L’Ucraina chiede alla CIG misure provvisorie contro la Russia, sulla base della Convenzione contro il genocidio: interpretazione “talmente creativa che potrebbe funzionare” o eccessiva forzatura?
Lorenzo Acconciamessa* (Università di Palermo; Université Paris 1; membro della redazione)
1. Il 27 febbraio 2022 l’Ucraina ha instaurato un procedimento contro la Russia dinnanzi alla Corte internazionale di giustizia (“CIG”), ai sensi della Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio (“la Convenzione”). Annessa al ricorso, vi è un’istanza di indicazione di misure provvisorie ai sensi dell’art. 41 dello Statuto della Corte. Invocando l’art. 74, par. 3, delle Rules of Court, l’Ucraina ha rivolto istanza affinché il Presidente esercitasse il proprio potere di «call upon the parties to act in such a way as it will enable any order the Court may make on the request for provisional measures to have its appropriate effects», indicando alla Russia «to immediately halt all military actions in Ukraine pending the holding of a hearing» (istanza cautelare, par. 1). La Corte ha risposto immediatamente. Il 1 marzo 2022, infatti, ha fissato le udienze per il 7 e 8 marzo, mentre il Presidente, in una comunicazione al Ministro degli affari esteri, ha richiamato la Russia alla necessità di tenere una condotta conforme a quanto indicato dal summenzionato art. 74, par. 3, senza ovviamente pronunciarsi sull’attacco.
L’Ucraina propone un’interpretazione dell’obbligo di prevenzione e repressione (stabilito dall’art. I della Convenzione) di atti di genocidio (come definiti dagli artt. II, e in relazione alle condotte punibili ai sensi dell’art. III) fondata sul principio di buona fede e sul divieto di abuso del diritto (ricorso, par. 26). Da ciò deriverebbe che «one Contracting Party may not subject another Contracting Party to unlawful action, including armed attack, especially when it is based on a wholly unsubstantiated claim of preventing and punishing genocide» (ivi, par. 27). Ed infatti, una delle principali giustificazioni (sulle altre, Spagnolo) invocate a fondamento dell’asserita legalità della «special military operation» (come definita da Putin il 24 febbraio 2022), sarebbe «the purpose […] to protect people who, for eight years now, have been facing humiliation and genocideperpetrated by the Kiev regime». Dunque, secondo l’interpretazione proposta dall’Ucraina, definita da Milanovic (nel post qui citato anche nel titolo) come «[a] surprisingly creative argument that might yet work», la Convenzione non consente di accusare falsamente un altro Stato di aver commesso un genocidio (ricorso, par. 26), né di invocare tali false allegazioni come base per azioni, inclusi attacchi armati, nei confronti di un altro Stato. L’Ucraina sottolinea che tale strumentalizzazione della nozione di genocidio «undermine[s] [the Convention] object and purpose, and diminish[es] [its] solemn nature” (ricorso, par. 28). Visto il carattere “creativo“ della richiesta, il riferimento è opportuno, se si considera che nella celebre opinione consultiva sulle riserve è proprio sull’oggetto e lo scopo della Convenzione, e sui valori da essa protetti, che la Corte ha giustificato il suo approccio innovativo. Sul punto, basta qui rilevare che le norme sulla prevenzione e repressione del genocidio hanno natura cogente, creano obblighi erga omnes e tutelano un valore condiviso dall’intera comunità internazionale (sul rilievo di tali valori nell’ambito della fase cautelare, si consenta di rinviare a quanto sostenuto qui e qui).
Senza entrare nel merito del ricorso, si intende in questa sede proporre alcune osservazioni “a caldo” – e, quindi, necessariamente parziali – sulla richiesta di misure cautelari e sulle problematiche che essa solleva. Il dubbio principale risiede nel fatto che, per quanto argomentata e ispirata dalla comprensibile necessità di reagire in tutti i modi alla tragedia in corso, essa costituisce evidentemente un tentativo estremo di aggirare l’assenza di una base giurisdizionale che consenta di sottoporre alla Corte la palese violazione del divieto di uso della forza armata (si ricordino i casi sulla Legality of Use of Force, in cui la Corte ha ritenuto di non avere giurisdizione, peraltro già nella fase cautelare; in quei casi, tuttavia, neppure si era tentato di “mascherare”, con criteri interpretativi, il vero oggetto delle controversie e delle istanze cautelari).
