Luci ed ombre della proposta di direttiva europea sull’obbligo di due diligence d’impresa in materia di diritti umani e ambiente
Marco Fasciglione, IRISS-CNR
1. Introduzione
Dopo una travagliata gestazione il 23 febbraio scorso la Commissione europea ha finalmente pubblicato la proposta di direttiva sulla due diligence d’impresa in materia di sostenibilità (cfr. Proposal for a Directive of the European Parliament and of the Council on Corporate Sustaiinability Due Diligence and amending Directive (EU) 2019/1937, COM(2022)71 final del 23 febbraio 2022) che è destinata ad introdurre nell’ordinamento giuridico dell’Unione europea un obbligo di due diligence in materia di diritti umani e ambiente per le imprese europee. La direttiva una volta in vigore sarà applicabile non solo all’interno dell’UE ma anche lungo le catene di approvvigionamento delle imprese europee a livello globale. Si tratterebbe, dunque, del primo strumento normativo dell’Unione europea recante obblighi di due diligence in materia di diritti umani per il settore privato ad applicarsi orizzontalmente a tutti i settori produttivi e con effetti extraterritoriali. Qualora adottata, la futura normativa opererebbe, insomma, nel solco della creazione di un … ‘comune terreno di gioco’ normativo (c.d. level playing field) negli ordinamenti giuridici degli Stati membri (cfr. Fasciglione, p. 51) i quali attraverso di essa conferirebbero, da un lato, attuazione all’obbligo di proteggere i diritti umani dalle violazioni riconducibili alle attività del settore privato sancito dal primo Pilastro dei Principi Guida ONU su imprese e diritti umani (UNGPs) e, dall’altro, darebbero ‘concretezza’ normativa alla responsabilità delle imprese di rispettare i diritti umani disciplinata dal secondo Pilastro dei Principi Guida (cfr. Macchi and Bright, pp. 218-247).
Questo post intende fornire una prima, anche se per ovvi motivi non esaustiva, analisi delle disposizioni della proposta di direttiva. Ci si concentrerà prevalentemente sugli aspetti collegati all’ambito di applicazione della direttiva e a quelle volte al potenziamento dell’accesso ai rimedi per le vittime, evidenziandone le molte luci ma anche le non poche ombre che minacciano di minarne l’effettività dal punto di vista della necessità di prevenire le violazioni dei diritti umani riconducibili alle attività del settore privato e di fornire alle vittime delle vie di rimedio.
2. Ratio, base giuridica e struttura della proposta di direttiva
L’azione legislativa della Commissione si giustifica alla luce del sostanziale fallimento dell’approccio tradizionale fondato su misure volontarie e di autoregolamentazione aziendale, espresso essenzialmente nella nozione di ‘responsabilità sociale d’impresa’ (cfr. Ramasastry) e dunque alla luce della crescente necessità di una legislazione vincolante a livello europeo che contribuisca a prevenire le violazioni dei diritti umani che si verificano nell’ambito delle operazioni economiche delle imprese, incluse le rispettive catene del valore, assicurando la responsabilità delle stesse in caso di violazioni nonché l’accesso a dei rimedi effettivi per le vittime. La base giuridica della proposta di direttiva è coerentemente individuata dall’explanatory memorandumnegli art. 50 e 114 del TFEU concernenti, come noto, l’adozione di misure volte a realizzare la libertà di stabilimento e quelle relative al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri che hanno per oggetto l’instaurazione ed il funzionamento del mercato interno. Le misure proposte, insomma, intendono evitare i rischi di una frammentazione del mercato interno, e le conseguenze per la libertà di stabilimento, che deriverebbero dalle differenze regolamentari originate dalle diverse scelte adottate in materia dai singoli Paesi membri, con alcuni di essi che potrebbero decidere di regolare il settore autonomamente (cosa già avvenuta ad esempio in Francia – Loi n° 2017-399 du 27 mars 2017 relative au devoir de vigilance des sociétés mères et des entreprises donneuses d’ordre – e in Germania – Act on Corporate Due Diligence Obligations in Supply Chains (Lieferkettengesetz), BGBl I 2021, 2959) oppure con altri Paesi che potrebbero decidere di non legiferare del tutto in materia. Con questa proposta di direttiva, quindi, il legislatore europeo intende prevenire tali rischi armonizzando gli obblighi delle imprese in materia di due diligence e creare in tal modo le condizioni in base alle quali società di dimensioni simili e i loro amministratori siano soggetti agli stessi obblighi circa l’integrazione di misure di sostenibilità e di due diligencesui diritti umani e l’ambiente nella governance societaria.
