La richiesta di parere sugli obblighi degli Stati in materia di cambiamento climatico: un nuovo banco di prova per la funzione consultiva del Tribunale internazionale per il diritto del mare
Gabriele Asta (Università Ca’ Foscari di Venezia)
1. Con la lettera inviata lo scorso 12 dicembre al Cancelliere del Tribunale internazionale per il diritto del mare dai due co-presidenti della Commissione dei piccoli Stati insulari in materia di cambiamento climatico e diritto internazionale (COSIS), a seguito di una decisione adottata da quest’ultima durante il terzo meeting tenutosi il 26 agosto 2022, la funzione consultiva del Tribunale è tornata a essere attivata dopo il primo parere reso nel 2015. La richiesta di parere è stata formulata sulla base di quanto previsto dall’art. 2, par. 2, dell’Accordo istitutivo della COSIS (inizialmente concluso tra Antigua e Barbuda e Tuvalu e al quale hanno in seguito aderito anche Niue, Palau, Saint Lucia e Vanuatu), che autorizza la stessa ad adire in via consultiva il Tribunale «on any legal question within the scope of the 1982 United Nations Convention on the Law of the Sea […]».
Nello specifico, la Commissione ha sollecitato il Tribunale a chiarire quali obblighi gravino sugli Stati parti della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare in materia di prevenzione, riduzione e controllo dell’inquinamento dell’ambiente marino in relazione agli effetti deleteri causati dalle emissioni antropogeniche di gas serra nell’atmosfera che derivano o sono suscettibili di derivare dai cambiamenti climatici, anche attraverso il riscaldamento degli oceani, l’innalzamento del livello del mare e l’acidificazione degli oceani, nonché gli obblighi di protezione e preservazione dell’ambiente marino in relazione all’impatto del cambiamento climatico.
La richiesta si innesta nel quadro del rinnovato interesse manifestato da alcuni degli Stati maggiormente colpiti dalle conseguenze del cambiamento climatico rispetto alle potenzialità della funzione consultiva di corti e tribunali internazionali, ulteriormente testimoniata dalla proposta di risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, fatta circolare da Vanuatu lo scorso novembre, attraverso la quale si vorrebbe ottenere che l’Assemblea richiedesse un parere anche alla Corte internazionale di giustizia.
La questione è stata oggetto di crescente attenzione anche da parte della dottrina, che ha generalmente valorizzato gli aspetti positivi legati a un’eventuale pronuncia consultiva in materia di cambiamento climatico, in primis in termini di chiarimento del relativo regime giuridico (v. di recente McGarry, Chávez Aco; Roland Holst). Non sono tuttavia mancate alcune voci critiche, che ne hanno messo in rilievo i limiti, anche in ragione della natura altamente politica della questione (in particolare, v. Mayer). A tal proposito, è stato sostenuto come simili iniziative non soltanto difficilmente raggiungeranno l’obiettivo sperato in virtù dell’intrinseca indeterminatezza delle norme rilevanti, ma potrebbero addirittura dimostrarsi controproducenti, rischiando tra l’altro di minare tanto la credibilità della corte coinvolta, quanto l’autorità del parere eventualmente reso.
Tali rischi riguarderebbero a fortiori il Tribunale per il diritto del mare, in ragione dell’incerto fondamento giuridico della sua competenza consultiva. Com’è noto, quest’ultima non è espressamente prevista né dallo Statuto del Tribunale, né dalla Convenzione sul diritto del mare. Ciononostante, il Tribunale ha provveduto a disciplinarla nel suo Regolamento di procedura, il cui art. 138 prevede difatti come esso possa rendere un parere consultivo laddove ciò sia espressamente previsto da un accordo internazionale collegato con gli scopi della Convenzione sul diritto del mare, su richiesta di «whatever body» a tal fine autorizzato dallo stesso accordo. È inoltre appena il caso di ricordare che il Tribunale ha reso il suo primo – e sinora unico – parere consultivo nel 2015, radicando la propria competenza nel ‘combinato disposto’ dato dall’art. 21 del suo Statuto, che consente che accordi diversi dalla Convenzione sul diritto del mare gli conferiscano giurisdizione su determinate «matters» dagli stessi specificamente previste, e dalla pertinente disposizione dell’accordo esterno che una competenza consultiva effettivamente gli attribuiva.
