini in questione.

Le decisioni in commento sono state oggetto di un’elevata attenzione mediatica, che trova giustificazione nella grande rilevanza sociale e politica delle problematiche sottese. La definizione, in senso giuridico, dei rapporti di famiglia è, infatti, un tema particolarmente delicato, che tocca la struttura fondamentale di una società ed esprime in modo paradigmatico le convinzioni antropologiche ed etiche su cui si fonda la convivenza civile. Al contempo, i rapporti familiari costituiscono la trama delle relazioni più intime in cui si sviluppa la personalità di ogni individuo; la definizione degli status giuridici in questione coinvolge, quindi, l’identità stessa delle persone interessate e la loro dignità.

Le questioni implicate nella disciplina della filiazione (in particolare, omogenitoriale) sono, da qualche tempo, al centro del dibattito pubblico; dibattito che, purtroppo, a causa dell’estrema polarizzazione delle posizioni, non sempre appare consono all’estrema delicatezza delle problematiche sottese. È di pochi giorni precedente alle decisioni in esame la notizia dell’impugnazione da parte della Procura della Repubblica di Padova di trentatré atti di nascita, in cui erano state indicate quali madri dei minori anche le partner dello stesso sesso delle rispettive madri biologiche, in violazione – secondo la Procura – delle pertinenti disposizioni di legge in materia di filiazione e PMA.

2. Come noto, la fecondazione eterologa prevede l’impianto nell’utero della gestante (sempre interna alla coppia) di uno più embrioni formati con gameti maschili e/o femminili esterni alla coppia; la surrogazione di maternità, invece, implica che una donna porti a termine una gravidanza su commissione di una coppia (o di una singola persona), dopo fecondazione in vitro o inseminazione naturale o artificiale. Benché comunemente ricondotte alla generale categoria della PMA, le due tecniche testé menzionate sollevano, con tutta evidenza, questioni giuridiche ed etiche profondamente diverse. Cionondimeno, le succinte motivazioni della Corte EDU nelle decisioni in commento paiono in buona parte sovrapponibili e non riservano, in realtà, particolari sorprese, se considerate alla luce della precedente giurisprudenza di Strasburgo sul tema (v. in particolare, le decisioni nei casi Mennesson c. Francia, Labassee c. Francia, Paradiso e Campanelli c. Italia, Valdís Fjölnisdóttir et al. c. Islanda,D.B. et al. c. Svizzera, nonché il parere consultivo del 10 aprile 2019, n. P16-2018-001; su cui v., ex multis, Baratta, Baruffi, Feraci 2019, Feraci 2015 e Tonolo 2015).

Come è agevole intuire, le doglianze dei ricorrenti (i minori e i rispettivi genitori intenzionali) vertevano sulla asserita violazione del proprio diritto al rispetto della vita privata e familiare, di cui all’art. 8 CEDU, nonché, nei casi Nuti et al. e Modanese, del divieto di discriminazione sancito dall’art. 14 CEDU.

Seguendo il consueto iter argomentativo impiegato per valutare le possibili violazioni dell’art. 8 CEDU, la Corte di Strasburgo:

(a) accerta l’avvenuta instaurazione di una vita familiare tra i soggetti coinvolti, ritenendo, a questo fine, sufficiente che i genitori intenzionali abbiano accudito il minore fin dalla nascita e vissuto insieme a questi, secondo modalità che non si distinguono dall’accezione che la nozione di «vita familiare» comunemente assume;

(b) rileva come la mancata ricezione delle dichiarazioni di riconoscimento o trascrizione degli atti di nascita da parte dell’ufficiale di stato civile rappresenti una chiara ingerenza nella vita privata e familiare dei soggetti coinvolti;

(c) riconosce, tuttavia, come una simile ingerenza, oltre a essere prevista dalla legge, risponda agli obiettivi legittimi della tutela della salute e della protezione dei diritti e delle libertà altrui, di cui all’art. 8 par. 2 CEDU (per cogliere il senso di questo passaggio, è utile riferirsi alle precedenti decisioni della Corte nei casi sopra menzionati, in cui erano state accolte le argomentazioni degli Stati convenuti, secondo cui il rifiuto di riconoscere il rapporto di filiazione tra il minore e i genitori intenzionali si giustificava in ragione della volontà di dissuadere i propri cittadini dal ricorrere all’estero a metodi di procreazione vietati sul territorio nazionale, al fine di preservare i diritti e il benessere del minore e, nel caso di surrogazione di maternità, della madre del bambino, v. Mennesson c. Francia, par. 62; Labassee c. Francia, par. 54 e D.B. et al. c. Svizzera par. 62);

(d) si interroga sulla necessità di una simile ingerenza in una società democratica e, cioè, se essa sia fondata su un’esigenza sociale impellente e proporzionata agli obiettivi perseguiti.

