Alcune riflessioni sul problema della causalità nella riparazione dell’illecito alla luce della decisione della Corte internazionale di giustizia nel caso Repubblica Democratica del Congo c. Uganda
Alice Ollino (Università di Milano-Bicocca; membro della Redazione)
Il 9 di febbraio 2022 la Corte internazionale di giustizia (CIG) ha reso la sua decisione sulla questione riparatoria nel caso delle Attività militari nel territorio del Congo (Congo c. Uganda). La decisione fa seguito alla sentenza di merito pronunciata dalla stessa Corte nel 2005, in cui si accertava la responsabilità dell’Uganda per aver commesso una serie di fatti internazionalmente illeciti sul territorio della Repubblica Democratica del Congo (RDC) tra il 1998 e il 2003.
La sentenza era molto attesa, in quanto si tratta del primo caso in cui la Corte è stata chiamata a pronunciarsi sul complesso problema del risarcimento dei danni derivanti da un conflitto armato, peraltro avvenuto più di 20 anni fa.
La decisione solleva diverse questioni giuridiche ed è, verosimilmente, destinata a far molto discutere. Tra i temi con cui la Corte ha dovuto confrontarsi, ricordiamo: quello della riparazione e di tutte le sue varie «voci» (compensazione, soddisfazione, etc.), nonché il problema dei soggetti a cui spetti beneficiare dell’attuazione delle conseguenze dell’obbligo di riparazione; il problema dell’onere e dello standard di prova che gli Stati siano chiamati a fornire a distanza di lungo tempo; la questione del ruolo e del peso giocato dagli esperti e la metodologia seguita dalla Corte per accertare i fatti oggetto di giudizio. Senza alcuna pretesa di esaustività, in questo post mi limiterò solo a fornire alcune riflessioni riguardo al problema della riparazione a titolo di compensazione dei fatti illeciti commessi dall’Uganda, e in particolare sul modo in cui la Corte ha affrontato il problema del nesso causale tra le condotte illecite dell’Uganda e il danno meritevole di risarcimento.
Riassumendo brevemente la vicenda, nel 2005 la Corte internazionale di giustizia aveva stabilito con una sentenza di merito che fossero da attribuirsi all’Uganda una serie di violazioni di diritto internazionale commesse tra il 1998 e il 2003 nel territorio della RDC, tra le quali il divieto dell’uso della forza, il divieto di non-intervento negli affari interni di un altro Stato, l’obbligo di rispettare e di prevenire le violazioni di diritti umani e il diritto internazionale umanitario, e l’obbligo di prevenire, e astenersi dal commettere, atti di saccheggio, depredazione e sfruttamento delle risorse naturali del territorio di un altro Stato (pp. 280-281 della decisione di merito). Nella sentenza, si affermava che l’Uganda aveva l’obbligo di risarcire la RDC per i danni derivanti dagli illeciti commessi, e si richiedeva alle parti di trovare una via conciliativa e accordarsi sull’ammontare della riparazione dovuta (p. 281). Falliti tuttavia i tentativi di negoziazione, nel 2015 la RDC faceva richiesta alla Corte di riaprire il procedimento al fine di pronunciarsi sulla questione riparatoria (par. 11 della decisione sulla riparazione).
Una prima considerazione generale è che la Corte ha riconosciuto come somma totale risarcibile dall’Uganda a titolo di compensazione $ 330 milioni, una cifra pari a meno del 3% di quanto richiesto dalla RDC. Nelle memorie presentante dallo Stato ricorrente, si chiedeva infatti alla CIG che venissero accordati: più di $4 miliardi a titolo di risarcimento per i danni alle persone, circa $ 200 milioni per i danni alla proprietà, circa $ 1 miliardo per i danni alle risorse naturali, più di $ 5 miliardi per i danni macroeconomici, e più di $ 1oo milioni per i danni non-materiali, per un totale di più di $11 miliardi. Da un lato, la somma indicata dal RDC solleva il quesito della legittimità di richieste di risarcimento del danno che abbiano un effetto potenzialmente «paralizzante» nei confronti dello Stato chiamato a risarcire (la questione è stata sollevata dall’Uganda nelle memorie difensive, pp. 47 e ss.; più in generale, sul problema della cosiddetta crippling compensation e la sua applicazione nel diritto internazionale della responsabilità si v. Paparinskis). D’altra parte, è pur vero che la cifra stabilita dalla Corte è significativamente inferiore a quanto ci sarebbe aspettati da una decisione riguardante la riparazione dei danni derivanti da uno dei più sanguinosi conflitti della storia recente.
