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LA DECISIONE SUL CASO SHORTALL ET AL. v. IRELAND: VERSO UN ULTERIORE (ED ECCESSIVO) RESTRINGIMENTO DELLA NOZIONE DI VITTIMA POTENZIALE NEL SISTEMA CEDU?

Marcella Ferri (Università di Firenze)

1. Con la decisione Shortall et al. v. Ireland, la Corte europea dei diritti umani (di seguito, Corte EDU o Corte) ha ritenuto inammissibile il ricorso con cui le era stato chiesto di pronunciarsi in merito alla dichiarazione che, ai sensi della Costituzione irlandese (artt. 12.8 e 31.1), la persona, rispettivamente, eletta Presidente della Repubblica e nominata membro del Consiglio di Stato deve rendere, «[i]n the presence of Almighty God», prima di entrare in servizio. Oltre che a livello interno (al riguardo si v. qui), l’eliminazione di tali disposizioni dalla Costituzione irlandese era già stata sollecitata anche sul piano internazionale. In proposito, il Comitato dei diritti umani delle Nazioni Unite ne ha in più occasioni ravvisato la contrarietà rispetto al diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione di cui all’articolo 18 del Patto sui diritti civili e politici (sul punto si v. qui e qui).

La questione è stata (o meglio, ha tentato di essere) portata anche all’esame della Corte EDU in seguito al ricorso presentato da cinque cittadini irlandesi che affermavano di poter aspirare alla carica presidenziale o alla nomina in seno al Consiglio di Stato. I ricorrenti lamentavano che, nell’ipotesi di una loro elezione o nomina, avrebbero subito una violazione del proprio diritto alla libertà di pensiero, coscienza e religione di cui all’art. 9 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), poiché sarebbero stati costretti a rendere una dichiarazione contraria alle proprie convinzioni umanistiche e agnostiche, a meno di rinunciare all’esercizio del proprio incarico.

La Corte, all’unanimità, ha giudicato il ricorso inammissibile ritendendo che i cinque ricorrenti non potessero essere qualificati come vittime dell’asserita violazione ai sensi dell’art. 34 CEDU.

In questa sede ci si propone di valutare se, con la pronuncia Shortall, la Corte EDU sia giunta ad applicare una nozione di vittima potenziale ulteriormente circoscritta rispetto a quella, pur già connotata in senso eccezionale, che caratterizza la propria precedente giurisprudenza al riguardo. Al fine di compiere tale valutazione, il commento alla pronuncia sarà preceduto da taluni – pur inevitabilmente brevi e sommari – richiami alla giurisprudenza in materia di vittima potenziale (par. 2), per poi analizzare nello specifico la decisione adottata nel caso Shortall (par. 3) e, infine, evidenziarne alcune criticità (par. 4).

2. Come noto, in forza dell’art. 34 CEDU, la Corte EDU è competente a ricevere i ricorsi presentati da una persona, nonché un’organizzazione non governativa o un gruppo di privati, che «sostenga di essere vittima di una violazione» di un diritto riconosciuto dalla CEDU o dai suoi Protocolli (sulla nozione di vittima, v. inter alia Raimondi; Saccucci, in Commentario breve alla CEDU, pp. 630 ss.; Schabas, p. 742). Partendo da tale formulazione, la Corte ha costantemente ribadito che, a differenza dei ricorsi interstatali (art. 33 CEDU), i ricorsi individuali sono ammissibili solo a condizione che il ricorrente abbia subito direttamente e personalmente la violazione lamentata. Tuttavia, accanto all’ipotesi della vittima diretta, la giurisprudenza di Strasburgo ha riconosciuto, benché in via eccezionale, le figure della vittima indiretta, potenziale e futura. Invero, la distinzione tra le nozioni di vittima potenziale e futura, pur delineata da alcuni autori (cfr. Raimondi, cit.; van Dijk, van Hoof, pp. 52 ss.), non risulta perfettamente agevole (cfr. Saccucci, cit., p. 639) stante il tendenziale assorbimento nella prassi dell’una nell’altra (a prescindere da una eventuale distinzione tra le due categorie, su cui non ci si soffermerà in questa sede, nel prosieguo si utilizzerà la sola espressione di “vittima potenziale”).

Con riferimento, in generale, alla nozione di vittima, la Corte ha affermato che i criteri per definire il possesso di questo status «cannot be applied in a rigid, mechanical and inflexible way» (v. per tutte Karner v. Austria, par. 25); ne consegue la necessità di evitare ogni interpretazione caratterizzata da qualsivoglia «excessive formalism» (v. per tutte Gorraiz Lizarraga et al. v. Spain, parr. 37-38). Non stupisce, pertanto, che la Corte abbia talvolta riconosciuto lo status di vittima potenziale alla luce della necessità di assicurare una effettiva protezione (c.d. effet utile) dei diritti tutelati nella CEDU e garantire che essi non si collochino su un piano meramente illusorio o astratto (v. per tutte Klass et al. v. Germany [GC], par. 34).