La struttura della proposta legislativa della Commissione può essere ricostruita come segue: un primo gruppo di disposizioni a carattere introduttivo (gli art. 1-3) definiscono l’oggetto (la fissazione dell’obbligo di due diligence), l’ambito di applicazione ratione personae della proposta di direttiva e le definizioni circa i termini in essa utilizzati. Un secondo gruppo di disposizioni (art. 4-16) concerne la parte sostanziale della proposta di direttiva e disciplina quindi le modalità applicative dell’obbligo di due diligence fissato all’art. 1 e le relative misure di accompagnamento. Un terzo ed un quarto gruppo di disposizioni (art. 17-21 e art. 22) disciplinano rispettivamente il meccanismo di monitoraggio sul rispetto degli obblighi fissati dalla futura direttiva – affidato ad autorità nazionali di supervisione – ed il regime sanzionatorio nel caso di violazioni del dovere di vigilanza fondato su di un meccanismo di responsabilità civile volto a rafforzare l’accesso ai rimedi per le vittime. Nelle disposizioni finali ve ne sono due di estremo interesse attinenti la corporate governance e che introducono l’obbligo (c.d. duty of care) per gli amministratori delle imprese rientranti nell’ambito di applicazione della proposta di direttiva di prendere in considerazione le conseguenze delle proprie decisioni sulle questioni legate alla sostenibilità, inclusi i diritti umani, l’ambiente ed il cambiamento climatico (art. 25) e di supervisionare e controllare l’attuazione delle misure di vigilanza predisposte dalle proprie imprese in esecuzione dell’obbligo di due diligence sancito dalle disposizioni della proposta di direttiva (art. 26). Con specifico riferimento al cambiamento climatico, l’art. 15 introduce l’obbligo di valutare il rischio di impatti negativi sul clima derivante dalle operazioni dell’impresa ed in particolare in relazione al raggiungimento del limite di 1,5° fissato dagli Accordi di Parigi (in tema di cambiamento climatico, due diligence aziendale sui diritti umani e l’ambiente, v. Macchi, pp. 63-89 e 91-107).
3. L‘obbligo di due diligence aziendale in materia di diritti umani: una novità di rilievo … ma solo per le imprese di grosse dimensioni
L’elemento centrale della proposta di direttiva risiede nell’obbligo imposto agli Stati membri dell’UE (art. 4) di introdurre nei rispettivi ordinamenti interni norme di legge volte ad imporre alle imprese di grosse dimensioni che operano nel mercato interno europeo, di adottare obblighi di due diligence sui diritti umani e sull’ambiente, destinati ad identificare, prevenire, mitigare e rendere conto degli impatti negativi reali o potenziali sul piano dei diritti umani e dell’ambiente in relazione alle loro attività e lungo le catene di fornitura (cfr. art. 1). La normativa, che si applicherà tendenzialmente a tutti i settori produttivi, obbligherà dunque tali imprese a identificare e valutare una potenziale vasta gamma di rischi, come ad esempio lo sfruttamento del lavoro minorile, l’utilizzo di lavoro forzato, la discriminazione sui luoghi di lavoro, l’inquinamento dell’ambiente, ecc. Se, da un lato, le fasi sostanziali del meccanismo di due diligence contemplato dalla futura direttiva (art. 4) sono in linea di massima allineate con quanto previsto del Principio 17 dei Principi Guida ONU su imprese e diritti umani in relazione al dovere di due diligence aziendale sui diritti umani, dall’altro lato tuttavia alcuni specifici elementi del processo di due diligence descritto dalla proposta di direttiva non risultano conformi agli UNGPs, che sono diventati, nel breve volgere di dieci anni, il principale standard di riferimento in materia per Stati, imprese ed Organizzazioni internazionali. Stridente è la distanza che sussiste, ad esempio, tra i due strumenti circa la consultazione delle parti interessate nelle diverse fasi della due diligence. La proposta di direttiva, infatti, prevede, come previsto dai Principi 20 e 21 degli UNGPs, che le imprese soggette agli obblighi previsti dalla direttiva consultino gli stakeholders e le diverse parti interessate in relazione all’identificazione degli impatti negativi sui diritti umani e quando sviluppano i piani di azione preventivi e correttivi, ma, a differenza di quanto sancito dai Principi Guida – che prevedono la consultazione delle parti interessate come sempre necessaria – nel testo attuale della proposta di direttiva tale consultazione dovrà avvenire solo se necessario (“where relevant”).
