Il lodo Green Power and SCE v Spain e l’effettività dell’autonomia del diritto UE
Nicola Bergamaschi (Alma Mater Studiorum – Università di Bologna)
Con il lodo Green Power K/S and SCE Solar Don Benito APS v Kingdom of Spain (Green Power) del 16 giugno 2022 (v. il post di Lampo pubblicato in questo blog e Shipley), per la prima volta, un tribunale arbitrale, chiamato a dirimere una controversia sorta tra un investitore di uno Stato membro UE ed un altro Stato membro, ha dichiarato di non avere giurisdizione a conoscere della controversia, accogliendo la posizione espressa dalla Corte di giustizia nella sua giurisprudenza a partire dalla ben nota sentenza Achmea. Significativamente, ciò è avvenuto nel contesto del Trattato sulla Carta dell’Energia (TCE), accordo multilaterale di cui sono parti sia l’UE che 26 Stati membri (tutti eccetto… l’Italia!).
Già oggetto di due recenti pronunce da parte della CGUE, nel caso République de Moldavie e nel parere 1/20, il TCE ha attirato grande attenzione da parte degli addetti ai lavori e degli studiosi. Sia perché sono attualmente in corso i negoziati per la sua revisione, sia perché nel suo ambito sono sorte numerose controversie tra investitori e Stati membri dell’UE, rispetto alle quali i tribunali arbitrali non hanno mai dato seguito alla giurisprudenza Achmea, limitando così l’effettività dell’autonomia del diritto UE rispetto al diritto internazionale, almeno fino al lodo in esame. Fatti brevi cenni alla controversia ed al contenuto del lodo, la vicenda verrà inquadrata all’interno del contesto post-Achmea, così da analizzarne la portata ed il significato per il diritto UE, con particolare attenzione alla questione dell’effettività della sua autonomia. A questo riguardo, il lodo fornisce una possibile soluzione, anche se con esiti a tratti paradossali. Inoltre, si tratta di una soluzione solo parziale. Al contrario, gli sviluppi nei negoziati per la revisione del TCE potrebbero contribuire in maniera più incisiva all’effettività dell’autonomia del diritto UE.
Il lodo è stato adottato da un tribunale arbitrale istituito secondo le regole della Camera di Commercio di Stoccolma (SCC), sulla base della clausola compromissoria contenuta nel TCE, all’art. 26. La controversia vede due imprese danesi ricorrere contro la Spagna ed ha ad oggetto le misure normative spagnole che, secondo i ricorrenti, avrebbero danneggiato la posizione degli investitori in violazione degli standard di protezione degli investimenti previsti dal TCE, di cui sia Spagna che Danimarca sono parti. In particolare, il lodo affronta la questione della sussistenza o meno della propria giurisdizione a dirimere la controversia, contestata dalla Spagna sulla base di due motivi principali. Il primo è quello ratione personae, secondo cui, in breve, Spagna e Danimarca non rappresenterebbero due differenti Contracting Parties ex art. 26, par. 1, TCE, essendo entrambe Stati membri dell’UE, anch’essa parte del Trattato. L’argomento non è nuovo, essendo stato avanzato più volte dalla Commissione in qualità di amicus curiae in altri procedimenti simili (v., per es., l’intervento come amicus curiae in Masdar Solar). Come negli altri casi, anche nel procedimento in esame il tribunale non accoglie l’argomento (par. 185-195). Differentemente dagli altri casi, e qui sta la novità del lodo, il tribunale ha deciso di accogliere il motivo ratione voluntatis. In sintesi, il tribunale compie un’analisi alla luce tanto del diritto internazionale quanto del diritto dell’UE, interpretando l’art. 26 TCE e arrivando alla conclusione che il compromesso arbitrale sia privo del consenso tra le Parti, essendo incompatibile con il diritto dell’UE e con la sua autonomia, così come interpretata dalla Corte di giustizia dell’UE. Di conseguenza, non c’è alcuna offerta unilaterale di arbitrato da parte del convenuto che il ricorrente possa accettare e, in definitiva, il tribunale non ha giurisdizione sulla controversia (par. 477).