Tra le varie ragioni che potrebbero spiegare la macroscopica differenza tra quanto richiesto e quanto effettivamente stabilito dalla Corte, due a nostro avviso meritano menzione. In primis, il lunghissimo tempo trascorso tra il momento in cui la Corte è stata chiamata a pronunciarsi e i fatti storici oggetto di giudizio, nonché la rilevante distanza temporale tra il giudizio sulla riparazione e la sentenza di merito, resa dalla Corte 17 anni prima. Questo aspetto ha reso particolarmente complessa la questione della ricerca e della valutazione della prova, spingendo probabilmente la Corte ad un approccio più «conservativo». In secondo luogo, la complessità dei fatti oggetto di giudizio ha reso particolarmente problematica la valutazione del nesso causale che la Corte è stata chiamata a compiere al fine di determinare quali danni fossero da ritenersi conseguenza dei fatti illeciti dell’Uganda e fossero, dunque, risarcibili.
Su questo ultimo punto, se è vero che l’estrema complessità del tema ad oggetto impone una certa indulgenza nei confronti della Corte, riteniamo, tuttavia, che la parte della decisione sul problema del nesso causale si presti ad alcuni rilievi critici. Chi attendeva la sentenza sperando in un chiarimento su una serie di quesiti tutt’ora oggetto di dibattito in giurisprudenza e nella dottrina (solo di recente, si v. Lanovoy; Demaria; Nollkaemper et al.) rimarrà sostanzialmente deluso; inoltre, alcuni passaggi della decisione sollevano più di una criticità e complessivamente confermano la difficoltà in cui la CIG continua a versare nell’affrontare il problema della causalità nell’illecito internazionale.
Iniziando dal problema dell’identificazione del criterio di causalità applicabile ai fini risarcitori, nelle richieste alla Corte, la RDC affermava che sono risarcibili tutti i danni che sono la conseguenza diretta del fatto illecito o che sono stati causati «by an uninterrupted chain of events» (par. 86 della decisione sulla riparazione). Inoltre, per la RDC, il criterio da utilizzare per individuare i danni risarcibili sarebbe quello della «prevedibilità», criterio che consentirebbe di attribuire all’Uganda anche quei danni che discendono dalla condotta illecita (in quanto prevedibili) ma si sono, nei fatti, verificati anche per il sopraggiungere di altre cause (par. 87).
La Corte ha rigettato questa impostazione e optato per un criterio diverso, consolidando la sua giurisprudenza precedente e invocando il principio del «sufficiently direct and certain causal link» (par. 84, 93, 145, 148, 154, 214). Si tratta di un criterio causale già adottato dalla Corte nella sentenza risarcitoria Ahmadou Sadio Diallo (Repubblica di Guinea c. Repubblica Democratica del Congo) e utilizzato più di recente nella decisione sulla riparazione a titolo di compensazione relativa al caso Certe attività compiute dal Nicaragua nell’area di confine (Costa Rica c. Nicaragua). In particolare, la Corte ha affermato che sono risarcibili solo quei danni che siano la conseguenza certa e diretta del fatto illecito compiuto dallo Stato responsabile. Si tratta chiaramente di un criterio causale che restringe in modo significativo la portata dei danni risarcibili, soprattutto nel caso di danni discendenti da un conflitto armato le cui conseguenze umanitarie, economiche e ambientali dispiegano i loro effetti in un lungo arco temporale e sono spesso il risultato di una moltitudine di cause concorrenti. A questo riguardo, si noti che né gli artt. 31 e 36 del Progetto di articoli sulla responsabilità degli Stati per atti internazionalmente illeciti (d’ora in avanti Progetto), né i loro commenti identificano il criterio di causalità applicabile in sede di risarcimento del danno. Al contrario, l’art. 31 afferma soltanto che lo Stato che ha commesso l’illecito «is under the obligation to make full reparation for the injury caused by the international wrongful act» (corsivo nostro) e il commento di questa norma si limita ad escludere che siano risarcibili quei danni considerati «too “remote” or “consequential” to be the subject of reparation», riconoscendo la possibilità di fare ricorso ad una moltitudine di principi differenti (p. 93 del Progetto).