È tuttavia parimenti noto come le – succinte – argomentazioni addotte dal Tribunale per dare fondamento alla sua giurisdizione consultiva siano state oggetto di critiche da parte di diversi Stati, nonché di numerosi autori. Di conseguenza, per un verso, l’adozione da parte del Tribunale dell’art. 138 del suo Regolamento è stata definita come ultra vires (Marotti, p. 1182); mentre, per altro verso, è stata ravvisata l’opportunità di un emendamento convenzionale volto a consolidare il fondamento giuridico della competenza consultiva e a chiarire le lacune che attualmente caratterizzano la relativa disciplina (tra gli altri, v. Marotti, pp. 1184-1185; Lando, pp. 460-461; Ruys, Soete, p. 176). D’altro canto, ad oggi nessuna iniziativa parrebbe essere stata intrapresa in tal senso dagli Stati parti della Convenzione sul diritto del mare e pare al contempo inverosimile che il Tribunale riveda la sua posizione sul fondamento giuridico della sua competenza consultiva (così Tanaka, p. 10).
Eppure, l’esercizio della competenza consultiva potrebbe nondimeno risultare problematico in ragione delle incertezze che, come poc’anzi accennato, continuano a caratterizzarne i contorni. Tra l’altro, la richiesta di parere consultivo attualmente pendente sembra connotata da alcune peculiarità rispetto alla precedente, che verosimilmente richiederanno un ulteriore sforzo di elaborazione da parte del Tribunale. Su tali aspetti si concentreranno pertanto le successive riflessioni.
2. Quanto alla delimitazione della giurisdizione consultiva del Tribunale, due sono, in particolare, le questioni che potrebbero venire in rilievo: in primo luogo, in che circostanze l’accordo attributivo di competenza sia da intendersi come collegato con («related to») gli scopi della Convenzione sul diritto del mare e, in secondo luogo, quale sia l’estensione ratione materiae della competenza consultiva.
Per quanto attiene al primo aspetto, i pochi passaggi contenuti nel parere del 2015 non sembrano sufficientemente chiarificatori. Il Tribunale ha rapidamente concluso per la sussistenza di un collegamento tra la Convenzione sulla determinazione delle condizioni minime per l’accesso e lo sfruttamento delle risorse marine nell’ambito delle zone marittime sotto la giurisdizione degli Stati membri della Commissione subregionale per la pesca e i fini della Convenzione sul diritto del mare, in virtù della circostanza che lo scopo della prima fosse quello di applicare la seconda, «especially its provisions calling for the signing of regional and sub-regional cooperation agreements in the fisheries sector as well [as] the other relevant international treaties» e assicurare l’armonizzazione delle politiche e delle legislazioni dei suoi Stati membri «with a view to a better exploitation of fisheries resources in the maritime zones under their respective jurisdictions, for the benefit of current and future generations» (v. Request for an Advisory Opinion submitted by the Sub-Regional Fisheries Commission (SRFC), parere consultivo del 2 aprile 2015, par. 63).
D’altro canto, non è chiaro se gli aspetti valorizzati nel caso di specie debbano necessariamente rinvenirsi anche in ogni altro accordo attributivo di competenza consultiva e, più specificamente, se un simile accordo debba regolare uno o più aspetti sostanziali collegati ai fini della Convenzione sul diritto del mare (sul punto, le opinioni in dottrina sono eterogenee – cfr., ad es., Proelss, parr. 22-23; Barnes, pp. 13-14). Nel caso dell’Accordo COSIS si tratterà allora di comprendere se per radicare la giurisdizione consultiva sia sufficiente che lo stesso non sia teso stricto sensu ad applicare la Convenzione sul diritto del mare ma sia volto a favorire la corretta interpretazione e applicazione da parte degli Stati membri – anche – delle disposizioni contenute nella Convenzione che impongono obblighi agli Stati in materia di protezione e preservazione dell’ambiente marino (v. l’art. 1, par. 3, dell’Accordo COSIS, letto in combinato con il preambolo). Tra l’altro, a differenza del precedente procedimento consultivo, può forse ritenersi come la COSIS sia stata istituita con il principale scopo di adire il Tribunale in via consultiva.