A questo fine, la Corte di Strasburgo concentra il suo esame sulla posizione dei minori coinvolti. Da un lato, richiamando un principio affermato già nella giurisprudenza testé menzionata, la Corte ricorda che il rispetto della vita privata del minore impone che il diritto degli Stati parti della Convenzione offra la possibilità di fornire un inquadramento giuridico al rapporto affettivo e sociale tra il bambino e il genitore intenzionale, indipendentemente dalle tecniche di procreazione impiegate dalle persone coinvolte nel c.d. «progetto procreativo» o dal loro orientamento sessuale. Ciò per due ordini di considerazioni. In primo luogo, l’interesse superiore del minore impone che sia (lato sensu) riconosciuto il rapporto giuridico con le persone responsabili della sua educazione, del suo mantenimento e del suo benessere e che il bambino possa vivere e crescere in un ambiente sociale stabile. In secondo luogo, l’assoluta impossibilità di riconoscere un legame tra il genitore intenzionale e il bambino porrebbe quest’ultimo in una situazione di incertezza giuridica, ledendo inevitabilmente il suo diritto all’identità personale (con tutte le possibili ulteriori conseguenze, in materia di diritti ereditari, diritto agli alimenti, diritto all’acquisto della cittadinanza o di soggiorno nello Stato del genitore intenzionale).

Dall’altro lato, la Corte di Strasburgo sottolinea che, sebbene gli Stati parti della CEDU siano tenuti ad assicurare un inquadramento giuridico al rapporto sociale e affettivo tra il minore e il genitore intenzionale, essi nondimeno godono di un margine di apprezzamento alquanto ampio nella definizione delle modalità concrete tramite cui tale riconoscimento deve avvenire. L’iscrizione nei registri dello stato civile degli atti di riconoscimento del minore quale figlio naturale di una coppia dello stesso sesso (nel caso Nuti e al.) o la trascrizione, nei medesimi registri, dell’atto di nascita formato all’estero (nei casi Bonzano et al. e Modanese) rappresentano certo una possibilità, ma non sono l’unica strada.

La Corte di Strasburgo rileva come nell’ordinamento italiano, al di fuori dei casi previsti dalla legge, non sia consentita la realizzazione di forme di genitorialità svincolate da un rapporto biologico. In particolare, per le ragioni che vedremo meglio più sotto, il ricorso alle tecniche di fecondazione eterologa in Italia è riservato alle sole coppie di sesso diverso; di conseguenza, in assenza di legame biologico, non è permesso il riconoscimento di un minore da parte di una donna legata in unione civile con la madre del bambino. Al contempo, il ricorso alla maternità surrogata è in ogni caso vietato, quale che sia l’orientamento sessuale dei genitori intenzionali, e il nostro ordinamento impedisce che, quale esito automatico dell’accordo di surrogazione, si costituisca un rapporto di genitorialità tra il minore e i soggetti committenti privi di legami biologici. Secondo la giurisprudenza, peraltro, in questo secondo caso il grado di disvalore che l’ordinamento attribuisce alla condotta è tale da impedire il riconoscimento di decisioni straniere che stabiliscano un legame di filiazione tra il minore e il soggetto committente privo di legami biologici con il minore, per contrasto con l’ordine pubblico internazionale italiano. I giudici di Strasburgo notano, tuttavia, come in entrambi i casi l’ordinamento italiano non escluda, in via assoluta, la possibilità di fornire un inquadramento giuridico al rapporto tra il minore e il genitore intenzionale, privo di legami biologici. In particolare, come si vedrà meglio sotto, la giurisprudenza ha, ormai da qualche anno, individuato nell’istituto dell’adozione «in casi particolari», di cui all’art. 44 co. 1 lett. d della legge 4 maggio 1983, n. 184, la modalità per riconoscere (o, meglio, costituire, nella prospettiva dell’ordinamento italiano) il rapporto di filiazione tra i soggetti in questione (v. ex multis Cassazione civile, sentenza 8 maggio 2019, n. 12193 e sentenza 30 dicembre 2022, n. 38162, su cui v. meglio infra al par. 4). Tale istituto, che a seguito del recente intervento della Corte costituzionale (con sentenza 23 febbraio 2022 n. 79) comporta il pieno inserimento dell’adottato nella famiglia dell’adottante, è secondo la Corte EDU – con specifico riferimento ai casi sottoposti al suo esame – sufficiente a tutelare le posizioni dei minori coinvolti.

Alla luce di tali considerazioni, i giudici di Strasburgo escludono ogni violazione della vita privata e familiare dei minori e, a fortiori, dei genitori intenzionali; questi ultimi, infatti, pur avendone avuto la possibilità, avevano omesso di avviare il procedimento di adozione dei bambini in questione, pretendendo, invece, la trascrizione in Italia dei provvedimenti giurisdizionali stranieri o degli atti di nascita formati all’estero che attestavano il loro rapporto con i minori.