In questa sede non si considera la portata della pronuncia con riguardo al diritto internazionale dei trattati (per i profili internazionalistici v. il post di Lampo). Ci si soffermerà, piuttosto, sulla portata del lodo dalla prospettiva del diritto UE. In tal senso, prima di entrare nel merito della questione, è utile definire come si pone il lodo all’interno del contesto post-Achmea.
Nel 2018, con la già citata sentenza Achmea, la CGUE aveva dichiarato incompatibile con il principio di reciproca fiducia e con l’autonomia del diritto UE (v. Lenaerts et al.), in particolare con gli art. 267 e 344 TFUE, e un accordo bilaterale di investimento (BIT) concluso tra Stati membri (intra-UE), nella misura in cui questo affidi ad un tribunale arbitrale internazionale la soluzione delle controversie tra investitore e Stato (ISDS) sorte nell’ambito di tale accordo (v. Andenas et al, Koutrakos e, su questo blog, Munari et al). Ciò è suonato come una condanna a morte per i meccanismi ISDS previsti nei BIT intra-UE e, al contempo, ha aperto un periodo di incertezza quanto alla sorte dell’ISDS tout court all’interno del diritto UE, tanto che la CGUE è tornata più volte a pronunciarsi sulla portata e sulle conseguenze di Achmea. Con il parere 1/17, la Corte ha applicato il testdi compatibilità con l’autonomia utilizzato in Achmea al meccanismo ISDS contenuto in un accordo misto negoziato con un Paese terzo (il CETA), riscontrando la compatibilità dell’accordo con il diritto UE e chiarendo, in termini generali, quali sono le condizioni alle quali il suddetto test può essere superato. Schematicamente, l’arbitrato non può applicare il diritto UE alla controversia (se non come questione di fatto), deve attenersi all’interpretazione fornita dalla CGUE, e il lodo non può avere effetti vincolanti nei confronti di UE e Stati membri (v. Rapoport). La sentenza PL Holdings, poi, ha chiarito che la dottrina Achmea si applica anche a compromessi arbitrali ad hoc intra-UE conclusi tra Stato e investitore (v. Cellerino e Zarra in questo blog) A queste questioni, si è aggiunta quella della portata di Achmea all’ISDS di cui all’art. 26 TCE, con riguardo alle situazioni intra-UE. Profilo, quest’ultimo, piuttosto spinoso, visto l’elevato tasso di litigiosità tra investitori provenienti da Stati UE ed altri Stati membri (v. la lista dei casi portati alla conoscenza del Segretariato TCE). La posizione della CGUE al riguardo è stata comunque netta. Con un obiter dictum nella sentenza République de Moldavie, essa ha colto l’occasione per sottoporre l’art. 26 TCE al test Achmea, concludendo per l’incompatibilità di tale clausola compromissoria nel caso in cui essa riguardi un rapporto intra-UE, considerandola pertanto alla stregua di un BIT concluso tra Stati membri (v. Eckes et al.). Ancor più di recente, interrogata specificatamente sulla compatibilità di un arbitrato ex art. 26 TCE intra-UE, pur dichiarando irricevibile la domanda, la Corte ha comunque trovato modo di ribadire quanto già affermato con la sentenza République de Moldavie, dalla quale «risulta chiaramente che il rispetto del principio di autonomia del diritto dell’Unione, sancito dall’articolo 344 TFUE, impone di interpretare l’articolo 26, paragrafo 2, lettera c), del TCE nel senso che esso non è applicabile alle controversie tra uno Stato membro e un investitore di un altro Stato membro in merito ad un investimento realizzato da quest’ultimo nel primo Stato membro» (parere 1/20 punto 47; v. anche Contartese). Il punto di vista del diritto (pretorio) UE sulla questione sembra quindi essere definito e definitivo, tanto che nel caso Greentech Energy Systems A/S, et al v. Italian Republic il giudice svedese ha ritenuto di ritirare il quesito pregiudiziale posto alla CGUE in merito: l’applicazione intra-UE dell’art. 26 TCE non è compatibile con l’autonomia del diritto UE.