Analogamente, alcune incertezze connotano anche la portata materiale della competenza consultiva, alimentate da certi passaggi del primo parere reso. Per un verso, il Tribunale parrebbe aver escluso la necessità di doversi limitare alle questioni legate all’interpretazione e applicazione dell’accordo internazionale che di volta in volta gli attribuisce una giurisdizione consultiva, riconoscendo invece la possibilità di pronunciarsi su ulteriori questioni giuridiche purché abbiano una «sufficient connection» con gli scopi e i principi dello stesso (cfr. il parere del 2015, par. 68). Ciò sembrerebbe pertanto prima facie consentire al Tribunale di pronunciarsi sull’interpretazione di trattati internazionali diversi dall’accordo attributivo di competenza, come potrebbe essere la stessa Convenzione sul diritto del mare, su cui la richiesta di parere della COSIS, come già detto, verte.
Per altro verso, il Tribunale ha – quantomeno in principio – circoscritto ‘spazialmente’ la sua giurisdizione alla zona economica esclusiva degli Stati membri della Commissione subregionale per la pesca, in ragione della circostanza che l’accordo internazionale attributivo della competenza consultiva risultava applicabile a tali spazi marittimi (cfr. i parr. 69, 87, 154 e 179 del parere del 2015). Di conseguenza, il Tribunale ha ad esempio reinterpretato il primo dei quesiti, mediante il quale gli si chiedeva di chiarire quali fossero gli obblighi degli Stati di bandiera qualora attività di pesca illegale, non dichiarata e non regolamentata venissero condotte nell’ambito della ZEE di Stati terzi, limitando quest’ultima nozione agli Stati membri della Commissione (ivi, par. 87). Tuttavia, non è chiaro se, e in che modo, il Tribunale deciderà di circoscrivere la sua giurisdizione anche laddove, come nel caso dell’Accordo COSIS, il trattato attributivo di competenza consultiva non avesse un ambito di applicazione ratione loci definito.
Tra l’altro, non sembra che la scelta operata dal Tribunale nel parere del 2015 sia in qualche misura legata alla volontà di non pronunciarsi su diritti e obblighi di Stati terzi in mancanza del loro consenso. Tale eventualità parrebbe difatti da escludersi nella misura in cui il Tribunale, aderendo alla nota posizione espressa dalla Corte internazionale di giustizia nel parere relativo all’Interpretazione dei trattati di pace,ha osservato lapidariamente come «in advisory proceedings the consent of States not members of the SRFC is not relevant» (ivi, par. 76; soluzione, tuttavia, criticata da Marotti, pp. 1191-1192, in ragione delle peculiarità legate alla decentralizzazione del sistema di attivazione della procedura consultiva del Tribunale).
A ogni modo, nonostante le menzionate incertezze, non sembra al tempo stesso che sussistano elementi, tanto normativi quanto giurisprudenziali, che prima facie inducano a negare la giurisdizione del Tribunale nel procedimento pendente (per alcune riflessioni sui profili relativi all’eventuale diritto applicabile, v., tra gli altri, Barnes, p. 28 ss.; McGarry, Chávez Aco).
3. Laddove il Tribunale dovesse riconoscersi competente, ci si potrebbe ulteriormente chiedere se esso sia poi nei fatti tenuto a rendere il parere richiesto e se debba farlo attenendosi strettamente ai quesiti così come formulati dal richiedente. Nonostante il Tribunale abbia riconosciuto, quantomeno in principio, la possibilità di non rendere il parere richiesto per ragioni di propriety (v. il par. 71 del parere del 2015), persistono difatti notevoli incertezze relativamente ai margini di esercizio di tale facoltà e, più ampiamente, dei suoi poteri processuali.