2. In primo luogo, affinché la Corte possa esaminare l’istanza cautelare, è necessario che accerti la sussistenza, prima facie, della propria giurisdizione (Equatorial Guinea v. France, ordinanza cautelare, par. 31). Il ricorso si fonda sulla clausola compromissoria di cui all’art. IX della Convenzione contro il genocidio, secondo cui la Corte può pronunciarsi, su richiesta di ciascuna Parte, su «[d]isputes between the Contracting Parties relating to the interpretation, application or fulfillment» della Convenzione. L’Unione Sovietica e l’Ucraina hanno ritirato nel 1989 l’originaria riserva apposta a tale disposizione, con la conseguenza che, laddove sussistano le condizioni stabilite nella medesima, la CIG ha giurisdizione. Dato che detta clausola non impone particolari adempimenti preliminari, la quesitone ruota attorno all’esistenza di una controversia. Citando il noto precedente della Corte permanente di giustizia internazionale, l’Ucraina specifica come essa sia «a disagreement on a point of law of fact, a conflict of legal views or interests» tra le parti (Mavrommatis Palestine Concessions, p. 11).
A tal fine, quattro elementi devono essere valutati (Palchetti): (i) in primo luogo, è necessario che “the claim of one party is positively opposed by the other» (South West Africa, eccezioni preliminari, p. 328); (ii) in secondo luogo, deve esservi un concreto conflitto di interessi, posto che la Corte non ha competenza, nell’esercizio della propria funzione contenziosa, «[to] deal with issues in abstracto» (Nuclear Tests, eccezioni preliminari, par. 59); (iii) in terzo luogo, bisogna determinare l’oggetto della disputa, e verificare che esso rientri nel campo di applicazione del trattato che contiene la base giurisdizionale ma anche che la controversia sopposta alla Corte coincida con quella preesistente; infine, (iv) è necessario stabilire il momento a partire dal quale la controversia sussiste (condizione che preesistere alla presentazione del ricorso e deve permanere fino alla pronuncia nel merito). Ci concentreremo in questa sede sul primo e sul terzo elemento.
L’istanza ucraina mostra come vi sia una (i) positiva opposizione di vedute. Essa menziona varie dichiarazioni, del Presidente Putin e del Rappresentante permanente della Russia al Consiglio di sicurezza, in cui l’Ucraina è stata accusata di aver commesso atti di genocidio e in cui tale condotta è stata invocata come fondamento dell’“operazione militare speciale”. L’ambasciatore russo presso l’Unione europea, inoltre, ha affermato che la condotta ucraina «fits pretty well» nella definizione ufficiale di genocidio «as coined in international law». L’Ucraina, per sua parte, ha risposto con una dichiarazione del Ministro degli affari esteri che «strongly denies Russia’s allegations of genocide and denies any attempt to use such manipulative allegations as an excuse for Russia’s unlawful aggression», aggiungendo che, ai sensi della Convenzione, «Russia’s claims are baseless and absurd». Dato che ai fini della sussistenza di una controversia non è necessaria una protesta diplomatica ufficiale, né è richiesto annunciare l’intenzione di presentare il ricorso (Marshall Islands, par. 38), tale condizione sembra sussistere.
Il problema è (iii) la determinazione dell’oggetto della controversia. Ed infatti, il ricorso solleva certamente questioni attinenti all’interpretazione, applicazione ed esecuzione della Convenzione. Si chiede alla Corte di «adjudge and declare» che: (a) l’Ucraina non ha commesso un genocidio; e che, di conseguenza, (b) la Russia non ha, ai sensi della Convenzione, il diritto di realizzare azioni in e contro l’Ucraina e che tanto (c) il riconoscimento delle repubbliche di Donetsk e Luhansk quanto (d) l’operazione militare sono «based on a false claim of genocide and therefore [have] no basis in the Genocide Convention». Si chiedono, inoltre, (e) appropriate garanzie di non ripetizione e (f) la riparazione dei danni causati.