Particolarmente rilevanti, poi, sono le disposizioni della proposta di direttiva che disciplinano l’ambito ratione personae. Sul punto, in effetti, la proposta della Commissione si segnala per un approccio metodologico particolarmente restrittivo. Alla luce del testo attuale della futura direttiva, infatti, essa si applicherà esclusivamente alle imprese di grosse dimensioni come determinate in base ad un duplice criterio dimensionale: numero di dipendenti e fatturato. Nello specifico, l’art. 2, lett. a), della proposta di direttiva, stabilisce che essa si applichi alle imprese che sono costituite in conformità della normativa di uno Stato membro e che abbiano avuto, in media, più di 500 dipendenti e un fatturato netto a livello mondiale di oltre 150 milioni di Euro nell’ultimo esercizio finanziario. L’art. 2, lett. b), della proposta applica un criterio di fatturato, ridotto per alcuni specifici settori produttivi considerati ad elevato rischio di impatto negativo sui diritti umani. Si tratta del settore tessile, dell’agricoltura, della pesca, della silvicoltura e della lavorazione dei prodotti alimentari, e del settore estrattivo-minerario (inclusi greggio, gas naturale, carbone, metalli e altri minerali). Gli obblighi di vigilanza in materia di diritti umani ed ambiente sanciti dalla proposta di direttiva si estendono, in effetti, anche a quelle imprese che, sebbene non raggiungano le condizioni minime fissate dall’art. 2(a), abbiano avuto, in media, più di 250 dipendenti e un fatturato netto a livello mondiale di oltre 40 milioni di Euro, a condizione che il 50 % di tale fatturato netto sia stato generato in uno o più dei settori ad elevato rischio. Di estremo interesse il fatto che l’obbligo di due diligence si applicherà non solo alle imprese in possesso delle condizioni di cui sopra disciplinate dal diritto di uno Stato membro, ma anche a quelle che, sebbene disciplinate dal diritto di un Paese terzo, operino all’interno del mercato dell’Unione (cfr. art. 2, par. 2), purché soddisfino uno dei requisiti di fatturato fissati dall’art. 2, par. 2.
Ora, l’approccio metodologico utilizzato per circoscrivere l’ambito di applicazione ratione personae della direttiva non è pienamente convincente. In effetti, il numero di dipendenti o il fatturato di un’impresa non possono costituire degli indicatori affidabili circa gli impatti negativi che un’impresa può originare sulla sua catena del valore. Non a caso tale limitazione è assente tanto nei Principi Guida quanto nelle Linee Guida OCSE che si applicano, sia pure secondo criteri di proporzionalità, a tutte le imprese (v. infra). Tra l’altro, l’ambito della proposta di direttiva è addirittura più ristretto della proposta di direttiva sulla rendicontazione societaria sulla sostenibilità (cfr. Proposal for a directive of the European Parliament and of the Council amending Directive 2013/34/EU, Directive 2004/109/EC, Directive 2006/43/EC and Regulation (EU) No 537/2014, as regards corporate sustainability reporting, del 21 aprile 2021) che si applica a tutte le grandi imprese e a quelle di minori dimensioni quotate in borsa. Un coordinamento del campo di applicazione delle due proposte di direttiva, come tra l’altro proposto dalla relazione del PE del 2021 (cfr. Parlamento europeo, Risoluzione del Parlamento europeo del 10 marzo 2021 recante raccomandazioni alla Commissione concernenti la dovuta diligenza e la responsabilità delle imprese), sarebbe stato senz’altro auspicabile. Ad ogni buon conto anche a voler mantenere l’approccio fondato sul numero di dipendenti e sul fatturato annuo, le due soglie previste dalla direttiva dovrebbero essere considerate alternative, e non cumulative. Se così non sarà nella futura direttiva, imprese con alti fatturati e quindi sufficienti risorse per adottare processi di due diligence sui diritti umani, si troveranno al fuori dell’ambito di applicazione della direttiva per il semplice fatto di svolgere attività non caratterizzate da alta intensità di lavoro. Addirittura le imprese potrebbero fare ricorso all’utilizzo a strategie di outsourcing della manodopera proprio per evitare di ritrovarsi nell’ambito di applicazione della futura direttiva.