3. Prima di esaminare gli aspetti lasciati aperti dalle decisioni in commento, sembra utile ricostruire sinteticamente il quadro della disciplina italiana in materia di costituzione e riconoscimento dei rapporti di filiazione omogenitoriale.

Quanto al problema della costituzione dei rapporti in questione secondo il diritto italiano, il discorso è abbastanza semplice: il nostro ordinamento, infatti, esclude tout court la possibilità di costituire un rapporto di filiazione tra un minore e una coppia dello stesso sesso.

Da un lato, l’art. 6 co. 1 della l. 184/1983 riserva l’adozione (piena) dei minori alle sole coppie unite in matrimonio da almeno tre anni. L’art. 1 co. 20 della legge 20 maggio 2016, n. 76, in materia di unioni civili, esclude, poi, che la disposizione in questione possa estendersi in via analogica anche alle coppie legate da unione civile.

Dall’altro lato, se, a seguito della sentenza 10 giugno 2014, n. 162 della Corte Costituzionale, in Italia è oggi possibile ricorrere alla fecondazione eterologa nei casi in cui sia stata diagnosticata una patologia che sia causa di sterilità o infertilità assolute e irreversibili, l’art. 5 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 riserva l’accesso alle tecniche di PMA alle sole coppie maggiorenni di sesso diverso. Tale disparità di trattamento è stata giudicata conforme al parametro costituzionale, in ragione delle finalità esclusivamente «terapeutiche» assegnate dalla legge alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, ritenute per questo incompatibili con la «infertilità fisiologica» delle coppie dello stesso sesso (v. Corte costituzionale, sentenza del 23 ottobre 2019, n. 221); né sembra che, allo stato, vi possano essere margini per contestarne la compatibilità con la CEDU, atteso che, in una situazione molto simile, la Corte di Strasburgo non ha ritenuto sussistere alcuna discriminazione fondata sull’orientamento sessuale, reputando la situazione di infertilità delle coppie omoaffettive non assimilabile a quella delle coppie di sesso diverso, affette da particolari patologie riproduttive (Gas e Dubois c. Francia, par. 63).

L’ordinamento italiano vieta, poi, in modo assoluto ogni forma di surrogazione di maternità – a prescindere dall’orientamento sessuale di chi vi faccia ricorso – punendo con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da € 600.000 a un milione chiunque realizzi o anche solo pubblicizzi tale pratica sul territorio italiano (v. art. 12 co. 6 della legge n. 40/2004). Peraltro, è attualmente in discussione alla Camera dei deputati un progetto di legge volto a rendere ancor più stringenti le norme repressive di tale pratica, estendendo la punibilità del reato in questione anche alle condotte realizzate all’estero dal cittadino italiano (v. il podcast Ehi SIDI! dedicato al tema). Di conseguenza, anche laddove si dovesse addivenire in futuro a una piena equiparazione tra coppie dello stesso sesso e coppie di sesso diverso nell’accesso alle tecniche di PMA permesse dalla legge italiana, ciò recherebbe giovamento alle sole coppie composte da due donne. Per ovvie ragioni, infatti, la fecondazione omologa presuppone la complementarietà biologica della coppia, mentre la fecondazione eterologa richiede la presenza di (almeno) una donna.

Con riguardo al riconoscimento dei rapporti di filiazione omogenitoriale costituiti secondo un diritto diverso dalla legge italiana, invece, il discorso è in parte più complesso. Le regole applicabili in tali ipotesi variano a seconda che il rapporto di filiazione sia accertato o costituito all’esito di un procedimento giurisdizionale ovvero derivi direttamente dalla legge straniera, originando da atti o negozi privati posti in essere, se del caso, anche con la partecipazione di pubblici ufficiali stranieri.

Nella prima ipotesi, il rapporto in questione può essere riconosciuto in forza degli artt. 64 o 65 della l. 218/1995. Nel caso dell’art. 65 – specificamente dedicato ai provvedimenti stranieri relativi alla capacità delle persone o all’esistenza di rapporti di famiglia – la decisione in questione è riconosciuta in via automatica, a condizione che sia stata pronunciata dalle autorità dello Stato la cui legge è richiamata dalle pertinenti norme di conflitto italiane (nel caso della filiazione, l’art. 33 della l. 218/1995), non contrasti con l’ordine pubblico e siano stati rispettati i diritti essenziali della difesa. Nell’ipotesi in cui tale disposizione non sia applicabile, e cioè laddove il provvedimento non provenga dal giudice la cui legge è richiamata dalle norme di conflitto italiane, il provvedimento sarà nondimeno riconosciuto (sempre in via automatica) a patto che rispetti le condizioni previste dall’art. 64 della l. 218/1995 (tra cui, la competenza internazionale del giudice che ha pronunciato il provvedimento e il rispetto dell’ordine pubblico, tanto nella sua dimensione sostanziale che processuale).

