La giurisdizione penale extraterritoriale e la Convenzione di Palermo: nuove (o antiche?) riflessioni ispirate dalla Corte di Cassazione
Daniele Mandrioli (Università degli Studi di Milano)
Nel corso degli ultimi anni, il proliferare dei traffici illeciti nel Mar Mediterraneo ha sovente impegnato i giudici italiani nella delicata definizione dei limiti di esercizio della giurisdizione penale con riferimento a reati commessi in acque straniere e in alto mare. In tale contesto si inserisce una recente decisione della Corte di Cassazione (Cass. pen., sez. I, sent. 2 luglio 2021 n. 31652, Jomaa Laamami Tarek, testo disponibile qui), il cui approccio originale stimola tanto nuove quanto antiche riflessioni riguardanti l’adattamento del diritto interno al diritto internazionale pattizio.
Riassumendo brevemente la vicenda giudiziaria, con la pronuncia in commento la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso avverso la sentenza emessa dalla Corte d’Assise d’appello di Catania nei confronti degli imputati, condannati in primo e secondo grado per aver commesso i reati di omicidio volontario ex art. 575 cod. pen. e di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina di cui all’art. 12 del d. lgs. n. 286 del 1998. Secondo la ricostruzione giudiziaria dei fatti, i ricorrenti, di cittadinanza straniera, agendo a bordo di un’imbarcazione priva di bandiera, hanno posto in essere condotte integranti un traffico di migranti via mare dalla Libia verso l’Italia. Nel corso della tratta, il natante si è trovato in condizioni di grave emergenza. Venuta a conoscenza del pericolo, la nave militare italiana Cigala Fulgosi è intervenuta in soccorso dei migranti, raggiungendoli a 135 miglia nautiche a sud dell’isola di Lampedusa. Qui, le autorità italiane, dopo aver constatato il decesso di quarantanove persone a bordo, hanno messo in salvo e fatto sbarcare nel territorio italiano gli individui superstiti – imputati compresi – e, contestualmente, avviato il procedimento penale, conclusosi, come anticipato, con la condanna degli imputati in entrambi i gradi di giudizio. Successivamente, questi ultimi hanno proposto ricorso dinnanzi alla Corte di Cassazione, invocando,fra gli altri motivi, il difetto di giurisdizione italiana rispetto alle suddette condotte criminali, in quanto commesse da cittadini stranieri ai danni di persone straniere a bordo di un’imbarcazione priva di bandiera trovatasi al di fuori dei confini nazionali.
In altre parole, la Corte di Cassazione è stata chiamata a verificare la sussistenza della giurisdizione italiana in relazione ai delitti di favoreggiamento della immigrazione clandestina e di omicidio commessi in alto mare. Sul punto, la Suprema Corte ha confermato la sussistenza del suddetto requisito pregiudiziale e quindi anche la condanna in via definitiva i ricorrenti. Le motivazioni addotte a supporto di tale conclusione si fondano a più riprese sull’applicazione dell’art. 7, comma 1, n. 5, cod. pen., in virtù del quale: «è punito secondo la legge italiana il cittadino o lo straniero che commette in territorio estero […] ogni altro reato per il quale speciali disposizioni di legge o convenzioni internazionali stabiliscono l’applicabilità della legge penale italiana».
Tale disposizione, «espressiva del principio di universalità temperata della giurisdizione penale italiana» (v. p. 14 della sentenza), costituisce il fondamento per l’applicabilità extraterritoriale della legge (e della giurisdizione) penale italiana laddove ciò sia previsto da un trattato internazionale. Con riferimento al caso di specie, viene in rilievo la disciplina stabilita dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transazionale, stipulata a Palermo il 15 dicembre2000 e ratificata dall’Italia per mezzo della legge n. 146 del 2006, il cui art. 2 contiene altresì l’ordine di esecuzione. Entrambe le condotte di cui sono stati accusati gli imputati rientrano infatti tra quelle fattispecie criminose – peraltro già regolate dal diritto penale italiano – per le quali la Convenzione del 2000 dispone l’obbligo di incriminazione.