Tuttavia, bisogna comprendere «whether the dispute as it is formulated by the applicant in its application has the same scope as the dispute that existed between the parties in the pre-adjudicative phase» (Palchetti, par. 23, enfasi aggiunta). È evidente che, da un lato, la Russia ritiene che degli atti di genocidio siano stati commessi, e che ciò legittimi le sue azioni; l’Ucraina, dall’altro lato, ritiene che atti di genocidio non siano stati commessi, e che l’aggressione non possa quindi essere giustificata su tale base. Tuttavia, la Russia non ha fatto espresso riferimento alla violazione della Convenzione o agli obblighi che ne discendono ma, in generale, alla definizione di genocidio derivante dal diritto internazionale. È stata l’Ucraina a specificare, nella sua reazione, l’infondatezza di tali affermazioni alla luce della Convenzione. Almeno in un precedente, la CIG ha considerato (in materia di tortura), che «at the time of the filing of the application, the dispute between the Parties did not relate to breaches of obligations under customary international law and [therefore, the Court] has no jurisdiction to decide on Belgium’s claims related thereto» (Belgium v. Senegal, par. 55). Pertanto, ha in quel caso ritenuto che la controversia riguardasse esclusivamente la Convenzione, e non la corrispettiva norma consuetudinaria.
Quindi, dal punto di vista fattuale la disputa preesistente attiene al se l’Ucraina abbia commesso atti di genocidio. Sul punto, è la Russia che ha invocato la responsabilità dell’Ucraina ai sensi del divieto di genocidio (senza specificare sulla base di quale norma), e l’Ucraina chiede che sia accertato che essa non ha commesso atti di genocidio. Dall’altro lato, non è chiaro se la disputa possa dirsi sussistente con riferimento al principale argomento dell’Ucraina, e che sostiene le specifiche misure richieste (si veda infra, par. 4). E, cioè, l’abuso del diritto (obbligo) di prevenzione e repressione del genocidio. Posta l’estrema genericità delle dichiarazioni russe, e posto il carattere sommario che caratterizza l’accertamento della giurisdizione prima facie, non è impossibile che tale elemento sia ritenuto sufficiente nella fase cautelare, mentre costituirà sicuramente un importante punto di discussione nell’eventuale successiva fase delle eccezioni preliminari.
3. Ciò ci porta al secondo criterio per l’adozione di misure cautelari, ovvero il giudizio di plausibilità. È consolidata, nella giurisprudenza cautelare della Corte, l’affermazione secondo cui «the power of the Court to indicate provisional measures should be exercised only if the Court is satisfied that the rights asserted are at least plausible» (Belgium v. Senegal, par. 57). Inizialmente, la Corte si accontentava della cd. plausibilità in astratto, ritenendo sufficiente i diritti invocati fossero fondati su una plausibile interpretazione delle norme rilevanti (ivi, par. 60). L’Ucraina chiede la tutela cautelare del proprio diritto «not to be subject to a false claim of genocide, and not to be subjected to another State’s military operations on its territory based on a brazen abuse of Article I of the Genocide Convention» (istanza cautelare, par. 12). Ha quindi tentato di inquadrare la questione dell’uso della forza armata nell’ambito della Convenzione, sulla base di un’interpretazione certamente forzata, ma forse non del tutto implausibile (secondo lo specifico significato che il termine assume nella fase cautelare).
Innanzitutto, l’Ucraina afferma che l’obbligo di prevenzione del genocidio ha, come «necessary implication […] that it must be performed in good faith and not abused» (ivi, par. 14). Tale circostanza, secondo il ricorso e l’istanza cautelare, implicherebbe che un’accusa nei confronti di un altro Stato di atti di genocidio (proprio in quanto implica il sorgere del dovere di prevenzione e repressione) deve essere fondata. Ciò che l’Ucraina sta proponendo potrebbe qualificarsi come interpretazione dell’art. I della Convenzione ai sensi dell’art. 31, comma 3, lett. c), della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, secondo cui una disposizione pattizia va interpretata tenendo in considerazione «any relevant rules of international law applicable in the relation between the parties». Nonostante la disposizione faccia espresso riferimento a “rules”, è pacifico che essa implichi anche i principi generali del diritto (Commissione del diritto internazionale, Fragmentation report, par. 472 ss.). E il principio di buona fede – menzionato, tra l’altro, all’art. 2, par. 2, della Carta delle Nazioni Unite e nella Dichiarazione sulle relazioni amichevoli – costituisce «one of the basic principles governing the creation and performance of legal obligations» (Nuclear Tests, par. 46, corsivo aggiunto). Lo stesso art. 26 della Convenzione di Vienna (pacta sunt servanda) sancisce che i trattati devono essere adempiuti in buona fede, mentre l’art. 31, par. 1, richiama il principio nell’ambito delle regole di interpretazione. Per sua parte, nonostante la teoria dell’abuso del diritto non sia pacificamente riconosciuta nel diritto internazionale, essa potrebbe considerarsi manifestazione specifica dei principi di buona fede, ragionevolezza e proporzionalità (Kiss, par. 10).