L’uso esclusivo da parte della Corte del criterio del «sufficiently direct and certain causal link» è però criticabile soprattutto per un altro motivo. Nel testo della sentenza che stabilisce la riparazione, la Corte afferma che la valutazione del nesso causale «may vary depending on the primary rule violated and the nature and extent of the injury» (par. 93). L’impostazione, a nostro avviso corretta, riflette la posizione della Commissione di diritto internazionale (CDI) in sede di adozione del Progetto (p. 93) e si spiega proprio con l’impossibilità, nel corso dei lavori della CDI, di riuscire ad identificare nella prassi un unico criterio di causalità utilizzabile in sede di riparazione (sul punto, Crawford, Third Report on State Responsibility, pp. 18 e ss.). Senonché, l’affermazione della Corte per cui il nesso di causa può variare a seconda dell’obbligo primario violato e della natura del danno si risolve di fatto in una mera dichiarazione di intenti e non nell’affermazione di un principio applicabile nel caso concreto. La Corte, infatti, non solo non mette mai in discussione il principio del nesso causale certo e diretto, ma fornisce come unico elemento di distinzione nella valutazione della causalità il dato fattuale rappresentato dall’occupazione dell’Uganda di una parte del territorio della RDC. In altre parole, se una differenza emerge nel modo in cui la Corte si ritrova a esaminare il nesso tra l’illecito e il danno, questa non riguarda il tipo, la natura, o il contenuto dell’obbligo primario violato, quanto piuttosto la circostanza che la violazione sia o meno avvenuta nel territorio occupato dall’Uganda all’epoca del verificarsi dei fatti. Laddove gli illeciti si siano consumati nella parte del territorio occupato, la Corte ritiene infatti che, salvo prova contraria, si presumano causalmente riconducibili all’Uganda tutti i danni che si sono verificati sul quel territorio (par. 78, 95, 118, 149, 155, 161, 226, 241, 257). Laddove invece i fatti illeciti siano stati commessi al di fuori del territorio occupato, spetta alla RDC dimostrare che il danno contestato sia conseguenza sufficientemente certa e diretta di tali fatti (par.84, 94, 95).
Questo approccio solleva una serie di criticità. Innanzitutto, partendo proprio dalla distinzione che la Corte fa tra illeciti commessi nel territorio occupato dell’Ituri e illeciti commessi fuori da questo territorio, nella sentenza di merito era stato affermato:
«The Court, having concluded that Uganda was an occupying Power in Ituri at the relevant time, finds that Uganda’s responsibility is engaged both for any acts of its military that violated its international obligations and for any lack of vigilance in preventing violations of human rights and international humanitarian law by other actors present in the occupied territory, including rebel groups acting on their own account» (par. 178-179, corsivo nostro).
Le stesse conclusioni erano state raggiunte con riferimento alla violazione da parte dell’Uganda, sempre nel territorio occupato, dell’obbligo di prevenire la depredazione, il saccheggio e lo sfruttamento delle risorse naturali (par. 345). La Corte afferma dunque che, nel territorio dell’Ituri, la responsabilità dell’Uganda riguardi illeciti diversi non soltanto dal punto di vista del diritto materiale ma anche dal punto di vista della tipologia, rendendosi questo Stato responsabile tanto di violazioni di obblighi “di risultato” negativi quanto di violazione di obblighi positivi di due diligence (su queste distinzioni e sulla natura degli obblighi di due diligence Pisillo-Mazzeschi e Marchesi).
Ora, nella decisione sulla riparazione, la Corte non mette in evidenza la distinzione tra questi due tipi di obblighi, aggirando in questo modo l’annosa questione del se la violazione degli obblighi di prevenzione – e, più in generale, di tutti gli obblighi di due diligence che impongono allo Stato di «vigilare» sull’attività dei privati presenti sul proprio territorio o negli spazi soggetti alla propria giurisdizione o controllo – impone allo Stato responsabile di riparare l’intero danno (che è causato materialmente dal soggetto «terzo») o solo la parte relativa alla propria omissione (su questo problema si v., tra gli altri, Jacob). Al contrario, nella decisione sulla riparazione, la Corte sembra optare per un ragionamento del tutto opposto, affermando:
«As an occupying Power, Uganda had a duty of vigilance in preventing violations of human rights and international humanitarian law by other actors present in the occupied territory (…). Taking into account this conclusion, it is for Uganda to establish, in this phase of the proceedings, that a particular injury alleged by the DRC in Ituri was not caused by Uganda’s failure to meets its obligations as an occupying Power. In the absence of evidence to that effect, it may be concluded that Uganda owes reparation in relation to such injury» (par. 77, corsivo nostro).