Ebbene, ai sensi dell’art. 15, par. 2, lett. c, del medesimo trattato, è data la facoltà agli Stati diestendere la propria giurisdizione nel caso in cui i reati, realizzati «[…] with a view to the commission of a serious crime within its territory», siano stati consumati al di là dei confini nazionali. Dal momento che i delitti qui in esame avrebbero prodotto «gravi e dirette conseguenze in Italia» (v. p. 21 della sentenza), la Cassazione ha, dunque, ritenuto sussistente la giurisdizione penale italiana.
La decisione della Corte di legittimità si inserisce in un noto filone giudiziario. Negli ultimi anni, diversi sono stati i casi in cui la Cassazione ha analizzato l’art. 7, comma 1, n. 5, cod. pen., in combinato disposto con l’art. 15 della Convenzione di Palermo per affermare o meno la giurisdizione italiana in relazione a condotte commesse oltre i limiti territoriali (ex multis, v. le sentenze della Corte di Cassazione penale Sez. V n. 48250 del 2019, Sez I n. 20503 del 2015, Sez. I n. 14510 del 2014, Sez. I n. 36052 del 2014).
In tale ambito, rientra anche la recente sentenza Tartoussi (sez. I n. 19762 del 17/06/2020, per un’analisi v. Gavrysh e Zugliani), ove la Corte aveva tuttavia assunto una posizione diametralmente opposta a quanto concluso nella decisione in commento. In quell’occasione, concernente l’ipotesi di traffico internazionale di armi, la Cassazione aveva escluso che la giurisdizione penale italiana potesse essere giustificata «ai sensi dall’art. 7, comma 1 n.5 c.p. e della Convenzione ONU di Palermo […] in quanto la disposizione convenzionale relativa alla giurisdizione [in quel caso l’art. 15, par. 4] pur in presenza della sua ratifica,non è di immediata applicazione nell’ordinamento dello Stato parte».
Nel caso Tartoussi, l’indagine si era infatti incentrata sulla natura autoapplicativa o meno delle disposizioni in materia di giurisdizione previste dall’art. 15, par. 2 e 4, della Convenzione di Palermo. Come rilevato anche dalla Corte, difatti, la procedura di adattamento per mezzo dell’ordine di esecuzione determina l’automatica operatività all’interno dell’ordinamento nazionale soltantodi una norma qualificabile come self-executing, ovvero «completa nel suo contenuto dispositivo o in grado di divenire tale in virtù di norme interne preesistenti» (Baratta, p. 8). L’accertamento della completezza di una disposizione pattizia è un processo ermeneutico delicato, volto principalmente a ricostruire la volontà delle parti nel configurare situazioni giuridiche definite e non, invece, parziali o dalla natura programmatica. Sotto questo profilo, norme internazionali pattizie che concedono mere facoltàagli Stati non sono solitamente ritenute self-executing (si richiama in proposito la nota sentenza della Corte Costituzionale n. 183 del 1994, Di Lazzaro). Pertanto, in virtù di quanto affermato nella sentenza Tartoussi, la Convenzione di Palermo non potrebbe costituire, di per sé, un fondamento normativo in grado di giustificare l’estensione della giurisdizione penale italiana rispetto ai reati di criminalità organizzata commessi integralmente all’estero, in quanto mancherebbe una successiva disposizione di legge idonea a manifestare la specifica volontà dello Stato italiano di avvalersi di tale facoltà.
Come si accennava, la decisione in commento segna un netto smarcamento da quanto affermato nel caso Tartoussi: secondo questa più recente pronuncia della Corte di Cassazione, i giudici nazionali possono giudicare tali vicende in virtù della «clausola di universalità della legge penale italiana di cui all’art. 7 cod. pen.»; ai sensi di tale disposizione, non sarebbe affatto necessaria una «ulteriore e pleonastica» estensione della giurisdizione da parte del legislatore italiano (v. p. 29 della sentenza).