Nella seconda ipotesi, laddove il rapporto di filiazione sia costituito in base al diritto straniero senza l’intervento dell’autorità giudiziaria, esso sortirà effetti in Italia alle condizioni e nei modi previsti dalla legge applicabile, come individuata dall’art. 33 della l. 218/1995. In particolare, secondo tale disposizione «lo stato di figlio è determinato dalla legge nazionale del figlio o, se più favorevole, dalla legge dello Stato di cui uno dei genitori è cittadino, al momento della nascita» (sul tema v. ex multis, Lopes Pegna, p. 394 ss. e Di Blase 2018, p. 843 ss.). Analogamente, l’art. 35 della stessa legge prevede che «le condizioni per il riconoscimento del figlio sono regolate dalla legge nazionale del figlio al momento della nascita, o, se più favorevole, dalla legge del soggetto che effettua il riconoscimento». L’applicazione della legge straniera è, peraltro, soggetta al limite dell’ordine pubblico, di cui all’art. 16 della l. 218/1995.

Su un diverso piano, poi, il d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, recante l’ordinamento dello stato civile, prevede la possibilità di trascrivere nei pubblici registri gli atti dello stato civile formati all’estero. Più nello specifico, il combinato disposto degli artt. 15 e 17 del d.P.R. 396/2000 stabilisce che le dichiarazioni di nascita che riguardino cittadini italiani nati all’estero devono essere rese all’autorità consolare italiana ivi presente ovvero, se imposto dalla legge straniera, debbono farsi secondo quanto prescritto da quest’ultima e i relativi atti devono essere inviati senza indugio all’autorità consolare, la quale, poi, dovrà trasmetterne copia agli uffici di stato civile del comune di residenza del nato o, se residente all’estero, di nascita o residenza del padre o della madre, ai fini della sua trascrizione. L’art. 19 del d.P.R. 396/2000 prevede, invece, che gli atti che riguardino cittadini stranieri residenti in Italia possono essere trascritti, su richiesta di questi ultimi, nei registri del comune di residenza. L’art. 18 del d.P.R. 396/2000, tuttavia, esclude la trascrivibilità degli atti contrari all’ordine pubblico (nozione che richiama, evidentemente, l’ordine pubblico internazionale di cui agli artt. 16, 64 e 65 della l. 218/1995, con le peculiarità di cui diremo meglio più sotto). Infine, l’art. 28 co. 2 d.P.R. 396/2000 dispone che i provvedimenti giurisdizionali stranieri in materia di nascita – che, come detto, sono riconosciuti automaticamente in Italia alle condizioni previste dagli artt. 64 ss. della l. 218/1995 – vadano trascritti nei registri di stato civile.

La trascrizione opera, come dicevamo, su un piano diverso dalla disciplina internazionalprivatistica appena richiamata (sul punto, ancora attuali, Biscottini, p. 13 ss.; Cafari Panico, p. 11 ss.). Gli atti formati all’estero e trascritti nei registri di stato civile italiani hanno, infatti, valenza probatoria e di documentazione degli status che attestano; non hanno, invece, efficacia costitutiva. Diversamente, si dovrebbe ritenere che gli artt. 15-20 del d.P.R. 396/2000 implichino il riconoscimento automatico – nella loro dimensione sostanziale – delle situazioni risultanti dagli atti stranieri. Ciò, tuttavia, comporterebbe un’implicita sostituzione del tradizionale metodo di conflitto di leggi, generalmente impiegato dalla nostra legge di diritto internazionale privato per il riconoscimento delle situazione costituite all’estero, con una norma ispirata alla «méthode de la reconnaissance» e, cioè, a quel metodo – di per sé sconosciuto all’ordinamento italiano – che consente di riconoscere la situazione esistente nell’ordinamento straniero, a prescindere da ogni considerazione circa il diritto materiale in forza del quale essa si è costituita (v. sul punto Lagarde, Marongiu Bonaiuti p. 68 ss., Davì, p. 335 ss., nonché l’art. 10 della risoluzione dell’Institut de droit international su diritti umani e diritto internazionale privato, su cui v. Rossolillo e Feraci 2022). Una simile conclusione porterebbe, peraltro, a un sostanziale sovvertimento della classica dicotomia di atteggiamento esistente con riguardo al regime di circolazione delle situazioni giuridiche costituite o accertate con un provvedimento giurisdizionale straniero e quelle formatesi per legge o per volontà dei privati e attestate in un atto amministrativo straniero. Come abbiamo visto, infatti, di regola le prime sono riconosciute in via automatica, a condizione che il provvedimento giudiziario che le veicola rispetti determinate condizioni (stabilite, per quanto qui interessa, dagli artt. 64 o 65 della l. 218/1995); le seconde, invece, sono normalmente soggette a un controllo più stringente circa il rispetto delle condizioni previste dalla legge individuata dalle norme di conflitto dell’ordinamento in cui esse sono fatte valere reputa applicabile (e che ben potrebbe non coincidere con la legge di costituzione delle stesse). Tali conseguenze appaiono evidentemente esorbitanti rispetto alla funzione pubblicitaria e di documentazione svolta dalle iscrizioni e trascrizioni nei registri dello stato civile; pare, infatti, da escludere che, con il d.P.R. 396/2000, il legislatore abbia inteso derogare al metodo conflittuale impiegato dalla l. 218/1995 per il riconoscimento delle situazioni, garantendo agli atti pubblici formati all’estero un regime di circolazione più favorevole rispetto a quello previsto per i provvedimenti giurisdizionali.