Questo passaggio, che fa leva sullo status dell’Uganda come «occupying power», inverte l’onere della prova stabilendo che spetti a questo Stato dimostrare che i danni asseriti dalla RDC non siano stati causati dalle proprie omissioni. Come acutamente rilevato dal giudice Yusuf nella sua opinione separata, questa inversione impone all’Uganda di provare un doppio fatto negativo, ovvero: i) che il danno asserito dalla RDC non sia effettivamente occorso; e b) che, se occorso, non fosse in ogni caso imputabile agli illeciti dello Stato (par. 8 e ss.). Ma, al di là della questione probatoria, l’affermazione della Corte è problematica perché, perlomeno nella sentenza riparatoria, finisce per trasformare la responsabilità «per colpa» (ovvero quella che discende dalla violazione di obblighi di due diligence) in una responsabilità oggettiva per cui qualsiasi danno è in principio e salvo prova contraria attribuibile allo Stato e da questo risarcibile per il solo fatto di essere occorso all’intero del territorio dello Stato stesso o in un’area da lui occupata.
Riteniamo che una lettura più «fedele» alla natura degli obblighi violati dallo Stato ugandese sarebbe stata, per esempio, quella di affermare che si ritengono risarcibili tutti i danni che la RDC dimostri essere la conseguenza «prevedibile» delle omissioni dell’Uganda, potendosi quest’ultimo Stato liberare solo dimostrando il contrario, ovvero che un particolare danno non fosse, effettivamente, da lui prevedibile (sull’applicazione del criterio della prevedibilità agli obblighi di diligenza, ci permettiamo di rimandare ad Ollino).
Il secondo passaggio che svuota di fatto di significato la dichiarazione della Corte per cui il nesso di causa può variare a seconda dell’obbligo primario è quello che concerne l’accertamento dei danni causati dall’Uganda dalla violazione del divieto dell’uso della forza nel territorio non soggetto ad occupazione. Anche qui, il problema si è posto rispetto a due tipi di illecito diversi, da un lato la violazione del divieto dell’uso della forza consistita nell’aver l’Uganda, con le proprie truppe, violato l’integrità territoriale della RDC (par. 145); e dall’altro, la violazione dell’Uganda dell’obbligo di aver fornito supporto militare ai gruppi ribelli impegnati in attività armate contro la RDC (par. 80-84).
Con riguardo alla violazione dell’obbligo di non fornire supporto o assistenza, nelle richieste risarcitorie, la RDC affermava che il risarcimento del danno dovesse coprire tutti i danni causati dalle azioni dei gruppi ribelli supportati militarmente dall’Uganda, in quanto tali danni non si sarebbero verificati se l’Uganda non fosse entrata illegittimamente del territorio della RDC (par. 80). Dal canto suo, l’Uganda affermava invece che la riparazione fosse dovuta solo per le conseguenze discendenti dal supporto finanziario, e non per quelle relative alle azioni dei gruppi ribelli. Tralasciando per un attimo la questione del «but-for-test» o criterio condizionalistico della causalità invocato dalla RDC, qui la Corte avrebbe potuto sfruttare l’occasione proprio per chiarire se esiste una differenza, ai fini del risarcimento del danno, tra il fatto di aver violato il divieto dell’uso della forza attraverso una condotta attiva dei propri organi, e il fatto di aver “meramente” fornito supporto o assistenza a dei gruppi ribelli impegnati in attività armate contro un altro Stato.