Per chiarire le ragioni addotte dalla Corte, occorre rimarcare come essa non abbia sindacato la natura self-executing o meno delle previsioni della Convenzione di Palermo in materia di giurisdizione penale; anzi, riconoscendo il “margine di apprezzamento” conferito allo Stato italiano dal dettato pattizio, la Cassazione ha ritenuto chel’ordinamento interno avrebbe già dichiarato di volersi avvalere di tale facoltà proprio in virtù dell’art. 7, comma 1, n. 5, cod. pen.,disposizione che manifesterebbe il massimo grado di universalità della legge e della giurisdizione penale ogniqualvolta il diritto internazionale lo conceda. Secondo tale ragionamento, dunque, un ulteriore intervento normativo risulterebbe ridondante, dal momento che il diritto interno sarebbe già strutturalmente proteso ad espandersi oltre il territorio nazionale quando tale possibilità sia prevista, o anche semplicemente ammessa, dal diritto internazionale pattizio.
La Cassazione sembra dunque alludere all’esistenza all’interno del codice penale di un meccanismo di rinvio «di carattere aperto e mobile» alle norme previste dalle convenzioni internazionali cui l’Italia aderisce (v. p. 14 della sentenza in esame). Di conseguenza, tale lettura dell’art. 7, comma 1, n. 5, cod. pen., consentirebbe di oltrepassare il problema della natura self-executing o meno dell’art. 15 della Convenzione di Palermo, risolvendo così il quesito giurisdizionale esaminato.
Per quanto non esplicitamente affermato dalla Corte di Cassazione, questo approccio pare ispirarsi a un’interpretazione storica della normativa rilevante che, a nostro avviso, merita di essere brevemente richiamata. Per l’appunto, la tesi secondo cui l’art. 7, comma 1, n. 5, cod. pen., conterrebbe un rinvio permanente alle norme previste dalle convenzioni internazionali troverebbe conferma nei lavori preparatori del Codice Rocco del 1930. Da essi si evince chiaramente che i redattori del progetto avevano inteso tale disposizione come «[…] una clausola di rinvio a tutte quelle disposizioni di legge interna o di convenzioni internazionali, senza specificazione del loro contenuto, attualmente esistenti, o future, a norma delle quali si debba applicare la legge italiana anche a fatti commessi all’estero» (Codice penale illustrato con i lavori preparatori, Roma, 1930, p. 12-13). In altre parole, il citato articolo farebbe «dipendere una conseguenza giuridica (punizione del reato commesso) dalla sussistenza di un fatto (che una convenzione internazionale preveda l’applicabilità della legge penale italiana)». Seguendo tale impostazione, «il divenire la convenzione diritto interno» non sarebbe, dunque, «affatto necessario» (Levi, Il diritto penale internazionale, Milano, 1949, p. 99. Analogamente, v. Battaglini, Diritto Penale. Parte generale, Bologna, 1940, p. 63).
La ricostruzione della volontà originale del legislatore del tempo non pare tuttavia sufficiente a giustificare la tesi secondo cui l’art. 7, comma 1, n. 5, cod. pen. opererebbe un rinvio diretto agli articoli della Convenzione di Palermo. Due sono, a nostro avviso, le ragioni che si oppongono a tale ricostruzione.
Innanzitutto, l’adozione della Carta costituzionale, successiva al Codice Rocco, impone un’interpretazione costituzionalmente orientata delle norme previgenti ad essa. Pur ammettendo che l’articolo fosse stato ideato al fine di armonizzare le disposizioni nazionali penalistiche in caso di «future» pattuizioni internazionali, non sembra sostenibile che il diritto penale odierno, fondato sui principi costituzionali di legalità e di determinatezza della legge penale sostanziale e processuale,possa rinviare direttamente al testo di una convenzione internazionale. In effetti, ammettere che l’esercizio della potestà punitiva italiana possa essere regolato attraverso un rinvio ad un accordo internazionale avrebbe l’effetto di eludere la riserva di legge delle norme penali prevista dall’art. 25, comma 2, Cost., (sul piano sostanziale) e dall’art. 111, comma 1, Cost., (sul versante processuale). Per quanto il limite posto dalla Costituzione non abbia un carattere assoluto, ammettendo dunque che, per certi aspetti, le norme penali possano «implicare […] un richiamo di altre disposizioni […] di ordinamenti stranieri» (v. sentenza Corte Costituzionale n. 21 del 2009, punto 4), si deve comunque concludere che la definizione dei margini estensivi della potestà punitiva italiana rimane di appannaggio esclusivo del legislatore nazionale. Come osservato da un’attenta dottrina, infatti: «criminal law provisions cannot be laid down in acts different from parliamentary legislation which, in the Italian legal order, is subordinate the Constitution» (Bonafè, p. 669).