Tuttavia, perché quest’ultima sia effettiva, l’incompatibilità deve essere accettata non solo dai soggetti dell’ordinamento UE (come la Corte federale di giustizia tedesca nel caso Achmea stesso; v. sul punto Pantaleo), ma anche dai soggetti operanti sul piano del diritto internazionale che sono in grado di incidere giuridicamente sul diritto UE. Diversamente, l’autonomia fallisce nel suo stesso compito, ossia la salvaguardia dell’ordinamento UE da norme ad esso esterne, ma vincolanti per gli Stati membri o per l’UE stessa. È proprio per questa ragione che il lodo Green Power risulta di particolare interesse. Come noto, i tribunali arbitrali fino a Green Power hanno sempre concluso per l’irrilevanza sia di Achmea che di République de Moldavie quanto alla valutazione di sussistenza della loro giurisdizione, sia con riguardo al TCE (i casi sono numerosissimi qui ci si limita a citare quelli richiamati nel lodo stesso, cioè Vattenfall AB, Vattenfall Europe AG, Vattenfall Europe Generation AG v. Federal Republic of Germany e Masdar Solar & Wind Cooperatief U.A. v. Kingdom of Spain; per un caso più recente v., ad esempio, Sevilla Beheer B.V. and others v. Kingdom of Spain) che con riguardo a TBI tra Stati membri (per esempio UP and C.D Holding Internationale v. Hungary). A fronte di questo atteggiamento di chiusura, si potrebbe essere tentati di cercare rimedi per garantire l’effettività dell’autonomia del diritto UE a valle del lodo, dunque in sede esecutiva. Anche in questo caso, però, l’effettività non è garantita. Sul versante interno i giudici nazionali degli Stati membri hanno seguito la CGUE, non dando esecuzione ai lodi arbitrali ritenuti in contrasto con la dottrina Achmea (v. per esempio la posizione assunta dal giudice tedesco in Achmea, supra), nel rispetto del primato del diritto UE. Sul versante esterno, invece, non esiste un vincolo giuridico che imponga ai giudici di Stati terzi, davanti ai quali gli investitori cercano l’esecuzione dei lodi, di adeguarsi alla giurisprudenza della CGUE, laddove gli argomenti avanzati a favore dello Stato convenuto non risultassero sufficientemente convincenti ai giudici (sul punto, v. Malferrari 2021a). Tutto ciò ha determinato una scollatura tra il diritto dell’UE ed il diritto internazionale e, conseguente, una (almeno parziale) incomunicabilità tra i due sistemi normativi. A questa scollatura il lodo in esame cerca di porre rimedio.