La Corte, invece, affronta l’argomento con una certa difficoltà. Da un lato, riconosce che il mero supporto militare costituisce, di per sé, un illecito internazionale meritevole, in quanto tale, di risarcimento e rileva come il fatto che il danno derivi da una molteplicità di cause (la condotta di supporto militare e l’azione dei ribelli) non escluda l’obbligo di riparazione (par. 97). Dall’altro però, la Corte si astiene dall’affrontare effettivamente il problema e nelle varie voci di risarcimento del danno non vi è accenno sul come valutare i danni causati dai gruppi ribelli assistiti dall’Uganda. L’unico riferimento alla «molteplicità di cause» è rinvenibile laddove la Corte parla dei danni provocati dal displacement e dalla distruzione della proprietà avvenuti a seguito degli scontri armati tra le truppe Ugandesi e quelle del Ruanda (par. 221 e para 253). Qui la Corte si limita ad affermare che, anche laddove il danno si sia prodotto in virtù di due cause concorrenti, ciascuno Stato è responsabile del risarcimento del danno che sia la conseguenza del proprio atto illecito. Ma, evidentemente, il caso del risarcimento del danno derivante da fatti illeciti concorrenti è cosa del tutto diversa dalla situazione in cui uno Stato sia chiamato a risarcire il danno causato, in modo concorrente, dalla combinazione della propria azione e del fatto dei privati (sulla complessità della riparazione in caso di responsabilità multiple si v., per tutti, d’Argent).
L’altro punto sull’uso della forza che vogliamo mettere in luce riguarda la compensazione per i danni macroeconomici. In breve, la Corte rigetta la richiesta fatta dalla RDC di risarcimento dei danni macroeconomici sofferti a seguito del conflitto con la seguente motivazione:
«The Court does not need to decide, in the present proceedings, whether a claim for macroeconomic damage resulting from a violation of the prohibition of the use of force, or a claim for such damage more generally, is compensable under international law. It is enough for the Court to note that the DRC has not shown a sufficiently direct and certain causal link between the internationally wrongful act of Uganda and any alleged macroeconomic damage» (par. 381, corsivo nostro).
La questione ci pare mal posta. Innanzitutto, se è vero che l’obbligo di riparazione richiede allo Stato responsabile «to wipe out all the consequences of the illegal act» (decisione sul Caso della fabbrica a Chorzów, p. 47), brocardo a cui la Corte dice di aderire (par. 106 della sentenza riparatoria), allora è chiaro che, almeno in linea di principio, la «materia» su cui verte il danno poco dovrebbe rilevare ai fini della valutazione risarcitoria. Se si ritiene che tutte le conseguenze del fatto illecito debbano essere eliminate, allora teoricamente anche i danni macroeconomici potrebbero benissimo rientrare in questa categoria. Semmai, il problema è proprio quello di capire se il danno di cui si discute rientra tra quelli risarcibili nell’ambito di applicazione della norma primaria. Per esempio, la Corte avrebbe potuto dire che, dal momento che il divieto dell’uso della forza è uno dei «most fundamental principles and rules of international law» (par. 65), anche i danni macroeconomici possono rientrare in quelli risarcibili, ammesso che siano conseguenza certa e diretta del fatto illecito. Oppure, la Corte avrebbe potuto fare un ragionamento del tutto opposto e dire che, nonostante lo status di norma fondamentale dell’ordinamento, i danni macroeconomici non rientrano tra quelli che il divieto dell’uso della forza ammette come risarcibili. Il punto che si vuole sottolineare qui è che la valutazione di quali danni siano o meno risarcibili (se solo quelli diretti e certi, se solo quelli prevedibili o se solo quelli prossimi) è una valutazione giuridica che poco ha a che vedere – se non nei presupposti – con il problema della causalità naturale. La Corte invece sembra dire esattamente il contrario, ovvero che non serve in questo caso fare una valutazione normativa sul danno e sulla natura della norma violata dal momento che manca l’accertamento del nesso causale tra la condotta e l’evento lesivo.