Coerentemente con quanto previsto dal dettato costituzionale, dunque, l’estensione extraterritoriale della potestà punitiva nazionale, prospettata dall’art. 7, comma 1, n. 5, cod. pen., richiede necessariamente che gli obblighi di incriminazione e di estensione della giurisdizione penale previsti dalle norme convenzionali siano adeguatamente rese esecutive nell’ordinamento italiano mediante gli appositi strumenti legislativi; soltanto una volta avvenuto ciò, saranno le stesse norme di adattamento a determinare il proprio ambito di applicazione. In virtù di quanto detto, l’art. 7, comma 1, n. 5, cod. pen., non pare assolvere ad alcun rinvio diretto alle convenzioni internazionali (v. Ziccardi); più limitatamente, esso ricoprirebbe un ruolo ricognitivo della (teorica) apertura dell’ordinamento penale rispetto agli accordi internazionali (v. Treves, p. 99).
In aggiunta, pur accogliendo per ipotesi tale impostazione “storica”, non verrebbe comunque risolto il problema dato dalla natura non self-executing delle disposizioni della Convenzione di Palermo in materia di giurisdizione. Infatti, il testo dell’art. 7, comma 1, n. 5, cod. pen., richiama le disposizioni internazionali che «stabilisconol’applicabilità della legge penale italiana». Di conseguenza, l’eventuale clausola di rinvio al dettato pattizio non sembra “attivarsi” con riferimento a disposizioni internazionali di natura meramente facoltativa e programmatica le quali, per loro natura, non «stabiliscono» la potestà punitiva nazionale. Come osservato in precedenza, la Convenzione di Palermo non estende, di per sé, l’ambito di applicazione della legge italiana; più limitatamente, essa pone obblighi di incriminazione rispetto a specifiche condotte criminali, consentendo agli Statidi estendere la propria giurisdizione oltre i confini territoriali per reprimere efficacemente tali condotte. Questa facoltà, limitata all’esercizio del potere giurisdizionale penale, necessita di essere concretizzata dal legislatore in via ordinaria.
In conclusione, la Corte di Cassazione – chiaramente animata dallo scopo di «colmare lo iato creato dalla necessità di una progressiva estensione dei poteri di enforcement nelle acque internazionali, rispetto alla conformazione tradizionale dei criteri di radicamento della giurisdizione penale» (Pressacco, p. 101) – non può tuttavia disinteressarsi delle “faglie” esistenti tra l’ordinamento penale interno e gli strumenti pattizi internazionali non adeguatamente appianate dal legislatore. Al netto di tutto ciò, non sembra quindi possibile “sviare” il problema dell’adattamento delle norme non auto-applicative nemmeno imboccando l’antica strada ispirata dai lavori preparatori del Codice Rocco. Questo perché, appunto, «le norme convenzionali che comportano l’applicabilità della legge penale non sfuggono ai meccanismi normali di adattamento» (Treves, p. 99).
1 Comment
…a proposito dell’accattivante titolo del suo post (contributo), sia (sommessamente) consentito di (pro)tendere verso ‘antichi’ (brevi) spunti di riflessione ispirati (ove di interesse; anche) dalle ‘linee guida’ della Direzione Nazionale Antimafia (ed Antiterrorismo) in materia di traffico di migranti, v. (ove di interesse; in chiave ricostruttiva, si tratta fondamentalmente di un mio piccolo scritto in La legislazione penale, 5 luglio 2018): https://www.lalegislazionepenale.eu/brevi-spunti-sulla-base-della-documentazione-disponibile-sullazione-di-contrasto-della-direzione-nazionale-antimafia-ed-antiterrorismo-al-modus-operandi-dei-trafficanti-di-migranti-giusep/