Nella valutazione dell’argomento ratione voluntatis, il tribunale arbitrale parte dal presupposto che «the determination of jurisdiction cannot be circumscribed on the basis of rigid categories such us EU law or public international law» (par. 333), e procede ad un’analisi in cui i due piani normativi si intrecciano senza escludersi a vicenda. Invero, il diritto UE viene considerato nel lodo diritto rilevante ai fini della determinazione della giurisdizione (par. 166-172), sia in quanto diritto internazionale che in quanto diritto interno di Spagna, Danimarca, e soprattutto Svezia, Stato, quest’ultimo, sede dell’arbitrato. Il diritto UE è dunque considerato come lex loci, secondo le regole SCC (in senso critico, v. le considerazioni di Lampo). Al riguardo, degno di nota è il fatto che il tribunale stesso (par. 166) riconosce che ciò è in linea con quanto sostenuto anche dalla CGUE (in Achmea, al par. 81). Innanzitutto, sempre secondo il tribunale, la giurisprudenza della CGUE entra in gioco nell’interpretazione della clausola compromissoria di cui all’art. 26 TCE, tramite i criteri ermeneutici della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, in particolare in qualità di prassi successiva rilevante (par. 374-379), portando dunque a concludere per il diniego di giurisdizione (par. 412) (v. più diffusamente Lampo). Ma vi è di più. Ciò premesso, il tribunale entra nel vivo dell’analisi operata attraverso il diritto UE, ponendosi in netta contraddizione con i tribunali arbitrali che già si erano cimentati con la questione in altri casi analoghi. Rifacendosi direttamente alla giurisprudenza della CGUE, esso sostiene che la portata dell’art. 344 TFUE si estenda anche alle controversie tra uno Stato membro ed un investitore di altro Stato membro (come chiarito in Achmea, punto 32; sul punto v. Iannuccelli), e che la giurisprudenza Achmea (in particolare l’incompatibilità dell’ISDS con gli art. 344 e 267 TFUE) si estenda anche al TCE, nonostante questo non sia un BIT, ma un accordo multilaterale (come chiarito in République de Moldavie, al punto 64). Conseguentemente, sempre secondo il tribunale, l’applicazione di Achmea comporta l’insussistenza della propria giurisdizione, in ragione dell’autonomia e del primato del diritto UE, come da costante giurisprudenza della CGUE. Il ragionamento del tribunale qui riportato si distingue non solo per il risultato a cui giunge, ma anche per l’approccio seguito. Ad emergere, anzitutto, è una spiccata deferenza nei confronti della giurisprudenza della CGUE. Mentre altri tribunali avevano rigettato del tutto la rilevanza di quest’ultima (v., per esempio, la decisione in Landesbank Baden-Württemberg and others v. Kingdom of Spain, par. 102), il tribunale in esame arriva a paragonare gli effetti retroattivi delle pronunce della CGUE agli effetti di un atto di interpretazione autentica di un accordo internazionale adottato dalle Parti stesse dell’accordo (par. 376-379). Ciò alla luce di una consolidata giurisprudenza della CGUE (PL Holdings, punto 58; Amministrazione delle finanze dello Stato contro Denkavit italiana Srl, punto 16), secondo cui le sentenze interpretative delle norme di diritto UE, rese nell’ambito di una procedura di rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE, hanno efficacia ex tunc, essendo volte a chiarire il significato e la portata di una norma quale deve o avrebbe dovuto essere intesa ed applicata dal momento della sua entrata in vigore. In questo modo, il valore che le sentenze interpretative della CGUE hanno nel diritto interno viene quindi riconosciuto e trasferito anche sul piano del diritto internazionale. Il paragone non è affatto scontato. Se è vero che la CGUE ha competenza a interpretare il diritto UE con efficacia retroattiva, sostenere che la CGUE possa fornire l’equivalente di quella che sarebbe l’interpretazione autentica dei Trattati da parte degli Stati membri (alias i “signori dei Trattati”) va oltre a quanto sostenuto da parte della CGUE stessa, almeno in termini espliciti, almeno fino ad oggi.
