ACCORDO SUL LOSS AND DAMAGE FUND ALLA COP27: IL DIRITTO INTERNAZIONALE ALLA PROVA DELLA CRISI CLIMATICA ‘QUI ED ORA’
Mattia Colli Vignarelli, Università degli Studi di Torino
Introduzione
La XXVII Conferenza delle Parti (COP27) della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico(UNFCCC) si è svolta a Sharm el-Sheik fra l’8 e il 20 novembre 2022. La Conferenza, pur nell’attuale intricato contesto internazionale, è riuscita a trovare un primo compromesso sull’istituzione di un fondo per il loss and damage.
Il presente post intende innanzitutto chiarire i contenuti di tale accordo, inquadrando l’approdo della COP27 nell’evoluzione del dibattito su questo terzo pilastro (insieme a mitigation e adaptation) dell’azione per il clima, evidenziando in secondo luogo le incertezze che ancora avvolgono la concreta attuazione del nuovo strumento. Infine, il fondo verrà inquadrato quale applicazione del principio delle responsabilità comuni ma differenziate, introducendo alcuni spunti critici di riflessione.
I pilastri dell’azione per il clima e l’accordo della COP27
Nel suo Sesto rapporto (2021-2022), l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) ha indicato chiaramente che per limitare gli effetti più drammatici del cambiamento climatico è necessario che le emissioni di gas serra raggiungano il loro picco nel 2025, per poi ridursi del 43% rispetto ai livelli del 2019 entro il 2030, e dell’84% entro il 2050. Ciò consentirebbe di contenere l’aumento medio delle temperature globali attorno a 1.5° rispetto ai livelli preindustriali, come peraltro sancito dall’Accordo di Parigi, che all’Art. 2(1)(a) fissa l’obiettivo di mantenere «the increase in the global average temperature to well below 2°C above pre-industrial levels and pursuing efforts to limit the temperature increase to 1.5°C above pre-industrial levels». Tutto ciò si traduce in azioni di mitigazione del cambiamento climatico, primo pilastro dell’azione per il clima.
Accanto alla mitigazione, gli strumenti internazionali in materia climatica promuovono le misure di adattamento, vale a dire quella serie di interventi sui sistemi ecologici, sociali o economici, o nei processi politici, da assumere in risposta agli effetti esistenti o previsti del cambiamento climatico (si veda UNFCCC).
La dati scientifici mostrano però come l’umanità abbia portato il Pianeta in una zona di incertezza climatica, innescando già oggi processi irreversibili sull’equilibrio del sistema terrestre. Questo ci mette di fronte alla realtà della crisi climatica, con le sue devastanti conseguenze sull’ambiente e sulle comunità, come testimoniato per esempio dalle alluvioni avvenute in Pakistan nel 2022, che hanno provocato oltre 900 morti e l’evacuazione di milioni di persone in tutto il Paese. Tutto ciò genera qui ed ora danni e perdite, anch’esse da considerare nell’ambito della cooperazione internazionale per il clima. Da qui il terzo pilastro dell’azione per il clima: il loss and damage.
Tale concetto trovò per la prima volta uno spazio autonomo nel contesto dei negoziati sul clima durante la COP18, nel 2012 (Decision 3/CP.18). Fino ad allora, era stato preso in considerazione marginalmente e solo come sotto-insieme delle azioni di adattamento.
Nel 2013 fu istituito il Meccanismo di Varsavia per perdite e danni associati agli impatti del cambiamento climatico, con l’obiettivo di definire concretamente l’approccio alla questione. Successivamente, l’Accordo di Parigi (Articolo 8) individuò in maniera piuttosto generica gli ambiti in cui cooperazione relativi al loss and damage.
La posizione ormai decennale degli Stati del Sud del Mondo – sostenuta in particolare dal Gruppo intergovernativo G77+Cina – è che le conseguenze già in atto del cambiamento climatico debbano portare ad un risarcimento delle perdite e dei danni subiti dai Paesi più colpiti (che sono, contemporaneamente, i minori ‘emettitori’), attraverso l’istituzione di un apposito fondo, noto come loss and damage fund.
In questo contesto, dalla COP27 non sembravano poter emergere progressi né sul fronte degli impegni di mitigazione né sull’adattamento, ma nemmeno sul loss and damage fund che, secondo le attese, avrebbe dovuto essere al centro della Conferenza.
Inaspettatamente, nella notte fra il 19 e il 20 novembre 2022, le Parti sono giunte ad una prima intesa su quello che il segretariato della Convenzione Quadro ha definito un «accordo di svolta» per ricostruire la «fiducia spezzata» nella cooperazione internazionale sul clima: il fondo, così è deciso, si farà.