Questo ci induce ad un’ultima, e importante, riflessione. Dalla lettura della sentenza emerge a più riprese e in modo più o meno latente una certa confusione che la Corte – ma anche le stesse parti (si v. par. 77, 80, 91) – fanno tra causalità in fatto (o causalità naturale) e causalità giuridica. La distinzione, che nel nostro ordinamento è tipica dell’illecito civile (si v. per una definizione, Belvedere), è stata opportunamente fatta propria anche dal Progetto di articoli (commento art. 31, par. 10), dopo essere stata per la prima volta enunciata già in fase di lavori della CDI dal Relatore speciale Arangio-Ruiz (Second Report on State Responsibility, p. 12 e ss.). In sostanza, utilizzando le parole della Commissione «The allocation of injury or loss to a wrongful act is, in principle, a legal and not only historical or causal process» (p. 92, corsivo nostro). Da un lato, infatti, affinché un danno sia risarcibile, occorre certamente una preliminare valutazione di tipo storico-ricostruttiva volta a ricercare le leggi scientifiche, statistiche o probabiliste, che ci consentano di dire che quel danno è la conseguenza di un certo evento (causalità naturale). Fatto ciò, si imporrà poi una valutazione necessariamente di tipo giudico, volta ad accertare se quel danno debba essere considerato conseguenza di un certo evento non solo di fatto, ma anche giuridicamente – per esempio, riconoscendo come causa solo i danni certi e diretti (causalità giuridica). Quando si tratti dell’illecito internazionale, è indubbio che l’accertamento della causalità naturale è in molti casi parte del processo che porta ad accertare l’esistenza stessa del fatto illecito, e quindi, della violazione (si pensi, tipicamente, agli illeciti d’evento. Per una definizione, si v. Morelli). Pertanto, è soprattutto la causalità giuridica a giocare un ruolo essenziale nella fase della riparazione, in quanto è qui che il giudice accompagna, alle valutazioni fattuali di cui sopra, considerazioni di tipo normativo su cosa debba considerarsi o meno danno risarcibile.
Nella sentenza riparatoria Congo c. Uganda, si rilevano diversi passaggi (per esempio, par. 78, 149, 250, 382) in cui la Corte sembra confondere questi due diversi piani (causalità in fatto e causalità giuridica) e pare sovrapporre, a tratti, il problema della causalità ai fini dell’attribuzione dell’illecito con il diverso problema della causalità ai fini della riparazione. Un esempio di questa confusione si rileva già all’inizio della decisione, quando la Corte è chiamata ad esprimersi sui principi generali che dovrebbero regolare il nesso di causa tra la condotta illecita e il danno. Qui la Corte deve rispondere alla difesa dell’Uganda, secondo cui, in relazione alle violazioni degli obblighi di prevenire violazioni di diritti umani e umanitario, si applicherebbe il criterio condizionalistico (but-for-test), per cui sarebbero risarcibili solo i danni che non si sarebbero verificati se l’Uganda fosse opportunamente intervenuta (par. 77, 92). L’Uganda invoca il criterio condizionalistico dal momento che era stata proprio la CIG ad applicare questo principio nella sentenza sull’Affare del genocidio (Bosnia Herzegovina c. Serbia), stabilendo che alla Serbia non fossero imputabili i danni discendenti dal genocidio poiché non si poteva stabilire con certezza che, se la Serbia fosse intervenuta in conformità all’obbligo di prevenzione, il genocidio non si sarebbe verificato (par. 462).
In Congo c. Uganda, la Corte avrebbe potuto superare l’impasse in cui era incorsa nel 2007 e rigettare il criterio condizionalistico in quanto quest’ultimo appartiene al problema della causalità in fatto e non riguarda la questione della causalità nella fase riparatoria (per una critica a riguardo, Gattini). Oltretutto, è chiaro che il nesso di causalità fattuale tra l’omissione dell’Uganda e le violazioni di diritti umani e umanitario fosse già stato – perlomeno implicitamente – riconosciuto dalla Corte nel momento stesso in cui questa aveva accertato la violazione degli obblighi di prevenzione riguardanti i diritti umani e il diritto umanitario sul territorio Ituri (essendo, questi, illeciti di evento). Invece, la Corte finisce sì per rigettare il criterio condizionalistico, ma con una motivazione del tutto diversa, affermando cioè che non sono possibili analogie con l’Affare del genocidio in quanto la Corte, in quel caso, «confined itself to determine the specific scope of the duty to prevent in the Genocide Convention». Insomma, qui la Corte – che sembra finalmente aderire al principio per cui che l’accertamento della causalità nella riparazione dipende dalla natura e dall’ambito di applicazione della norma primaria – finisce di fatto per confondere le due fasi del processo causale.
In conclusione, la sentenza sulla riparazione Congo c. Uganda non sembra fare chiarezza sul complesso problema del nesso di causalità nella riparazione e, più in generale, nell’illecito internazionale. Alcune parti della sentenza si rivelano talvolta oscure e il lettore è spesso chiamato a fare uno sforzo di interpretazione per riuscire a cogliere i vari passaggi logici sottesi al alcune affermazioni della Corta. Vista però l’eccezionalità con cui la Corte viene chiamata a pronunciarsi sul risarcimento dei danni di questo tipo, la sentenza è certamente storica e destinata, verosimilmente, a fare da precedente per eventuali casi futuri.
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