E ancora, l’Ucraina sembra invocare un’interpretazione della Convenzione alla luce del suo oggetto e del suo scopo (che, come si è detto, richiama al par. 28 del ricorso), nonché un’interpretazione contestuale e sistematica. Ed infatti, quello di prevenzione e repressione è un obbligo di due diligence. Esso implica, dunque, un dovere di utilizzare «all means reasonably available», posto però che anche in questo caso «every State may only act within the limits permitted by international law» (Bosnia-Herzegovina v. Serbia and Montenegro, sentenza di merito, par. 430). Pertanto, l’Ucraina richiama – solo di sfuggita, nel ricorso (par. 9) e, più ampiamente, nell’istanza cautelare (par. 15) – l’art. VIII della Convenzione, secondo cui ogni Stato parte può richiedere agli organi delle Nazioni Unite di adottare, secondo le proprie competenze, le misure appropriate a prevenire atti di genocidio. Ciò che l’Ucraina sembra affermare è che, se proprio la Russia avesse inteso reagire al presunto genocidio, avrebbe certamente avuto degli strumenti legittimi a disposizione (il tutto, peraltro, nel contesto del divieto di uso della forza armata di cui alla Carta). La questione finisce per ruotare attorno all’ammissibilità o meno di un’interpretazione che, da ultimo, ammetta l’intervento umanitario o teorie simili; ipotesi, peraltro, che la Russia ha negato quando proposta da altri Stati.
Quanto, invece, alla versione più stringente nel tempo sviluppata dalla Corte (sulle differenze, si consenta di rinviare all’analisi svolta qui, pp. 419 ss.), e cioè alla necessità che sia realizzato anche un test di plausibilità in concreto dei fatti a fondamento dell’istanza, ciò non costituirebbe uno sbarramento alla concreta domanda dell’Ucraina. In primo luogo, nel recente caso Gambia v. Myanmar la Corte si è accontentata della probabilità che almeno alcuni dei fatti (trattandosi della fase cautelare) cui faceva riferimento il Gambia fossero idonei ad essere sussunti nel campo di applicazione della Convenzione (ordinanza cautelare, par. 30). In secondo luogo, dal punto di vista dell’onere della prova, l’Ucraina si trova in una posizione avvantaggiata: richiedendo l’accertamento di un fatto negativo – non aver commesso un genocidio –il suo onere si ferma all’allegazione (Republic of Guinea v. Democratic Republic of the Congo, sentenza di merito, par. 55: «it cannot as a general rule be demanded of the Applicant that it proves the negative fact which it is asserting»), spettando alla Russia fornire la prova (in questo caso, un principio di prova) che un genocidio sia stato commesso (Croatia c. Serbia, sentenza di merito, par. 172«it is for the party alleging a fact to demonstrate its existence»).
4. L’Ucraina non argomenta, invece, sul requisito del nesso tra le misure richieste e il diritto di cui chiede la protezione, che costituisce uno dei punti più problematici. Essa sembra averne tenuto conto nel formulare le proprie richieste, anche se il nesso a cui fa riferimento sembra sussistere solo con il secondo diritto invocato (quello di non subire un’aggressione armata sulla base di false accuse di genocidio). Ed infatti, chiede alla CIG di ordinare alla Russia di: (a) sospendere immediatamente le operazioni militari, iniziate il 24 febbraio, che abbiano come scopo espresso («stated purpose») la prevenzione e repressione dell’asserito genocidio; così come (b) garantire immediatamente che nessuna ulteriore operazione militare (che abbia il medesimo scopo) sia realizzata da unità armate, militari o irregolari, che siano dirette o supportate dalla Russia, così come da parte di ogni altra organizzazione o persona. Ha inoltre richiesto (c) garanzie di non aggravamento della disputa, e di ordinare alla Russia di (d) depositare dei rapporti sull’attuazione delle misure, come previsto dal nuovo art. della Internal Judicial Practice della Corte.
Il requisito del nesso è uno dei tanti aspetti ancora oscuri della giurisprudenza cautelare (si veda Lando). Secondo l’originaria formulazione, esso richiedeva «a link […] between the alleged rights the protection of which is the subject of the provisional measures being sought, and the subject of the principal request submitted to the Court» (Mexico v. the United States, richiesta di interpretazione, ordinanza cautelare, par. 58). Così impostato, il requisito era ridondante, in quanto si confondeva con la plausibilità, ma anche con la giurisdizione prima facie (si veda Bosnia-Herzegovina v. Serbia and Montenegro, seconda ordinanza cautelare, par. 36, secondo cui la Corte «ought not to indicate measures for the protection of any disputed right other than those which might ultimately form the basis of a judgment in the exercise of its jurisdiction»).