È ancora presto per dire con quali caratteristiche, con quali finanziamenti e a beneficio di chi opererà il fondo. Infatti, tutti gli aspetti istituzionali e sostanziali rimangono ancora da definire. Le Parti hanno convenuto di istituire di un “Comitato di transizione” composto da 24 membri – 14 dei quali degli Stati del Sud del Mondo – che avrà il compito di stilare una tassonomia delle perdite e dei danni compensabili, nonché di fornire raccomandazioni sui vari nodi da sciogliere per rendere operativo lo strumento. Il Comitato, la cui composizione è stata completata il 15 marzo 2023, si è riunito per la prima volta il 27 marzo 2023, e si riunirà per un primo workshop on loss and damage finance in the context of decisions 2/CP.27 and 2/CMA.4 il 29 e 30 aprile 2023 a Bonn, in Germania.
Fra gli elementi che potranno essere oggetto di raccomandazione, la Decisione della Conferenza menziona in particolare: la struttura istituzionale e la governance del fondo; l’identificazione ed espansione delle fonti di finanziamento e le modalità di coordinamento con i meccanismi esistenti di finanziamento per i Paesi cd. in via di sviluppo.
Sarà pertanto essenziale seguire il prosieguo dei negoziati, che dovrebbero essere stimolati da contributi scritti provenienti da diversi attori istituzionali, da una serie di iniziative menzionate dalla Decisione (si rinvia al paragrafo 7, Decision -/CP.27 -/CMA.4), nonché ovviamente dal lavoro del Comitato. Il tutto dovrà essere finalizzato dalla prossima Conferenza delle Parti, che si terrà a Dubai alla fine del 2023.
Il loss and damage fund come applicazione del principio delle responsabilità comuni ma differenziate
Al di là di ogni esasperazione trionfalista, è innegabile che la COP27 abbia stabilito un significativo punto fermo in un dibattito ormai decennale. Tuttavia, il rischio che questa intesa non porti ad alcun risultato concreto esiste e non si può sottovalutare.
Se, da un lato, l’Unione Europea si è mostrata favorevole all’idea dell’istituzione dello strumento – seppure ponendo la condizione, tutt’altro che scontata, che la base dei contributori includa anche la Cina – dall’altro, gli Stati Uniti hanno continuato ad osteggiarlo, proprio in opposizione a qualsiasi «legal structure that is tied to compensation or liability».
Infatti, il principale dubbio che aleggia sul fondo – insieme alle non secondarie incertezze sulla definizione della base dei contributori – è l’intuitivo richiamo del loss and damage fund alla responsabilità per il cambiamento climatico e per le sue conseguenze materiali.
I contributori del fondo dovrebbero essere individuati tramite una qualche forma di attribuzione di responsabilità internazionale? Il contributo al fondo rappresenterebbe una forma di riparazione tramite risarcimento del danno? In realtà, a ben vedere, una risposta a questi interrogativi esiste già, e si trova nel principio delle responsabilità comuni ma differenziate.
Tale norma, tra i cardini del diritto internazionale dell’ambiente, è stata articolata per la prima volta dalla Dichiarazione di Rio su Ambiente e Sviluppo (1992), la quale afferma, al Principio 7, che «in view of the different contributions to global environmental degradation, states have common but differentiated responsibilities».
La UNFCCC lo menziona all’Art. 3(1), disponendo che «[t]he Parties should protect the climate system for the benefit of present and future generations of humankind, on the basis of equity and in accordance with their common but differentiated responsibilities and respective capabilities». Il principio è poi recepito nei vari strumenti attraverso cui si è disciplinata l’azione per il clima, in particolare dal il Protocollo di Kyoto e dall’Accordo di Parigi (si veda Romanin Jacur per un commento all’Accordo di Parigi su questo blog).
La base di ‘differenziazione’ consta due elementi. Da un lato «a responsibility component which takes account of historical, current, and future contributions to environmental degradation», dall’altro «[a] capabilities component, which reflects economic capacities to contribute to environmental protection» (si vedano Hey e Paulini).
La concreta applicazione del principio è stata eterogenea (ad esempio, il Protocollo di Kyoto si rivolge solo agli Stati “industrializzati”, mentre l’Accordo di Parigi riconosce ad esempio che i Paesi cd. in via di sviluppo avranno bisogno di più tempo per raggiungere il picco delle emissioni di gas serra), ma ciò che ha accomunato sino ad oggi ogni sua declinazione è stata il rifiuto di ogni collegamento fra la “responsabilità” a cui fa riferimento il principio e l’attribuzione di responsabilità internazionale per atto illecito.