Tra l’altro, quest’ultimo aspetto pare legato a doppio filo al modo in cui il Tribunale percepisce e ‘costruisce’ il proprio ruolo consultivo. A tal riguardo, dall’esame del parere del 2015 sembra invero emergere la sua tendenza ad attingere dalle esperienze di altre corti e tribunali internazionali. Per esempio, il Tribunale ha mutuato dalla giurisprudenza della Camera dei fondi marini internazionali – quella che parrebbe essere – la finalità della competenza consultiva, ossia assistere l’ente richiedente nello svolgimento delle relative funzioni e contribuire all’applicazione della Convenzione sul diritto del mare (ivi, par. 77). Inoltre, numerosi sono i riferimenti alla giurisprudenza della Corte internazionale di giustizia, che potrebbero dunque indicare una certa aderenza al modello rappresentato da quest’ultima.
Così, ad esempio, nel riconoscersi la facoltà di non rendere il parere richiesto, il Tribunale ha contestualmente fatto riferimento alla circostanza che ciò andrebbe fatto soltanto qualora ricorressero ragioni pressanti («compelling reasons»), riprendendo tale concetto dalla giurisprudenza della Corte internazionale di giustizia (ivi, par. 71). In tal senso, è appena il caso di ricordare come, in virtù – anche – del legame organico della Corte con le Nazioni Unite, la suddetta nozione abbia assunto in questo contesto una peculiare connotazione e come la Corte non abbia mai riconosciuto in concreto la sussistenza di tali ragioni, tanto che in dottrina si è parlato al riguardo di «underused tool» (l’espressione è di Treves, p. 110).
Eppure, il suddetto richiamo alla giurisprudenza della Corte internazionale di giustizia non va necessariamente inteso come un’adesione in toto all’approccio tenuto da quest’ultima. In effetti, è forse ancora possibile riconoscere al Tribunale un certo margine per rimodulare la propria posizione. Ciò nella misura in cui, in particolare, il riferimento al carattere ‘ausiliario’ della propria funzione consultiva non venga però inteso secondo le modalità sviluppate, in particolare, dalla Corte internazionale di giustizia. D’altro canto, basti ricordare come a differenza della Corte non soltanto il Tribunale non risulti legato da particolari vincoli organici ad alcuna organizzazione internazionale, ma come la sua funzione consultiva possa essere in principio esercitata a beneficio di enti – e in merito ad accordi – esterni rispetto al sistema istituzionale o convenzionale di riferimento (aspetto, quest’ultimo, che lo differenzia anche dalla Camera dei fondi marini internazionali).
In alternativa, il Tribunale potrebbe in qualche misura ispirarsi alla Corte interamericana dei diritti umani. Benché anche quest’ultima abbia fatto riferimento alla nozione di «compelling reasons», essa ha ciononostante non soltanto progressivamente sistematizzato le circostanze idonee a motivare un diniego, ma è altresì in più occasioni ricorsa a tali ragioni per rifiutarsi di rendere il parere richiesto (sulla pertinente giurisprudenza, v. Asta, p. 111 ss.). Sebbene siano eterogenee, le motivazioni addotte dalla Corte interamericana convergono tutte nella finalità ultima di tutelare il corretto funzionamento del sistema interamericano dei diritti umani anche attraverso il peculiare ruolo che, in tale contesto, è riconosciuto alla sua competenza consultiva.
Il differente approccio tenuto al riguardo dalla Corte interamericana, che nelle sue valutazioni di judicial propriety non ha attribuito ad esempio un peso decisivo ai profili di cooperazione con gli organi dell’Organizzazione degli Stati americani, pur riconoscendo alla sua funzione consultiva un ruolo di ausilio a beneficio del sistema regionale di tutela dei diritti umani, potrebbe verosimilmente ricondursi al differente legame esistente con l’Organizzazione, di cui, come noto, la Corte non rappresenta un organo (Asta, pp. 320-322; in senso in qualche misura analogo, v. anche Mayer, p. 50).
Per lo meno in principio, al Tribunale non sembrerebbe pertanto preclusa la possibilità di far uso in maniera effettiva del suo potere di rifiutarsi di rendere il parere richiesto, al fine di tutelare – quantomeno – l’integrità della sua funzione consultiva. Tra l’altro, il Tribunale potrebbe cogliere l’occasione per pronunciarsi sulle specifiche motivazioni idonee a giustificare un diniego per ragioni di propriety, anche a prescindere dall’eventuale applicazione in casu.