Ma nei casi più recenti la Corte ha affermato che «a link must exist between the rights whose protection is sought and the provisional measures being requested» (Armenia v. Azerbaijan, par. 45, enfasi aggiunta). Ciò vuol dire che le misure richieste devono essere «directed at safeguarding [the] plausible rights invoked» (ivi, par. 67). Bisognerà allora vedere quale sarà la decisione rispetto alla plausibilità dei diritti invocati. Lo scenario più verosimile è che, sempre ove si arrivi fino a tale fase, la Corte riconosca come plausibile il diritto di non essere ingiustamente accusati di aver commesso atti di genocidio. E in tal caso, è probabile che – esercitando il proprio potere, ai sensi dell’art. 75, par. 2, delle Rules of Court, di indicare misure in tutto o in parte diverse da quelle richieste – si limiti a indicare alla Russia di astenersi dall’accusare pubblicamente di genocidio l’Ucraina, e/o di astenersi dall’invocare la presunta commissione di un genocidio da parte dell’Ucraina a fondamento di azioni intraprese nei suoi confronti, senza pronunciarsi sulla sospensione dell’attacco armato. Su quest’ultimo, e dunque con indicazione delle misure richieste dall’Ucraina, la Corte potrebbe pronunciarsi ove ritenesse plausibile anche il secondo diritto, ovvero quello di non subire un’aggressione armata sulla base di accuse infondate di genocidio; circostanza, questa, che abbiamo visto essere più problematica, anche alla luce dei precedenti.
5. Da ultimo, la Corte dovrà accertare il periculum in mora, che consiste nel rischio di pregiudizio irreparabile per il diritto di cui si chiede la tutela cautelare, e nell’urgenza di adottare misure di protezione (Qatar v. United Arab Emirates, ordinanza cautelare, par. 61).
Quando vi siano conflitti armati e/o quando il giudizio sia instaurato sulla base di un trattato in materia di diritti umani, il problema è determinare rispetto a quale diritto si valuta tale elemento. L’istanza cautelare afferma che: «Ukraine requests provisional measures to protect its people from the irreparable harm caused by Russia’s military measures that have been launched on a pretext of genocide» e per evitare «significant and irreparable loss of life and property and a humanitarian crisis» (istanza cautelare, par. 18, enfasi aggiunta). Di conseguenza, «Ukrainian people are vulnerableand in need of the Court’s protection, and the urgency of the situation is apparent» (ivi, par. 19). Ora, la Corte realizza spesso, nei giudizi instaurati sulla base dei trattati in materia di diritti umani, uno spostamento di prospettiva: dal diritto dello Stato, a quello, in particolare, del diritto alla vita o all’integrità fisica dei beneficiari dell’obbligo violato (la popolazione o un singolo individuo) che si trovino in una situazione di vulnerabilità. Questo viene fatto sulla base del requisito del nesso tra i diritti e obblighi degli Stati di tutela dei diritti umani, e i diritti individuali che essi conferiscono (rinviamo di nuovo all’analisi svolta qui, pp. 422 ss.).
In questo caso, la questione non è così scontata. Se le esigenze di protezione della popolazione sono più che comprensibili, al punto da essere già state accolte dalla Corte europea dei diritti umani (si veda infra, par. 6), è meno chiaro come esse possano entrare nel concreto giudizio così come sottoposto alla CIG. Sotto il profilo del “diritto a non subire false accuse di genocidio”, infatti, l’oggetto di tutela è in qualche modo la “reputazione” dell’Ucraina, che non sarebbe di fronte a un rischio urgente di pregiudizio irreparabile. Con riferimento, invece, al presunto diritto a non subire, sulla base di tali accuse, un attacco armato (sempre che tale diritto sia almeno plausibile), si giustificherebbe forse il suddetto spostamento di prospettiva che, come si è detto, viene realizzato dalla Corte quando l’oggetto (in senso formale) del giudizio coinvolga questioni relative a conflitti armati o alla tutela dei diritti umani (l’Ucraina cita anche dei precedenti al riguardo). Sul punto, nel caso già pendente tra le due Parti della controversia, è stato affermato, senza molte argomentazioni, che «the loss of human life […] make it impossible to restore the status quo antes. […] the Court is asked to protect the rights a State, not the right of an individual, and the loss of human life would be the cause of the irreparable prejudice to the State’s right» (Ukraine v. Russia, opinione del giudice Bhandari, par. 42). Ove tale mutamento di prospettiva sia realizzato, nello scenario più ottimista (in termini di risultato), ma anche più problematico (in termini di argomentazione giuridica), la Corte potrebbe confermare quell’approccio “umanizzato” di recente mostrato nella fase cautelare del giudizio, e imporre una «humanitarian stasis» in attesa di una pronuncia sul merito (Sparks e Somons, p. 20).