Con riguardo alle situazioni ad elevato rischio di violazioni dei diritti umani, sorprende l’assenza nella proposta di direttiva di qualsivoglia riferimento alle aree affette da conflitto (a parte il rinvio – nei Considerando – al Regolamento (UE) 2017/821 sui minerali provenienti da zone di conflitto). Si tratta di una grave lacuna ove si consideri il rischio oggettivo per le imprese europee di trovarsi coinvolte in situazioni di conflitto nell’esercizio delle proprie operazioni economiche e che, in presenza di tali fattispecie, i UNGPs non solo non prevedono deroghe per le imprese ma al contrario richiedono una due diligence ‘rafforzata’ (c.d. heightened due diligence) da parte delle stesse (cfr. Principi 7 e 17; sia consentito il rinvio, con riferimento al ruolo del settore privato nel conflitto in Ucraina, al mio Post apparso in questo Blog il 6 marzo 2022).
Sempre con riferimento all’ambito di applicazione personale della futura direttiva, l’altro grande elemento di problematicità consiste nel fatto che la proposta esclude esplicitamente le piccole e medie imprese (PMI) dagli obblighi di due diligence. L’esclusione è giustificata dalla Commissione nell’explanatory memorandum sulla base della constatazione che per siffatta tipologia di imprese, che rappresentano complessivamente oltre il 90% di tutte le imprese dell’Unione, gli oneri in termini di risorse finanziarie e amministrative derivanti dalla predisposizione e attuazione di meccanismi di due diligence sarebbero eccessivamente elevati. Tali imprese, in effetti, sarebbero normalmente non abituate, secondo il memorandum, ai meccanismi di vigilanza, e quindi sfornite del necessario know-how nonché del personale specializzato, con la conseguenza che “i costi dell’esercizio della diligenza avrebbero su di esse un impatto sproporzionato” (cfr. p. 14).
Le motivazioni alla base dell’esclusione delle PMI dall’ambito di applicazione della futura direttiva avanzate dalla proposta della Commissione fanno parte di un più ampio, e noto, dibattito concernente quella sorta di “invisibilità” delle PMI dal punto di vista dell’attuazione degli standard internazionali sui diritti umani (per una lucida analisi dei termini della questione cfr. M. Addo, “Business and Human Rights and the Challenges for Small and Medium-Sized Enterprises”, in Small and Medium- Sized Enterprises in International Economic Law, T. Rensmann (ed.), p. 311-338, in part. p. 313 ss.). Le motivazioni addotte per giustificare questa esclusione, in realtà, non convincono. In effetti, il secondo Pilastro dei Principi Guida rifugge qualsiasi criterio di selettività nell’applicazione della responsabilità delle imprese di rispettare i diritti umani e dei doveri collegati a tale responsabilità (come quello di due diligence). Il Principio 14, infatti, chiarisce, che “la responsabilità delle imprese di rispettare i diritti umani si applica a tutte le imprese, indipendentemente dalla loro dimensione, dal settore, dal contesto operativo, dell’assetto proprietario e dalla loro struttura” (l’enfasi è nostra). In altre parole non è possibile restringerne l’ambito di applicazione esclusivamente alle imprese di determinate dimensioni o di determinate tipologie: la responsabilità di rispettare i diritti umani si applica a tutte le imprese senza distinzioni di sorta. Il motivo sottinteso a tale logica includente ed aperta è chiaro. Al giorno d’oggi non sono più solo le imprese di grandi dimensioni, le imprese multinazionali, a sfruttare i vantaggi, ad es. i minori costi, che derivano dall’utilizzo delle supply chain per approvvigionarsi di materie prime, prodotti, e/o servizi al cui interno si verificano violazioni dei diritti umani anche di particolare gravità. A ben vedere, anche le imprese di minori dimensioni