Nondimeno, la differenza di piani appena evidenziata perde, in parte, di rilievo se si considera che, data la funzione di pubblicità svolta dai registri di stato civile e in considerazione delle formalità previste dalla legge per la loro tenuta, gli atti ivi trascritti fanno fede fino a prova contraria, ai sensi dell’art. 451 co. 2 cod. civ., in ordine allo stato delle persone alle quali si riferiscono – e così debbono essere accettati da tutti gli operatori giuridici, pubblici o privati – fintanto che non siano oggetto di rettificazione, secondo il procedimento di cui all’art. 95 d.P.R. 396/2000, in caso di vizi originatisi nel procedimento di formazione dei relativi atti, e salvo che il loro contenuto non sia sconfessato da un provvedimento giurisdizionale che accerti l’insussistenza del relativo stato (sulle differenze tra i rispettivi procedimenti, v. Campiglio 2019, p. 1132 ss.). Accertamento che, con riguardo ai rapporti di filiazione che presentino elementi di transnazionalità, dovrà essere compiuto sulla scorta della legge applicabile individuata in base all’art. 33 della l. 218/1995.

Se, dunque, è vero che la trascrizione degli atti di nascita o di riconoscimento di minore formati all’estero non pone il rapporto di filiazione al riparo da possibili future contestazioni (Davì, cit. p. 342), essa nondimeno permette che il rapporto in questione sia «accettato» all’interno dell’ordinamento italiano, fintanto che, come detto, non sia sconfessato da un provvedimento giurisdizionale. Ciò spiega perché, di regola, le coppie che si sono recate all’estero per accedere a trattamenti di procreazione medicalmente assistita vietati in Italia cerchino anzitutto un riconoscimento delle relazioni genitoriali così create per il tramite della trascrizione nei registri dello stato civile italiano degli atti di nascita formati in tali Stati. Da quanto detto si comprende, altresì, la ragione per cui, ai fini della trascrivibilità di tali atti, assuma rilievo centrale la ricostruzione più o meno ampia del limite dell’ordine pubblico, su cui, per l’appunto, si è concentrata la giurisprudenza di merito e legittimità degli ultimi quindici anni.

4. Non potendo fornire in questa sede un quadro completo dell’evoluzione giurisprudenziale in materia (e rinviando, a questo scopo, ai numerosi studi sul tema, tra cui v. Campiglio 2022, “Surrogazione di maternità transnazionale e limite dell’ordine pubblico”, in Pesce, p. 61 ss.; Ragni; Di Blase 2021; Baruffi 2020, Savarese, p. 275; Tonolo 2017, p. 1081 ss.) ci limiteremo a indicare sinteticamente i risultati raggiunti dalla giurisprudenza di legittimità.

Anzitutto, pare utile precisare fin da subito che non sempre si pone un problema di ordine pubblico e quindi occorre distinguere le varie ipotesi.

In particolare, il limite in questione non viene in rilievo laddove l’ufficiale di stato civile sia chiamato non già a trascrivere un atto straniero, ma a formare l’atto di nascita di un minore, cittadino italiano, nato in Italia a seguito del ricorso a fecondazione eterologa da parte di una coppia femminile, in cui si chieda l’indicazione di entrambe le donne (cittadine italiane) quali madri del bambino o la rettificazione dell’atto originario, a seguito del riconoscimento del figlio operato dalla madre intenzionale. In questo caso, come correttamente rilevato dalla Corte di Cassazione nella sentenza 22 aprile 2020, n. 8029 (nella medesima vicenda processuale da cui, peraltro, è scaturito uno dei ricorsi nel caso Nuti et al.), la fattispecie è interamente assoggettata alla legge italiana, non presentando elementi di estraneità che giustifichino l’applicazione di una legge straniera (il luogo di concepimento del figlio è, infatti, irrilevante secondo l’art. 33 della l. 218/1995) e rispetto alla quale solo potrebbe porsi un problema di compatibilità con l’ordine pubblico degli effetti da questa prodotti. In tali circostanze, l’ufficiale di stato civile è tenuto per legge a rifiutare l’iscrizione o la rettificazione dell’atto di nascita, in quanto contrarie alla disciplina sulla filiazione e procreazione medicalmente assistita italiana. Lo stesso principio è stato di recente ribadito dalla stessa Corte di Cassazione, nella sentenza 7 marzo 2022, n. 7413. Ciò, di per sé, non esclude la possibilità, per la madre intenzionale, di accedere alla adozione «in casi particolari»; tuttavia, come vedremo, la Corte Costituzionale, con sentenza 9 marzo 2021, n. 32, ha ritenuto tale istituto non adeguato a tutelare, in modo pieno, la posizione del minore.