A tal proposito, è emblematica la dichiarazione scritta trasmessa dagli Stati Uniti con riferimento al Principio 7 della Dichiarazione di Rio, secondo cui «The United States understands and accepts that [Principle 7] highlights the special leadership role of the developed countries, based on our industrial development, our experience with environmental protection policies and actions, and our wealth, technical expertise and capabilities. The United States does not accept any interpretation […] that would imply a recognition or acceptance by the United States of any international obligations or liabilities, or any diminution in the responsibilities of developing countries».
Più di recente, proprio nell’ambito del loss and damage, va ricordata la decisione 1/CP.21 della COP21 che adottò l’Accordo di Parigi, in base alla quale il riconoscimento di quest’ultimo elemento quale pilastro autonomo dell’azione per il clima «does not involve or provide a basis for any liability or compensation».
L’istituzione del fondo e la contribuzione ad esso, pertanto, non deriverebbero da un’attribuzione di responsabilità internazionale, ma semplicemente da un’applicazione coerente del principio, che ne accetti più puntualmente l’elemento di “responsabilità storica”.
Chiaramente, come sottolineato poco sopra, diverse questioni – dalla base dei contributori, alle modalità di finanziamento e alla definizione dei danni e delle perdite compensabili – rimangono aperte, e andranno risolte nei prossimi mesi. Tuttavia, la natura flessibile del principio consente di superare questa prima importante resistenza.
Alcuni (brevi) spunti critici di riflessione
Il principio delle responsabilità comuni ma differenziate può certamente rappresentare uno strumento giuridico utile a favorire, grazie all’istituzione del loss and damage fund, una prima risposta alla domanda di giustizia dei tanti Stati più colpiti e meno responsabili degli effetti del cambiamento climatico.
Tuttavia, esso può apparire una costruzione ipocrita del Nord del Mondo che – servendosi della retorica della leadership e dell’expertise – si libera del fardello di aver portato il Pianeta sull’orlo del collasso ecologico. Al di fuori di ogni espediente argomentativo, infatti, l’aumento della concentrazione di gas serra in atmosfera si deve storicamente all’azione di attori organizzati secondo il modello dello Stato capitalistico, che hanno generato ed esportato a livello globale – attraverso il diritto internazionale – un sistema di relazioni politiche ed economiche estrattiviste, strutturalmente diseguali e insostenibili (ex multis, Anghie; Linarelli, Salomon, Sornarajah e Tzouvala), con le conseguenze che oggi conosciamo.
Da questo punto di vista, i nodi che ancora allontanano il regime per il clima da una reale giustizia climatica sono ancora molti.
Considerando l’attuazione del fondo loss and damage, ci si potrebbe domandare in che modo vadano considerate le mancate azioni di mitigazione degli ultimi decenni, attribuibili anche a soggetti esclusi dal novero dei responsabili “storici” del cambiamento climatico e se sia davvero la miglior soluzione attribuire eventuali risarcimenti agli Stati e non alle comunità locali e agli individui effettivamente colpiti. Inoltre, è ancora oggi sullo sfondo il ruolo delle grandi multinazionali dell’industria fossile, ancora oggi impegnate in una sistematica azione di lobbying finalizzata al rallentamento dell’azione per il clima e della transizione energetica. L’idea che anche ad esse sia chiesto di contribuire a risarcire le conseguenze dei danni concretamente da esse provocato – come suggerito alla COP da Mia Mottley, prima ministra di Barbados – non può apparire peregrina.
Più in generale, rimane da chiedersi come si possa riportare l’attenzione sulle necessarie azioni mitigazione e adattamento, nell’interesse del Pianeta e delle future generazioni, e in che modo si possano legare gli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra al necessario cambio di paradigma dell’economia.
Conclusioni
Un fenomeno ubiquo, intergenerazionale e intertemporale come il cambiamento climatico potrebbe richiedere un ripensamento di alcune delle categorie del diritto internazionale, che fino ad oggi non è riuscito ad evitare il superamento dei planetary boundaries o a far avanzare un orizzonte di giustizia climatica, contribuendo tuttalpiù a generare gli squilibri attuali (per una recente riflessione critica sul diritto internazionale dell’ambiente, si vedanoNatarajan e Dehm).
In questo contesto, un momento di fondamentale importanza potrà essere rappresentato dall’esame della richiesta di parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia sugli obblighi degli Stati con riferimento al cambiamento climatico, deliberata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 29 marzo 2023 su impulso di un’ampia coalizione di Stati guidata da Vanuatu.
In ogni caso, una piena applicazione del principio delle responsabilità comuni ma differenziate potrebbe aprire uno spazio argomentativo limitato ma comunque utile per stimolare l’evoluzione del diritto internazionale, che rimane pur sempre l’unico mezzo per tentare di ridefinire i limiti del pensabile e del praticabile, allo scopo di affrontare la sfida esistenziale della crisi climatica.
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