4. D’altro canto, l’individuazione delle ragioni ‘decisive’ si dimostra un’operazione indubbiamente complessa, per la quale sembra opportuno che il Tribunale tenga adeguatamente in conto le specificità della sua funzione consultiva. Allora, anche un eventuale richiamo, da parte del Tribunale, alla giurisprudenza di altre corti o tribunali internazionali dovrà essere operato con cautela e soltanto nella misura in cui ciò si dimostri effettivamente funzionale a salvaguardare l’integrità della sua funzione giudiziaria.
Ad esempio, in dottrina è stata suggerita la possibilità che il Tribunale decida di non pronunciarsi qualora una richiesta verta principalmente su obblighi internazionali assunti da Stati terzi rispetto all’accordo che gli conferisce giurisdizione, traendo ispirazione dalla Corte interamericana, che nella sua giurisprudenza avrebbe riconosciuto tra i motivi cogenti che potrebbero indurla a non rendere il parere sollecitato l’eventualità che la richiesta riguardi principalmente obblighi internazionali assunti da uno Stato non americano ovvero la struttura o il funzionamento di organismi internazionali estranei al sistema interamericano di tutela dei diritti umani (Ruys, Soete, p. 175).
Nondimeno, tale motivazione non pare sia stata sinora mai applicata dalla Corte interamericana per rigettare una richiesta di parere, bensì soltanto per reinterpretare o riformulare alcuni quesiti (v. La institución del asilo y su reconocimiento como derecho humano en el Sistema interamericano de protección (interpretación y alcance de los artículos 5, 22.7 y 22.8, en relación con el artículo 1.1 de la Convención americana sobre derechos humanos), parere consultivo OC-25/18 del 30 maggio 2018, parr. 29-31), mostrando pertanto contorni applicativi incerti. Per esempio, laddove il Tribunale dovesse riconoscere una simile ragione come ‘decisiva’, non è chiaro se, e in che misura, essa sia suscettibile di trovare applicazione nel procedimento pendente, posto che tutti gli Stati parti dell’Accordo COSIS lo sono anche della Convenzione sul diritto del mare.
Ma più in generale, l’eventuale diniego opposto per la suddetta motivazione, o per eventuali altre ragioni, se da un lato consente al Tribunale di tutelare l’integrità della sua funzione giudiziaria, dall’altro comporta ovviamente la mancata adozione del parere richiesto. In alternativa, il Tribunale potrebbe forse valorizzare in maniera complementare la sua facoltà di riformulare i quesiti contenuti nella richiesta di parere. D’altronde, si è detto come già nel corso del primo procedimento consultivo il Tribunale abbia reinterpretato – o riformulato – la richiesta per delimitarne la portata ‘spaziale’. Analogamente, esso potrebbe decidere di riformulare i quesiti sottoposti dalla COSIS, eventualmente circoscrivendone la portata – quantomeno formalmente – agli obblighi che gravano sugli Stati membri di quest’ultima.
Una riformulazione dei quesiti in tal senso orientata spinge d’altro canto a interrogarsi sulla sua conformità rispetto a eventuali limiti al più generale potere di riformulazione. Eppure, un esercizio di quest’ultimo nel senso prospettato potrebbe forse trovare una giustificazione ‘funzionale’. In altri termini, qualora se ne accogliesse la natura di potere inerente all’attività del Tribunale (in questo senso, v. già la Corte interamericana, La institución del asilo, cit., par. 55), si potrebbe eventualmente ammetterne l’esercizio laddove inteso a salvaguardare l’integrità e l’effettività della funzione consultiva (sulla «functional justification» dell’esercizio del poteri inerenti, v. inter alios Gaeta, p. 364 ss.; Brown, p. 841 ss.).
Pertanto, una – più – chiara articolazione, da parte del Tribunale, delle finalità della propria competenza consultiva si dimostra propedeutica a un esercizio del potere di riformulazione e, più in generale, dei suoi poteri processuali volto a preservare l’effettività della funzione consultiva, riducendo al tempo stesso i rischi di un suo uso distorto. Il procedimento consultivo attualmente pendente costituisce allora un secondo e interessante banco di prova, suscettibile di rappresentare un tornante importante tanto per il contenuto dell’eventuale parere reso, quanto per le prospettive della stessa funzione consultiva del Tribunale.
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