In secondo luogo, stupisce che il rapporto tra TCE e diritto UE non venga valutato in termini di potenziale conflitto tra trattati, come invece sono soliti fare non solo gli altri tribunali arbitrali (Vattenfall, par. 222-229), ma anche la stessa Commissione europea, quando interviene come amicus curiae per cercare di dare effettività ad Achmea ed all’autonomia del diritto UE (v. per es., l’intervento come amicus curiae in Madar Solar). In questi casi, il confronto si concentra su quelle che vengono individuate come le norme rilevanti per la soluzione di tale conflitto, cioè l’art. 16 TCE da una parte ed il primato del diritto UE dall’altra, argomentando la prevalenza del TCE sui Trattati e viceversa sulla base dei criteri di lex specialis e lex posterior (v. Malferrari 2021a, op. cit.). In Green Power, invece, il tribunale ragiona in termini di armonia tra i due sistemi normativi. Il problema della giurisdizione viene risolto tramite una lettura integrata del diritto internazionale e del diritto UE (inclusa ovviamente la giurisprudenza della CGUE). In questo contesto, l’art. 16 TCE viene privato di rilevanza (par. 416). Il primato, al contrario, viene considerato come dirimente. Tuttavia, esso non rileva come lex specialis (diversamente dalla posizione della Commissione come amicus curiae in Masdar Solar), ma come lex superior (sul punto v. anche Lavranos). In questo passaggio, il tribunale sta valutando il diritto UE come diritto domestico. Pertanto, esso si rifà al punto di vista che adotterebbe la CGUE o un giudice di uno Stato membro, per i quali il TCE e il diritto UE sono entrambi parte dell’ordinamento interno, il quale a sua volta è governato da un sistema di rapporti tra fonti in cui il primato comporta la prevalenza del secondo rispetto al primo, con la conseguente disapplicazione di quest’ultimo in caso di contrasto (ciò è vero anche in relazione agli accordi internazionali degli Stati membri, v. Rosas). Invero, il tribunale si dimostra poco sensibile alla complessità del rapporto tra diritto UE e diritto nazionale degli Stati membri. Esso fornisce una propria personale lettura del principio del primato, secondo la quale il diritto UE prevarrebbe sul diritto nazionale in virtù di un rapporto gerarchico simile a quello che contraddistingue la relazione tra jus cogens e diritto pattizio (par. 470). Il tribunale non approfondisce ulteriormente la triangolazione tra diritto UE, diritto nazionale e diritto internazionale, né prende in considerazione le diversità esistenti tra i punti di vista di CGUE e corti costituzionali o supreme degli Stati membri sul tema dell’incorporazione (e conseguente posizione gerarchica) del diritto UE negli ordinamenti nazionali (v. Bobek). Ad ogni modo, e senza che sia necessario approfondire ulteriormente la questione, è indubbio che un simile approccio non possa che condurre il tribunale a sostenere che, «[s]een from a lex superior perspective, the ECT could only override EU law in intra-EU relations if the ECT, including its Article 16, could be considered as lex superior with respect to the relevant norms of EU law, including Article 267 and 344 TFEU and the principle of primacy. The Tribunal considers that there are no grounds on which the ECT could have such an overriding character in the circumstances of this case» (par. 470).
Nell’ottica dell’effettività dell’autonomia del diritto UE, almeno a prima vista, l’approccio argomentativo del tribunale sembrerebbe rappresentare una vittoria. Non soltanto viene applicata la dottrina Achmea, ma viene addirittura stabilita (ai fini del procedimento in esame) la prevalenza del diritto UE rispetto al TCE, anche sul piano del diritto internazionale (grazie alla lex loci della sede dell’arbitrato). A ben guardare, però, il lodo poggia su di una premessa che risulta paradossale per l’autonomia del diritto UE e per la sua effettività. Il tribunale, invero, definisce la sua posizione applicando il diritto UE (come afferma esso stesso, par. 172): i citati art. 267 e 344 TFUE, il primato e l’autonomia, ma anche gli art. 107 e 108 TFUE (par. 447). La giurisprudenza della CGUE, a cui il tribunale stesso fa riferimento nel lodo, ha stabilito che, da un punto di vista del diritto UE, solo la CGUE è competente a fornire l’interpretazione del diritto UE, ove questo venga in rilievo in una controversia tra Stati membri, in ragione dell’art. 344 TFUE e dell’autonomia (MOX Plant, punti 126-127 ; parere 2/13, punto 212; République de Moldavie, punto 49). Questo è esattamente ciò che il principio di autonomia e la giurisprudenza Achmea sono volti a garantire (v. l’intervento della Commissione come amicus curiae in Masdar Solar, p. 18). Vero è che il tribunale applica il diritto UE alla luce della giurisprudenza della CGUE, come da condizioni dettate dal parere 1/17. Eppure, si tratta pur sempre di una lettura selettiva della stessa, tanto che, in più di un passaggio, il tribunale nota che l’interpretazione da lui adottata sia quella da considerare più corretta rispetto al proprio intendimento della giurisprudenza della CGUE, in contrasto con quelle adottate da altri tribunali arbitrali (par. 437-438). Ciò, però, implica che esistano altre possibili interpretazioni del diritto UE che, per quanto divergenti rispetto alle posizioni della CGUE, siano comunque percorribili (e sono state effettivamente percorse; par. 429 e lodi citati in nota). Il fatto che in questo caso il tribunale abbia seguito “correttamente” la giurisprudenza CGUE non può quindi garantire che lo stesso approccio, adottato da altri tribunali, sia di per sé del tutto immune da rischi per l’autonomia del diritto UE (sull’incompatibilità con l’autonomia di un rischio anche solo potenziale, v. il parere 2/13, punto 208).
