CHE FINE HANNO FATTO GLI ACCORDI DI MINSK?
Khrystyna Gavrysh (Università di Ferrara)
Gli accordi di Minsk hanno costituito un passaggio importante nella momentanea – e nemmeno così netta – soluzione del conflitto sorto a seguito dell’impeachment dell’allora presidente ucraino Viktor Yanukovich, notoriamente vicino al Governo russo, nel 2014. La reazione della Russia fu, infatti, quella di annettere la Crimea mediante un referendum privo di crismi di democraticità (Peters) e di invadere le regioni del Donbass, invocandone la remedial secession. In siffatto contesto, gli accordi di Minsk rappresentano un compromesso tra le aspirazioni imperialiste della Russia e l’esigenza dell’Ucraina a preservare la propria integrità territoriale.
Analizzando più da vicino questo strumento sorge l’esigenza di fare alcune precisazioni. Anzitutto, gli accordi di Minsk sono due: mentre il primo accordo (Protocollo di Minsk) adottato il 5 settembre 2014 (e seguito da un memorandum esplicativo del 19 settembre) è un accordo-quadro, che stabilisce una serie di principi da attuare al fine di conseguire una risoluzione pacifica della controversia sui territori del Donbass, il secondo (Pacchetto di misure per l’attuazione degli accordi di Minsk), adottato il 12 febbraio 2015, è un accordo di attuazione di questi principi, contenente una serie di misure più dettagliate da adottare in tempi brevi. Tali accordi sono stati firmati dai rappresentanti della Russia, dell’Ucraina e dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE), meglio conosciuti come gruppo di contatto trilaterale sull’Ucraina, oltreché dai due rappresentanti delle regioni separatiste. La conclusione di questi accordi è stata altresì favorita tramite i negoziati promossi in seno al c.d. Formato Normandia, composto dai rappresentanti dell’Ucraina, Russia, Germania e Francia, che hanno sottoscritto una dichiarazione congiunta sull’impegno di attuare gli stessi contestualmente all’adozione del Pacchetto di misure per l’attuazione degli accordi di Minsk. Tale dichiarazione è stata anche inserita nell’allegato n. 2 alla risoluzione n. 2202/2015 del Consiglio di sicurezza che recepisce altresì il secondo accordo di Minsk, rendendo peraltro l’organo delle Nazioni Unite un ulteriore garante, oltre all’OSCE, dell’esecuzione di quanto disposto negli stessi.
Tra gli obblighi più rilevanti degli Accordi di Minsk vi è il cessate il fuoco da ambo le parti, il ritiro delle truppe da parte della Russia e una riforma costituzionale sul decentramento territoriale in capo all’Ucraina entro la fine del 2015. Quest’ultimo obbligo, in particolare, è sancito dall’art. 11 del secondo accordo di Minsk ed è indicato dall’art. 9 dello stesso come presupposto necessario affinché la Russia ceda il pieno controllo sulla frontiera nelle zone del conflitto al Governo ucraino, creando così una subordinazione normativa tra le due disposizioni.
Orbene, spesso si è sentito dire che non c’è alternativa agli accordi di Minsk, ma se si analizzano bene i fatti emerge che non solo – come ormai è ben noto a tutti – la loro estinzione è stata invocata a gran voce da Putin, ma nell’ordinamento giuridico ucraino sono stati avanzati forti dubbi circa la loro validità giuridica. Pertanto, prima di passare alla valutazione del fondamento giuridico dell’invocata estinzione da parte del presidente russo, occorre indagare sulla effettiva validità degli stessi nell’ordinamento internazionale.
Anzitutto, va subito posto in evidenza che il successivo governo ucraino ha mostrato un atteggiamento piuttosto ambiguo in relazione agli accordi. In effetti, Petro Poroshenko – l’ex presidente ucraino che ha promosso la loro stipula, conferendo all’uopo i poteri di rappresentanza a Leonid Kuchma – è stato sottoposto ad un procedimento penale per alto tradimento per fatti connessi alla conclusione degli stessi e, in particolare, per gli accordi di fornitura di carbone con le regioni separatiste. Il procedimento però è finito con un’assoluzione. C’è stata anche un’inchiesta parlamentare sulla possibile violazione della Costituzione ucraina connessa sempre alla stipula degli accordi di Minsk e alle successive riforme promosse proprio da Poroshenko per adeguarvisi. D’altro canto, Volodymyr Zelenskij – subentrato a Poroshenko nel 2019 – ha più volte confermato l’intenzione di attuarli, ma anche l’esigenza di rinegoziarli, mai presa in considerazione dalla Russia. Al di là di questi rilievi, rimane però intangibile un dato fattuale: la riforma costituzionale sull’autonomia territoriale – seppur oggetto di una specifica proposta di legge costituzionale n. 2217а del 1° luglio 2015, che avrebbe apportato significative modifiche all’art. 133 della Costituzione ucraina in materia di organizzazione territoriale – a favore delle regioni separatiste, imposta dall’art. 11 del secondo accordo di Minsk, non è mai stata attuata per eccessive divergenze politiche in seno al Parlamento ucraino, venendo definitivamente revocata il 29 agosto 2019.