fanno ampio ricorso alle catene di fornitura globali e quindi corrono il rischio di essere coinvolte, consapevolmente o inconsapevolmente, in violazioni dei diritti umani, come, ad esempio, lo sfruttamento della manodopera infantile, oppure l’utilizzo di lavoro in condizioni di schiavitù. Imporre anche a tale tipologia di imprese obblighi di due diligence e di valutazione del rischio di violazioni dei diritti umani è pertanto assolutamente coerente, se non necessario, con l’obiettivo, che la stessa proposta di direttiva fissa, di prevenire e combattere tali violazioni (cfr. p. 3). Ciò non significa, tuttavia, che non si debba tenere conto delle differenze tra le diverse imprese in termini di caratteristiche, tipologie e quindi anche di risorse. È proprio per questo motivo che la seconda parte del Principio 14 degli UNGPs chiarisce che “nondimeno, la portata e la complessità degli strumenti con cui le imprese adempiono tale responsabilità possono variare in funzione dei summenzionati fattori e del livello di gravità degli impatti negativi dell’impresa sui diritti umani”. Insomma, fermo restando che tutte le imprese, senza distinzione alcuna, sono sottoposte alla responsabilità di rispettare i diritti umani, le misure di attuazione di questa responsabilità, inclusa la due diligence sui diritti umani, sono funzionalmente collegate alle caratteristiche proprie di ciascuna di esse e varieranno in base alla dimensione dell’impresa, al rischio di gravi impatti sui diritti umani, alla natura e al contesto delle sue operazioni (cfr. in materia, OHCHR, The Corporate Responsibility to Respect Human Rights: an Interpretive Guide, 2012).
4. Catene di approvvigionamento delle imprese e obbligo di due diligence aziendale sui diritti umani: la nozione di “rapporto d’affari consolidato”
L’art. 1 della proposta nel fissare per le imprese obblighi di vigilanza sui diritti umani e sull’ambiente, chiarisce che tali obblighi si applicano anche alle operazioni che sono condotte lungo le catene del valore da partner commerciali con cui l’impresa mantiene un “rapporto d’affari consolidato”. L’art. 3 della proposta di direttiva precisa che con tale allocuzione deve intendersi un rapporto d’affari “whether direct or indirect, which is, or which is expected to be lasting, in view of its intensity or duration and which does not represent a negligible or merely ancillary part of the value chain”. Si tratta di una nozione, quella di rapporto d’affari consolidato, che è evidentemente mutuata dalla Loi francese del 2017 che nel novellare il codice del commercio ha inserito con l’art. L. 225-102-4 un dovere di vigilanza ragionevole per le imprese francesi volto ad identificare i rischi e a prevenire le violazioni gravi dei diritti umani “résultant des activités de la société […], ainsi que des activités des sous-traitants ou fournisseurs avec lesquels est entretenue une relation commerciale établie, lorsque ces activités sont rattachées à cette relation”. Il punto è che siffatta nozione, e la logica ad essa sottintesa, sono completamente estranee all’acquis derivante dagli strumenti internazionali in materia di imprese e diritti umani. In effetti, a differenza della proposta di direttiva, in cui lo standard di due diligence applicabile alle catene di approvvigionamento è individuato in funzione delle caratteristiche proprie delle relazioni commerciali delle imprese (più o meno durature, più o meno intense), la prospettiva dei Principi Guida ONU è radicalmente diversa: lo standard di due diligence per le catene di fornitura è individuato attraverso il “collegamento diretto” tra l’impatto negativo sui diritti umani e le operazioni, i prodotti, e i servizi dell’impresa per il tramite delle sue relazioni commerciali (cfr. Principio 17, lett. a).