In definitiva, il modo di dare applicazione ad Achmea e di garantire effettività all’autonomia del diritto UE individuato in Green Power, per quanto rappresenti quello più aderente alla giurisprudenza della CGUE e, in generale, il più conciliante con il diritto UE, rappresenta un paradosso per l’autonomia del diritto UE, almeno per come è stata intesa finora dalla CGUE.
A ciò si aggiungono ulteriori questioni che hanno ad oggetto l’estensibilità del ragionamento seguito nel lodo ad altri possibili casi di arbitrato ISDS intra-UE. Il tribunale applica il diritto UE in ragione del fatto che la sede dell’arbitrato è in uno Stato membro (supra). Tuttavia, non è affatto scontato che questa strada sia percorribile da un altro tribunale arbitrale (anche supponendo la “benevolenza” dello stesso) qualora si tratti di un arbitrato ICSID (par. 160-162 e 439; in questo senso anche Lampo), o la sede arbitrale non sia stabilita in uno Stato membro.
In termini di effettività dell’autonomia del diritto UE, il valore aggiunto della soluzione trovata in Green Power risulta, insomma, ridimensionato. Pur garantendo una tale effettività nel caso specifico, sia pur con gli effetti paradossali descritti, il lodo non offre per se una risposta definitiva alla questione. Una soluzione realmente definitiva sembra invece arrivare dalla revisione del TCE, tramite l’inserimento di una clausola che impedisca la nascita di controversie tra investitore e Stato nel contesto intra-UE. Nonostante la fumata nera iniziale (che aveva portato il Belgio a chiedere alla CGUE un parere sulla compatibilità del progetto di accordo nel parere 1/20), di recente il Consiglio ha fatto sapere che sarebbe stato raggiunto un accordo sul punto. Difficile pensare che una simile evoluzione nei negoziati non sia stata in qualche modo sospinta, per non dire obbligata, dalla nettezza della posizione della Corte, in Achmea ed in République de Moldavie (nonostante l’irricevibilità dalla domanda nel parere 1/20). Comunque sia, questa soluzione alla questione dell’effettività dell’autonomia del diritto UE sembra essere simile a quella trovata nel caso dei BIT tra Stati membri tramite l’Accordo sulla terminazione di questi trattati (v. Malferrari 2021b). Infatti, in entrambi i casi si tratta di soluzioni che vanno alla radice del problema (cioè il consenso delle parti all’arbitrato), agendo tramite strumenti di diritto internazionale. Per avere una risposta definitiva alla questione dell’effettività dell’autonomia, dunque, non è sufficiente una soluzione di diritto UE, ma se ne rende necessaria anche una che, nel ribadire la prima, la trasferisca nel diritto internazionale, mantenendo così separati (ma coordinati) i due livelli normativi.
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