Ma veniamo ora alle ragioni sovente invocate nell’ordinamento ucraino, sia dalla dottrina che in seno al Parlamento ucraino, per asserire la carenza di vincolatività giuridica degli accordi di Minsk e, dunque, la loro mera valenza politica (Markov et al., “Legal Nature Issues of the Minsk Agreements (International and Legal Analysis)”, Law and Safety, no. 4, 2020, p. 20 ss.). Gli argomenti principali sono due: mancata espressione della volontà a vincolarsi mediante la ratifica, ai sensi dell’art. 9, par. 1, della Costituzione ucraina, da parte del Parlamento ucraino (Verchovna Rada) e mancato conferimento di pieni poteri a Leonid Kuchma e, dunque, violazione degli articoli 3, 5 e 6 della legge ucraina n. 1906-IV del 29 giugno 2004 sugli accordi internazionali (recanti norme sul procedimento interno da rispettare in materia di conclusione dei trattati) in combinato disposto con l’art. 103, par. 3, della Costituzione ucraina sulla competenza del Presidente a concludere gli accordi internazionali.
Entrambi questi argomenti potrebbero essere spesi per invocare la nullità relativa degli accordi per violazione manifesta di una norma interna di natura fondamentale concernente la competenza a concludere trattati ai sensi dell’art. 46 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969 (Convenzione di Vienna). Questa disposizione va letta in combinato disposto con l’art. 7 della medesima Convenzione riguardante i pieni poteri a rappresentare lo Stato nella conclusione dei trattati. Per comprendere se il conferimento dei pieni poteri fosse incompleto o viziato, occorre, dunque, analizzare il documento con il quale esso è stato effettuato. Orbene, si tratta dell’ordine n. 953 dell’8 luglio 2014, intitolato «Sull’autorizzazione di Kuchma a partecipare al gruppo di contatto tripartito per la risoluzione pacifica della situazione nelle regioni di Donetsk e Luhansk. Al fine di attuare il piano del Presidente dell’Ucraina sulla soluzione pacifica della situazione nelle regioni di Donetsk e Luhansk e di raggiungere accordi sulla sua attuazione». Dal testo del documento non paiono esserci dubbi che si tratti di un vero e proprio conferimento di pieni poteri.
Passando, invece, al secondo argomento, ossia quello della mancata ratifica ai sensi dell’art. 9, par. 1 da parte del Parlamento ucraino, va precisato che in effetti la fattispecie in oggetto – ossia la stipula di un accordo di pacificazione– ricade nelle ipotesi in cui l’atto di ratifica è richiesto dall’art. 9, par. 2, lett. a), della legge n. 1906-IV/2004 sugli accordi internazionali. Tuttavia, la conclusione degli accordi in forma semplificata e, dunque, attraverso l’espressione del consenso mediante la firma, rappresenta una prassi piuttosto consolidata nel diritto internazionale. Pur non conoscendo la tradizione ucraina in materia di accordi semplificati, si può trarre insegnamento dalla pronuncia della Corte internazionale di giustizia sul caso Somalia c. Kenya del 2 febbraio 2017 (Vitucci, “La competenza a rappresentare lo Stato nella conclusione dei trattati e la validità degli accordi fra diritto interno e diritto internazionale”, in Rivista di Diritto Internazionale, fasc. 3, 2018, p. 715 ss.). In applicazione dei principi ivi sanciti, si può giungere alla conclusione che il conferimento dei pieni poteri e il testo degli accordi mediante l’utilizzo di una terminologia assolutamente imperativa faccia pensare senz’altro alla volontà di creare un vincolo giuridico sul piano internazionale. D’altro canto, l’Ucraina avrebbe perso la possibilità di invocare l’invalidità dell’espressione del proprio consenso, in quanto mediante i suoi comportamenti – rectius le dichiarazioni di Zelenskij sulla loro importanza e la congiunta dichiarazione sull’impegno di attuarli dell’allora presidente Poroshenko unitamente ad altri leader politici del formato Normandia, oltreché le riforme da quest’ultimo promosse per adeguarvisi – avrebbe prestato acquiescenza alla validità del Memorandum of understanding, in ossequio ai dettami dell’art. 45, par. 2, della Convenzione di Vienna. Del resto, l’Ucraina non ha mai invocato ufficialmente la nullità degli accordi di Minsk.