Viene da chiedersi se sia possibile prospettare una soluzione differente nel caso in cui una delle due madri abbia una cittadinanza diversa da quella italiana, in base alla quale sia possibile costituire il rapporto di filiazione (nei confronti di entrambe le madri, giacché la legge straniera più favorevole si estende, giusto il disposto dell’art. 33 co. 1 della l. 218/1995, anche alla madre italiana, v. Di Blase 2018 cit., p. 862). Se si parte dalla constatazione secondo cui gli ufficiali di stato civile non sono tenuti a conoscere e, quindi, ad applicare il diritto straniero (l’art. 14 della l. 218/1995 in materia di conoscenza della legge straniera menziona, infatti, solo i giudici; sul punto v. anche Massimario per l’ufficiale di stato civile, p. 159), vi è una buona probabilità che l’ufficiale rifiuti comunque la formazione di un atto di nascita che indichi entrambe le donne come madri; nondimeno, un simile rifiuto potrebbe essere impugnato dinanzi all’autorità giudiziaria che, a quel punto, sarebbe, secondo noi, tenuta a riconoscere il rapporto di filiazione (dovendosi escludere, per le ragioni che vedremo subito, che l’identità di sesso delle madri, così come il fatto che esse abbiano eluso il divieto posto dalla legge italiana in materia di fecondazione eterologa, si ponga in contrasto con l’ordine pubblico internazionale italiano).

Nelle ipotesi in cui, invece, all’ufficiale di stato civile sia richiesta la trascrizione di un atto di nascita o di riconoscimento del figlio formato all’estero (ai sensi degli artt. 15 ss. d.P.R. 396/2000 e a prescindere dalla individuazione della legge regolatrice del rapporto di filiazione in base agli artt. 33 e 35 della l. 218/1995, dunque ai soli fini pubblicitari cui tende la trascrizione) o di un provvedimento giurisdizionale straniero (ai sensi dell’art. 28 d.P.R. 396/2000) che accerti la sussistenza del rapporto di filiazione a favore di una coppia dello stesso sesso, potrebbe porsi un problema di ordine pubblico. Il rispetto di tale limite è, infatti, espressamente richiesto per la trascrizione di atti formati all’estero dall’art. 18 d.P.R. 396/2000, ed è posta quale condizione per il riconoscimento automatico dei provvedimenti giurisdizionali stranieri dagli artt. 64 ss. della l. 218/1995, riconoscimento che costituisce il presupposto per la loro trascrizione nei registri di stato civile italiani ai sensi dell’art. 28 d.P.R. 396/2000.

In tali ipotesi, la giurisprudenza distingue a seconda della tecnica procreativa da cui deriva il rapporto in questione.

Con riguardo ai rapporti di filiazione derivanti da fecondazione eterologa realizzata da una coppia dello stesso sesso (necessariamente di donne), la Corte di Cassazione, con sentenza 30 settembre 2016, n. 19599, ha ritenuto che non contrasta con il limite dell’ordine pubblico internazionale la trascrizione nei registri dello stato civile italiani di un atto straniero (formato in Spagna) che attesti la nascita di un figlio da una donna italiana, che ha donato l’ovocita, e da una donna spagnola, che ha partorito il bambino, e che indichi entrambe le donne come madri. Ciò nonostante il fatto che il legislatore nazionale vieti il verificarsi di una simile fattispecie sul territorio italiano e non consenta la costituzione, secondo il diritto italiano, di relazioni omogenitoriali. Secondo la Corte, infatti, l’elusione dei divieti in parola non contrasta con principi o valori di rango costituzionale o, comunque, fondanti dell’assetto ordinamentale. Da un lato, assume rilievo decisivo l’interesse superiore del minore, che si sostanzia nel suo diritto alla continuità dello status filiationis acquisito all’estero. Dall’altro, la Corte evidenzia come non vi sia, nel nostro ordinamento, una «preclusione ontologica per le coppie formate da persone dello stesso sesso (unite da uno stabile legame affettivo) di accogliere, di allevare e anche di generare figli» (considerazione confermata dalla Corte Costituzionale, con sentenza 23 ottobre 2019, n. 221 e, ancor più esplicitamente, con sentenza 9 marzo 2021, n. 32). Il principio in parola è stato, in seguito, ribadito dalla stessa Corte nella sentenza 15 giugno 2017, n. 14878, nonché alla sentenza 23 agosto 2021, n. 23319, dove, pur in assenza di un legame genetico-biologico del minore con una delle due donne, non è stato ravvisato alcun contrasto con l’ordine pubblico internazionale italiano.