Insomma, l’elemento sostanziale, che l’attuale formulazione della proposta di direttiva pare non cogliere, è che possono sussistere situazioni in cui le operazioni, prodotti o servizi di una impresa sono direttamente collegati con l’impatto negativo sui diritti umani di enti terzi con i quali l’impresa può non avere una stabile relazione commerciale: ed il tipico esempio è proprio quello delle catene di approvvigionamento. Insomma, la terminologia impiegata dalla proposta della Commissione rischia di tagliare fuori dall’ambito di applicazione della futura direttiva gli impatti negativi derivanti da relazioni d’affari non durature ma comunque caratterizzate da impatti gravi e severi sui diritti umani o l’ambiente. Anzi, per assurdo, l’utilizzo di tale criterio può condurre a meccanismi di incentivo al contrario: se le relazioni non durature non sono incluse nell’ambito di applicazione della direttiva, le imprese potranno cambiare regolarmente i fornitori per evitare di creare rapporti commerciali duraturi e di … ‘incappare’ nelle maglie degli obblighi di due diligence e delle responsabilità ad essi associate.
4. L’ambito di applicazione ratione materiae dell’obbligo di due diligence sui diritti umani
Sui generis la tecnica prescelta per determinare l’ambito di applicazione ratione materiae della futura direttiva. L’art. 3 lett. b) e c), infatti, nel fornire la definizione delle nozioni di ‘impatto ambientale negativo’ e ‘impatto negativo sui diritti umani’ rinvia alle violazioni dei divieti e degli obblighi derivanti dalle convenzioni internazionali in materia ambientale e dagli strumenti internazionali sui diritti umani elencati nelle Parti II e I dell’Allegato alla proposta di direttiva (cfr. Annex to the proposal for a Directive of the European Parliament and of the Council on Corporate Sustainability Due Diligence and amending Directive (EU) 2019/1937). Si tratta di un elenco di fattispecie di violazioni ambientali e dei diritti umani, previsto nella Parte I dell’Allegato, cui ogni impresa dovrà indirizzare le proprie misure di mappatura, prevenzione e mitigazione. Tale elenco è completato da una clausola residuale di salvaguardia che, con una formulazione a dir poco oscura, intenderebbe sancire l’estensione dell’ambito materiale della futura normativa ad ogni altra violazione di diritti umani che sebbene non menzionati nell’elenco di cui alla Parte I risultano inclusi in una lista di strumenti internazionali sui diritti umani elencati nella sezione 2 della Parte I. Tali violazioni rientrerebbero nell’ambito di applicazione della direttiva “[…], provided that the company concerned could have reasonably established the risk of such impairment and any appropriate measures to be taken in order to comply with the obligations referred to in Article 4 of this Directive taking into account all relevant circumstances of their operations, such as the sector and operational context” (cfr. par. 21). A parte il carattere criptico della formulazione citata, la disposizione in esame sembra perseguire la necessità di un approccio selettivo delle norme sui diritti umani da applicare ai fini della due diligence d’impresa in materia di diritti umani e ambiente con la conseguenza di circoscriverne l’applicazione ad un particolare sottoinsieme di diritti fondamentali e di norme ambientali. Ebbene, così non può essere posto che come riconosciuto dal Principio 12 degli UNGPs le imprese con le loro operazioni economiche possono avere un impatto, diretto o indiretto, praticamente sull’intero spettro dei diritti umani emersi a livello internazionale, ivi incluse su quelle garanzie tradizionalmente considerate ‘esigibili’ solo nei confronti degli Stati e che invece oggigiorno si rivelano oggetto di intrusioni, anche gravi, da parte delle imprese (un lampante esempio di quanto andiamo dicendo è rappresentato dallo scandalo Cambridge Analytica e le presunte interferenze esercitate sul diritto a libere elezioni di milioni di cittadini americani a causa della manipolazione di dati raccolti da Facebook e da essa condivisi con la società in questione; per un analisi cfr. D. Desierto). Non solo, l’elenco contenuto nella