Fugati i dubbi sulla validità degli accordi oggetto di questa disamina, occorre interrogarsi circa la loro possibile estinzione, ufficialmente invocata da Putin nella conferenza stampa del 22 febbraio, concessa a seguito del discorso alla nazione in cui riconosceva pubblicamente le Repubbliche indipendenti di Donetsk e Luhansk. Il presidente russo adduce due argomenti a supporto di tale estinzione. Anzitutto, egli afferma che «questo compromesso [rappresentato dagli accordi] è rimasto lettera morta per colpa dell’attuale Governo ucraino. Gli accordi di Minsk sono stati uccisi ben prima del riconoscimento delle Repubbliche di Donetsk e Luhansk, ma non da me e nemmeno dal Governo delle Repubbliche, bensì dal Governo ucraino. Già da tempo il Governo di Kiev ha pubblicamente affermato che non era intenzionato a rispettare tali accordi (…). A questo punto gli accordi di Minsk non esistono più» (posizione assunta anche dall’ambasciatore russo alle Nazioni Unite Vasily Nebenzia, in seno al Consiglio di sicurezza e in qualità di suo presidente, all’incontro n. 8974 del 23 febbraio 2022, UN Doc. S/PV.8974). L’estinzione in questo caso rappresenterebbe una reazione all’inadempimento da parte dell’Ucraina ai sensi dell’art. 60 della Convenzione di Vienna. In secondo luogo, il leader russo ribatte ai giornalisti che insistono sull’importanza degli accordi: «Cosa dobbiamo rispettare se abbiamo riconosciuto l’indipendenza di queste regioni?!», facendo così leva sul mutamento fondamentale delle circostanze previsto dall’art. 62 della Convenzione di Vienna.
Partiamo, dunque, da quest’ultimo argomento. Il mutamento fondamentale delle circostanze sarebbe dovuto al riconoscimento da parte delle Russia delle regioni separatiste come entità statali indipendenti. Non c’è dubbio che si tratti di circostanze che hanno costituito la base essenziale per la conclusione del trattato, come richiesto dall’art. 62 della Convenzione di Vienna, trattandosi dell’oggetto principale della disputa tra i due Stati. Tuttavia, come precisa l’art. 62, par. 2, lett. b), tale mutamento non può essere invocato come motivo per porre termine ad un trattato quando è dovuto alla violazione da parte dello Stato che lo invoca “o di un obbligo del trattato o di qualsiasi altro obbligo internazionale nei confronti di qualunque altro Stato che sia parte del trattato”. Sicché il riconoscimento delle Repubbliche separatiste da parte della Russia – peraltro privo di alcun valore giuridico per il diritto internazionale, in quanto non aderente al principio di effettività, essendo tra l’altro intervenuto su un territorio più vasto rispetto a quello controllato (Kilibarda) – si pone in violazione del principio di sovranità territoriale dell’Ucraina, che la Russia era vincolata a rispettare non solo in funzione di un obbligo consuetudinario di eguaglianza tra gli Stati, ma anche in funzione dell’impegno assunto da Putin nella già menzionata dichiarazione congiunta del 12 febbraio 2015. Inoltre, la Russia ha agito anche in violazione del Memorandum on Security Assurances in connection with Ukraine’s accession to the Treaty on the Non-Proliferation of Nuclear Weapons firmato a Budapest nel 1994 relativo alla smilitarizzazione nucleare dell’Ucraina, nel quale si assumeva l’impegno di rispettarne la sovranità territoriale (art. 2) ed, anzi, di fornirvi l’assistenza nel caso di rischio di subire un attacco nucleare (art. 4).