6. Alla luce di tali osservazioni, fare pronostici sul successo dell’istanza è tutt’altro che facile. Se, da un lato, la Corte non è nota per i suoi approcci particolarmente “creativi”, dall’altro ha mostrato, nella fase cautelare, un’ampia flessibilità, anche e soprattutto alla luce di una certa sensibilità verso la tutela della vita in situazioni di grave urgenza (si vedano, ex multis, Higgins e Lee). Abbiamo in precedenza sostenuto (p. 433) che, nella fase cautelare, la Corte sembra esercitare tale flessibilità anche enfatizzando in qualche modo il proprio ruolo di principale organo giudiziario delle Nazioni Unite e, quindi, alla luce dei valori protetti dalla Carta (incluso il divieto di uso della forza armata). Allo stesso tempo, se è vero che sussiste un forte consenso della comunità internazionale (gran parte di essa) attorno alla necessità di reagire con ogni strumento lecito all’aggressione russa, è vero anche che la Corte non può spingersi, neppure sulla base di tali valori, a forzare oltremodo i presupposti della propria giurisdizione, così come i limiti dell’interpretazione della Convenzione invocata.
Quanto al ricorso dell’Ucraina, esso si inquadra in una più ampia strategia che, accanto a una sorprendente resistenza all’attacco, sta cercando con ogni mezzo il supporto della comunità internazionale. Infatti, l’obbiettivo non consiste tanto nelle misure in sé considerate, posto che è più che lecito ritenere che la Russia resterebbe inadempiente. Piuttosto, sembra proprio che l’Ucraina stia cercando sostegni e argomenti che possa eventualmente spendere anche nell’ambito del negoziato (su tale specifica funzione strategica del contenzioso giudiziario internazionale, si veda Treves). Su questo fronte, oltre che su quello di tentare di proteggere la propria popolazione, l’Ucraina ha ottenuto un importante risultato. Il 1 marzo 2022, infatti, la Corte europea dei diritti umani ha indicato alla Russia delle misure cautelari ai sensi dell’art. 39 delle proprie Rules of Court. Dal comunicato stampa si evince che l’Ucraina ha presentato la richiesta lo stesso giorno in cui ha instaurato il giudizio alla CIG (il 28 febbraio 2022). La Corte ha richiamato i (non numerosi, ma tutti concordanti) precedenti in cui aveva già adottato misure cautelari nel corso di conflitti armati (si veda il comunicato). La Corte, quindi, ha indicato alla Russia «to refrain from military attacks against civilians and civilian objects, including residential premises, emergency vehicles and other specially protected objects such as schools and hospitals, and to ensure immediately the safety of the medical establishments, personnel and emergency vehicles within the territory under attack or siege by Russian troops». Ha anche richiesto alla Russia informazioni su quanto predisposto per rispettare le misure adottate, e ha immediatamente comunicato le misure al Comitato dei ministri nell’ambito della procedura di monitoraggio prevista dal par. 2 dell’art. 39 (applicato per la seconda volta). Sul punto, la Corte europea è certamente più capace di dare una risposta immediata in ragione dell’esigenza di tutela dei civili e dei valori protetti dalla Convenzione europea dei diritti umani. Anche la CIG, tuttavia, questa volta ha mostrato di voler intervenire in tempi rapidissimi, a dispetto dei circa due mesi normalmente necessari per ottenere una pronuncia cautelare. Resta da vedere, quindi, se effettivamente la richiesta ucraina sarà ritenuta talmente creativa da risultare, in ultima analisi, plausibile.
*L’autore lavora come Assistente giurista presso la Cancelleria della Corte europea dei diritti dell’uomo. Il contenuto del post, tuttavia, riflette le opinioni dell’autore, espresse nella sua capacità accademica, e non vincola la Corte né il Consiglio d’Europa.
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