sezione 2 della Parte I dell’Allegato omette sorprendentemente qualsiasi riferimento a strumenti internazionali particolarmente importanti per la materia de qua agitur. Tra i tanti: la Convenzione ILO n. 190 sulla violenza e le molestie sui luoghi di lavoro del 2019; la Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti dei lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie adottata dall’Assemblea generale ONU nel 1990; la Convenzione internazionale per la protezione di tutte le persone dalla sparizione forzata del 2006; la Convenzione ILO n. 169 sulle popolazioni indigene e tribali del 1989. Sono omessi, cosa non meno sorprendente, i principali strumenti regionali europei in materia di diritti umani e segnatamente la CEDU e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Medesime problematiche emergono con riferimento agli strumenti in materia ambientale menzionati nell’allegato. Tra gli strumenti chiave che non sono menzionati dall’Allegato alla proposta di direttiva figurano: l’Accordo di Parigi sul clima del 2015 (a dispetto dell’art. 15 che invece effettua un rinvio agli obblighi in materia di clima derivanti da tale trattato), la Convenzione di Ramsar sulle zone umide di importanza internazionale del 1971; la Convenzione internazionale per la prevenzione dell’inquinamento causato da navi (MARPOL 73/78); la Convenzione sul diritto del mare del 1982; la Convenzione di Aarhus sull’accesso alle informazioni, la partecipazione del pubblico ai processi decisionali e l’accesso alla giustizia in materia ambientale.
5. Il meccanismo di monitoraggio e quelli sanzionatori previsti dalla proposta di direttiva
Con riferimento specifico al sistema di controlli, l’art 17 della proposta di direttiva prevede l’obbligo degli Stati membri di istituire delle autorità nazionali di controllo – cui corrisponderà a livello europeo un network europeo di tali autorità – incaricate di vigilare il rispetto degli obblighi previsti dalle disposizioni nazionali adottate in relazione all’obbligo di due diligence aziendale.
Agli Stati membri è richiesto, in particolare, di istituire delle autorità di controllo dotate di indipendenza (par. 8) che potranno richiedere informazioni e svolgere indagini d’ufficio o a seguito di una ‘segnalazione circostanziata’ trasmessa ai sensi dell’art. 19, qualora vi siano notizie sufficienti a indicare una possibile violazione da parte di una impresa degli obblighi sanciti dalle disposizioni nazionali adottate in attuazione della direttiva. Il testo attuale della proposta di direttiva, in particolare, prevede che le autorità di controllo dispongano almeno dei poteri seguenti: a) ordinare alle imprese la cessazione della violazione, di astenersi da qualsiasi reiterazione della condotta in questione e, se del caso, di adottare i provvedimenti correttivi proporzionati alla violazione e necessari per porvi fine; b) imporre sanzioni ai sensi dell’art. 20 che siano, secondo una formula di rito nei processi legislativi di armonizzazione minima delle istituzioni legislative eurounitarie, “effettive, proporzionate e dissuasive”. Nella direzione del potenziamento dell’accesso ai rimedi per le vittime di violazioni milita anche la richiesta agli Stati di prevedere, accanto al regime sanzionatorio di cui all’art. 20, la responsabilità civile delle imprese per la violazione degli obblighi sanciti dalla proposta di direttiva. L’art. 22 della proposta di direttiva, in effetti, prevede la responsabilità dell’impresa da risarcimento dei danni in favore di coloro che dovessero aver subito un danno dall’omessa adozione da parte dell’impresa di procedure volte ad identificare, prevenire e mitigare gli impatti negativi sui diritti umani e sull’ambiente. Le vittime potranno agire in giudizio per ottenere il risarcimento dei danni causati da tale omissione una volta che da essa sia dipeso nei loro confronti un impatto negativo. Si tratta, senz’altro, di una novità dal punto di vista del rafforzamento della tutela effettiva dei diritti umani dalle violazioni che avvengono nel quadro delle operazioni economiche delle imprese ma che non è immune criticità soprattutto nella prospettiva del problema