Con riguardo, invece, ai rapporti di filiazione derivanti da surrogazione di maternità, l’atteggiamento della giurisprudenza di legittimità mostra una chiusura molto più netta. In tali ipotesi, la Corte di Cassazione ha, infatti, considerato a più riprese contrarie all’ordine pubblico internazionale italiano la costituzione di un rapporto di filiazione tra il minore e il genitore intenzionale e, quindi, la trascrizione dei relativi atti di nascita o il riconoscimento dei provvedimenti giurisdizionali stranieri che accertino l’esistenza dei rapporti in questione (v., tra le altre, sentenza 8 maggio 2019, n. 12193; sentenza 30 dicembre 2022, n. 38162). Sulla scorta di quanto indicato anche dalla Corte Costituzionale nella sentenza 18 dicembre 2017, n. 272, secondo cui la surrogazione di maternità «offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane», la giurisprudenza di legittimità ha rilevato come la pratica in esame si ponga in contrasto con principi e valori di rilievo primario nel nostro ordinamento. A riprova di ciò e dell’alto grado di disvalore che l’ordinamento attribuisce a tale pratica, viene notato come, diversamente dalla fecondazione eterologa per cui, in caso di violazione dei divieti posti dalla legge, è prevista unicamente l’irrogazione di una sanzione amministrativa, la surrogazione di maternità sia punita come reato.

Non è questa la sede per esaminare nel dettaglio un istituto complesso e problematico – da un punto di vista giuridico, oltre che etico – come la surrogazione di maternità; si tratta, in effetti, di una pratica che in molti casi può comportare una violazione, anche seria, dei diritti umani delle donne coinvolte, oltre che una mercificazione della vita umana (v. sul punto la relazione della Special Rapporteur sulla vendita e lo sfruttamento sessuale dei bambini del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite). Da qui le politiche fortemente repressive e dissuasive del fenomeno adottate dall’Italia e da altri Stati a noi vicini (ad es. Francia, Germania e Spagna). Merita, peraltro, ribadire che, diversamente da quanto avviene in tema di fecondazione eterologa, il divieto di surrogazione di maternità previsto dalla legge italiana si applica tanto alle coppie dello stesso sesso quanto alle coppie di sesso diverso, giacché gli elementi di criticità della pratica in esame non dipendono in alcun modo dall’orientamento sessuale dei committenti.

Nondimeno, nelle ipotesi in cui l’ordinamento venga posto di fronte al «fatto compiuto», e cioè laddove sia richiesto il riconoscimento dei provvedimenti giurisdizionali stranieri o la trascrizione degli atti attestanti il rapporto di filiazione costituito all’esito di surrogazione di maternità realizzata all’estero, un approccio esclusivamente repressivo può risultare del tutto inadeguato. Come evidenziato dalla stessa Corte di Cassazione, infatti, una volta che il bambino è nato sorge l’esigenza di tutelare «il diritto fondamentale del minore alla continuità del rapporto affettivo con entrambi i soggetti che hanno condiviso la decisione di farlo venire al mondo, senza che vi osti la modalità procreativa»; questi, infatti, non può rispondere delle scelte compiute dai genitori-committenti. Si tratta, con tutta evidenza, di un problema delicato: vi è infatti il rischio che la giusta necessità di tutela della condizione dei minori possa essere utilizzata come pretesto per affermare surrettiziamente un diritto degli adulti alla genitorialità «a tutti i costi», anche a prezzo di una violazione sistematica dei diritti umani delle persone coinvolte. Tuttavia, come opportunamente osservato dalla Cassazione, i diritti e la dignità del minore non possono essere strumentalizzati «allo scopo di conseguire esigenze general-preventive che lo trascendono» (v. sentenza n. 38162/2022; da qui, secondo parte della dottrina, la necessità di uno strumento di portata globale che assicuri una cooperazione a livello inter-statale, anche al di fuori dell’Unione europea, v. Biagioni).

Ad oggi il punto di equilibrio individuato dalla giurisprudenza consiste, come detto, nel negare l’automatica trascrivibilità dei provvedimenti o atti di nascita formati all’estero, attestanti il rapporto di filiazione tra il minore e il genitore intenzionale in assenza di un legame biologico tra i due soggetti (cosa che, secondo la Corte finirebbe «per legittimare in maniera indiretta e surrettizia una pratica degradante»), ma nell’ammettere, grazie a un’interpretazione estensiva dell’art. 44 co. 1 lett. d della l. 184/1983, il ricorso all’adozione in casi particolari da parte del genitore intenzionale in questione. Tale soluzione, tuttavia, non è scevra di criticità.