Tornando poi alla prima motivazione utilizzata da Putin, egli ne invoca l’estinzione per reazione al mancato inadempimento degli obblighi in capo all’Ucraina e, dunque, in applicazione della clausola inadimplenti non est adimplendum ai sensi dell’art. 60, par. 1, della Convenzione di Vienna (Cimiotta, “La Corte internazionale di giustizia e le reazioni alla violazione di trattati bilaterali: la sospensione del trattato e gli altri rimedi”, in Rivista di diritto internazionale, fasc. 1, 2013, p. 48 ss.). Tale norma regola l’inadempimento dei trattati bilaterali, permettendo allo Stato vittima della violazione di porvi termine o di sospenderne completamente o parzialmente l’applicazione. Il ricorso a siffatto strumento richiede che si tratti di una violazione sostanziale del trattato, che ai sensi dell’art. 60, par. 3, lett. b) riguarda la violazione di una disposizione essenziale per la realizzazione dell’oggetto dello scopo del trattato. In effetti, difficilmente si può negare che la riforma costituzionale sul decentramento territoriale (art. 11 del secondo accordo di Minsk) fosse un passaggio essenziale dei trattati, oltreché sinallagmaticamente legata ad obblighi incombenti sulla Russia.
Tuttavia, l’ipotesi di estinzione del trattato, oltre che essere in conflitto con il principio di conservazione dei valori, in quanto nel diritto internazionale generale le reazioni all’illecito dovrebbero essere funzionali ad assicurare l’effettività della norma violata (Salerno, Diritto internazionale. Principi e norme6, Milano, 2021, p. 222 ss.), trova la sua ragion d’essere solo in relazione ai trattati bilaterali proprio perché in siffatte ipotesi nessuno Stato terzo o la comunità internazionale hanno alcun interesse alla loro esecuzione (Dörr et al., Vienna Convention on the Law of Treaties. A Commentary2, Springer, Berlino, 2018, 1095 ss., p. 1098, par. 5). Diversa è, però, l’ipotesi degli accordi di Minsk. Infatti, il secondo accordo di Minsk è stato integrato nella già menzionata risoluzione n. 2202/2015 del Consiglio di sicurezza (risoluzioni simili sono già state adottate in passato, v.: nn. 1031/95, 1378/2001 e 1386/2001; in dottrina v. Forlati, “Coercion as a Ground Affecting the Validity of Peace Treaties”, in The Law of Treaties Beyond the Vienna Convention (a cura di Cannizzaro), Oxford University Press, Oxford, 2011, p. 220 ss.). Non è certo se tale risoluzione sia stata adottata ai sensi del Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite e, dunque, se possa beneficiare del primato della stessa ai sensi dell’art. 103 della medesima, seppur il suo contenuto sembra confluente rispetto ad obiettivi individuati dall’art. 39 della Carta di mantenimento o ristabilimento della pace e della sicurezza internazionale. In effetti, non vi è alcuna espressa menzione a riguardo e anche la terminologia non risulta univoca, essendo utilizzati sia termini immediatamente precettivi come endorse (par. 1), ma anche quelli meramente raccomandatori – peraltro prevalenti – come call on (par. 3) e welcome (par. 2).
Tuttavia, a prescindere dalla potenziale copertura da parte dell’art. 103 della Carta, sembra ragionevole ritenere che già il semplice recepimento nella risoluzione del Consiglio di sicurezza del secondo accordo di Minsk faccia sorgere, in relazione alla sua attuazione, l’interesse dell’intera comunità internazionale, mutando la natura degli obblighi ivi contenuti da impegni meramente reciproci ad obblighi erga omnes. Siffatta mutazione fa venir meno la logica soggiacente all’art. 60, par. 1, della Convenzione di Vienna, sottraendo alla disponibilità delle parti l’invocazione dell’estinzione del trattato per inadempimento dell’altra parte. Sulla scorta di tali ragionamenti, si può giungere alla conclusione che gli accordi di Minsk sono tuttora validi ed efficaci per il diritto internazionale e la Russia li sta deliberatamente violando. In ogni caso, anche laddove la pretesa estinzione da parte di Putin trovasse conforto nel diritto internazionale, egli sarebbe pur sempre vincolato dall’obbligo di soluzione pacifica delle controversie sancito dall’art. 33 della Carta delle Nazioni Unite, non potendo adottare contromisure lesive degli obblighi imperativi di diritto internazionale, in ossequio all’art. 50, par. 1, lett. d), del Progetto di articoli sulla responsabilità internazionale degli Stati, tra cui rientra anche quello attinente al divieto dell’uso della forza sancito dall’art. 2, par. 4, della Carta delle Nazioni Unite.
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