dell’eliminazione delle barriere all’accesso ai rimedi (cfr. FRA, Improving access to remedy in the area of business and human rights at the EU level, Opinion 1/2017). In effetti, il testo della proposta di direttiva non tocca cruciali questioni riguardanti l’accesso ai rimedi per le vittime soprattutto quando, a causa delle caratteristiche tipiche delle moderne forme della produzione, risultino ‘interessati’ ordinamenti nazionali di Paesi extraeuropei. In tale evenienza, le norme uniformi UE in materia di conflitto di giurisdizione e di conflitto di leggi non assicurano un titolo giurisdizionale ad hoc per le azioni di risarcimento del danno delle vittime di violazioni dei diritti umani compiuti in Stati terzi da parte di imprese europee (per una ricostruzione dei termini della questione, cfr. Marrella, “I Principi Guida dell’ONU sulle imprese e i diritti umani del 2011 e l’accesso ai rimedi tramite gli strumenti di diritto internazionale privato europeo: una valutazione critica” in Castellaneta e Vessia). Ebbene, il testo proposto dalla Commissione non interviene affatto su tali aspetti, e questo nonostante l’invito proveniente dalla Commissione giuridica del Parlamento europeo a riformare le norme di diritto internazionale privato e processuale dell’Unione per facilitare la giurisdizione dei tribunali europei e l’applicazione delle norme dell’ordinamento dei Paesi membri in siffatte fattispecie (cfr. Parlamento Europeo, Draft Report with recommendations to the Commission on corporate due diligence and corporate accountability, 2020/2129(INL), dell’11 settembre 2020; per un’analisi v. Bonfanti). Analogo discorso vale in relazione alle norme degli Stati membri applicabili in materia di onere della prova. Come oramai riconosciuto dalle principali istituzioni regionali europee operanti in materia di diritti umani, tali normative interne costituiscono spesso un ostacolo rilevante per le vittime, non esistendo nella maggior parte Paesi membri UE un diritto di accesso alle informazioni che siano in possesso della parte convenuta o di una terza parte quando tali informazioni sono rilevanti per comprovare le rivendicazioni delle vittime. Ciò vale, ad esempio, per quelle informazioni utili a provare il controllo della casa madre europea sulle sussidiarie (cfr. C. Bright, “The Civil Liability of the Parent Company for the Acts or Omissions of Its Subsidiary: The Example of the Shell Cases in the UK and in the Netherlands”, in Bonfanti, pp. 212-222) o l’esistenza di connessioni sufficienti con enti operanti lungo le catene di approvvigionamento (cfr. FRA, Business and human rights – access to remedy, 2020, Opinione n. 3). Insomma, la proposta di direttiva avrebbe potuto armonizzare anche tali aspetti fissando l’obbligo degli Stati di rivedere le norme interne di procedura civile quando tali regole applicabili impediscano l’accesso alle informazioni e alle prove delle vittime e prevedere meccanismi volti a facilitare tale l’accesso (cfr. CoE Committee of Ministers, Human Rights and Business, Recommendation CM/Rec(2016)3 of the Committee of Ministers to Member States (2016), par. 43).
6. Conclusioni
Il percorso legislativo che attende la proposta sulla corporate sustainability due diligence si annuncia tortuoso e non privo di ostacoli, e centrale sarà la capacità del legislatore europeo di migliorare il contenuto di alcune sue disposizioni soprattutto nella prospettiva di un maggiore rafforzamento della tutela delle vittime e di un maggior allineamento rispetto agli standard internazionali su impresa e diritti umani; in primis i Principi Guida ONU del 2011. Anche se ancora ius in fieri e non ancora ius positum, il testo licenziato dalla Commissione rappresenta, insomma, un potenziale progresso nel processo di normativizzazione della responsabilità delle imprese circa il loro impatto sui diritti umani e sull’ambiente, ed il superamento dell’approccio fondato sul volontarismo e sul self restraint aziendale. Si tratta di un cruciale banco di prova, in uno dei settori in maggior fermento negli studi internazionalistici … for the Times they are A-changing (Dylan).
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