5. Come abbiamo visto, nelle decisioni rese nei casi in commento la Corte EDU ha escluso ogni profilo di violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare dei ricorrenti, sull’assunto che l’ordinamento italiano già prevede la possibilità di ottenere un riconoscimento giuridico del rapporto affettivo e sociale tra i minori e i rispettivi genitori intenzionali attraverso l’adozione in casi particolari. Si è già detto, tuttavia, di come la Corte Costituzionale abbia evidenziato diversi profili di inadeguatezza dell’istituto in parola, che lo rendono strumento non sufficiente a una piena tutela della posizione del minore. In tale occasione, la Corte ha rivolto un pressante invito al legislatore, affinché individui modalità più congrue di riconoscimento dei legami affettivi stabili del minore. In particolare nella sentenza 9 marzo 2021, n. 32 – relativa a un’ipotesi di fecondazione eterologa tra due donne, le cui figlie erano nate in Italia, analogamente a quanto avvenuto nelle vicende alla base del caso Nuti et al. – e nella sentenza 9 marzo 2021, n. 33 – relativa a un’ipotesi di surrogazione di maternità, analoga alle vicende alla base dei casi Bonzano et al. e Modanese – la Corte Costituzionale ha rilevato che l’adozione in casi particolari non sempre costituisce un «procedimento di adozione effettivo e celere, che riconosca la pienezza del legame di filiazione tra adottante e adottato, allorché ne sia stata accertata in concreto la corrispondenza agli interessi del bambino», poiché non prevede il pieno inserimento nella famiglia dell’adottante e presuppone, in ogni caso, l’assenso del genitore biologico, che potrebbe mancare in caso di separazione o crisi della coppia. Nell’inerzia del legislatore, il primo profilo di criticità è stato, in realtà, risolto dalla Corte Costituzionale, con sentenza 23 febbraio 2022 n. 79, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 55 della l. 184/1983 nella parte in cui prevede che l’adozione in casi particolari non fa sorgere alcun rapporto civile tra l’adottato e i parenti dell’adottante. Con riguardo al secondo profilo, la Corte di Cassazione, nella sentenza n. 38162/2022, ha ritenuto superabile, in via interpretativa, il dissenso all’adozione manifestato dal genitore biologico, ogniqualvolta esso si ponga in contrasto con il preminente interesse del minore e, cioè, in tutte le ipotesi in cui l’adottante abbia effettivamente intrattenuto un rapporto di affetto e di cura con l’adottando. Più criptico appare, invece, il riferimento alla auspicata maggior celerità del procedimento: l’adozione in casi particolari rappresenta già un procedimento semplificato (e più celere) rispetto all’adozione piena e, nelle more dello stesso, non è comunque impedita la continuità e stabilità del rapporto tra adottante e adottando.

Ad ogni buon conto, nei casi in esame la Corte EDU si è limitata a prendere atto dell’intervento della Corte Costituzionale con la sentenza n. 79/2022 testé menzionata; non si è, invece, dovuta occupare degli ulteriori profili di (possibile) inadeguatezza del procedimento di adozione in casi particolari, giacché nei casi oggetto di decisione non era nemmeno stata avviata la relativa procedura. Da ciò, evidentemente, non si può ricavare un generalizzato giudizio di compatibilità dell’istituto in esame con i diritti umani tutelati dalla CEDU; rimangono, infatti, tuttora valide le indicazioni ricavabili dalla giurisprudenza di Strasburgo, circa i requisiti che la procedura di adozione deve rispettare per poter essere ritenuta compatibile con il diritto al rispetto della vita privata del minore (v., in particolare,  il già citato parere n. P16-2018-001, par. 54).

Un profilo che, tuttavia, secondo noi meriterebbe ulteriore considerazione è quello relativo alla legittimazione attiva rispetto alla procedura di adozione in casi particolari. Se è vero che il diritto che si intende tutelare è quello del minore (e non già, o non solo, quello del genitore intenzionale), pare poco coerente il ricorso a un istituto che può essere attivato esclusivamente dall’adottante. Nell’ipotesi in cui il genitore intenzionale dovesse rimanere inerte, omettendo di dare avvio alla procedura di adozione, il minore si troverebbe, infatti, nell’impossibilità di veder riconosciuto il rapporto di filiazione, con tutte le conseguenze pregiudizievoli che ciò comporta. A titolo di esempio, in caso di separazione dei genitori non potrebbe pretendere il diritto al mantenimento da parte del genitore intenzionale o, in caso di morte di quest’ultimo, non godrebbe dei relativi diritti ereditari. Rimane, quindi, auspicabile un intervento del legislatore che individui le congrue modalità che garantiscano un pieno riconoscimento dei diritti dei minori, laddove l’ordinamento italiano impedisca il riconoscimento o la costituzione del rapporto di filiazione con (entrambi) i genitori intenzionali.

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Michele Grassi

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