Il riconoscimento della figura della vittima potenziale trova altresì origine nella possibilità di individuare, anche nell’ambito di un ricorso individuale, un interesse generale riconducibile alla tutela dell’«ordine pubblico europeo» (in questo senso, Saccucci, cit., p. 635; van Dijk, van Hoof, cit., p. 56). Il richiamo all’esistenza di una «question of general interest» la cui rilevanza trascende lo specifico caso di specie e il cui esame «contribute to elucidating, safeguarding and developing the standards of protection under the Convention» (v. per tutte Karner v. Austria, cit., parr. 26 ss.) è stato usualmente operato dalla Corte per respingere le richieste di radiazione dal ruolo (art. 37 CEDU), ma il suddetto interesse deve considerarsi altresì all’origine della nozione di vittima potenziale (in tal senso, v. opinione concordante del Giudice Pinto de Albuquerque in Fabris v. France [GC]).

Svolte tali premesse, è utile ricordare che un’ipotesi chiaramente riconducibile alla categoria della vittima potenziale è quella dello straniero nei cui confronti sia stato adottato un provvedimento di espulsione che lo esponga al rischio di subire una violazione del divieto di tortura (v. per tutte Soering v. the United Kingdom [GC]) o del diritto alla vita privata e familiare (v. per tutte Beldjoudi v. France). Al di là di tale caso del tutto peculiare, molto diverse (e di più difficile individuazione) sono invece le ipotesi in cui un soggetto potrebbe rientrare nell’ambito di applicazione di una legge, nonostante nei suoi confronti non sia stata (ancora) adottata alcuna specifica misura di esecuzione. Pur escludendo in modo assoluto l’ammissibilità della c.d. actio popularis, la Corte EDU ha riconosciuto la qualità di vittima in capo a soggetti impossibilitati a dimostrare l’adozione di atti volti ad applicare nei loro confronti la legge contestata in ragione della natura segreta delle misure di esecuzione (v. per tutte Klass et al. v. Germany, cit.), a ricorrenti esposti a un c.d. dilemma di coscienza in quanto costretti a modificare il proprio comportamento per non esporsi al rischio di una sanzione, nonché a ricorrenti appartenenti a una «class of people who risk being directly affected by the legislation» (v. per tutte Burden v. the United Kingdom [GC], par. 34). In tali casi, tuttavia, la Corte ha subordinato la possibilità di riconoscere al ricorrente lo status di vittima alla condizione che egli fosse in grado di «produce reasonable and convincing evidence of the likelihood that a violation affecting him personally will occur» (v. per tutte Tauira et al v. France).

Per meglio inquadrare la decisione qui commentata è, innanzitutto, necessario accennare ad alcune delle sentenze in cui la Corte ha ravvisato la qualità di vittima in capo a soggetti appartenenti a un gruppo di individui che rischiano di vedersi direttamente applicata la legislazione contestata. Se, da un lato, essa è giunta a negare lo status di vittima in quelle ipotesi in cui il legame tra il ricorrente e la legislazione de qua risulti «much too tenuous» (Segi et al & Gestoras Pro-Amnistia et al v. 15 States of the EU), per converso, essa ha qualificato come vittima potenziale il ricorrente che, in ragione di una determinata caratteristica, potrebbe rientrare, anche in un futuro remoto e meramente eventuale, nell’ambito di applicazione soggettivo della legislazione.

Paradigmatica al riguardo la sentenza resa nel caso Burden v. the United Kingdom, relativo a due sorelle nubili che avevano da sempre vissuto insieme nella casa ereditata dai genitori e fatto testamento l’una a favore dell’altra. Esse lamentavano una violazione del diritto di proprietà (art. 1, Prot. 1) e del principio di non discriminazione (art. 14 CEDU) in ragione del fatto che, in seguito al decesso di una delle due, la sorella superstite non avrebbe potuto beneficiare dell’esenzione dal pagamento delle tasse di successione prevista, invece, dalla legislazione britannica a favore del coniuge o del partner registrato del de cuius. La Grande Camera, attribuendo particolare considerazione all’età avanzata delle donne e al testamento redatto dall’una a favore dell’altra, ha ritenuto esistente «a real risk that, in the not too distant future, one of [the applicants] will be required to pay substantial inheritance tax» (par. 35). Lo status di vittima è stato, quindi, riconosciuto nonostante la violazione contestata si collocasse in un futuro (per quanto prossimo) e mantenesse un certo (per quanto lieve) margine di incertezza. 

Ancor più rilevante è la pronuncia, anch’essa adottata dalla Grande Camera, nel caso Open Door and Dublin Well Woman v. Ireland, relativo alla compatibilità con la libertà di espressione (art. 10 CEDU) dell’ingiunzione con cui la Corte suprema irlandese vietava a due società di fornire alle donne informazioni sulle modalità di accesso all’aborto all’estero. In tale occasione, la circostanza di essere una donna in età procreativa, benché non in stato di gravidanza, è stata considerata dalla Corte di per sé sola sufficiente per ravvisare il rischio che essa, pur in un futuro eventuale, fosse esposta al rischio di subire gli effetti dell’ingiunzione contestata e, dunque, riconoscerle nel caso di specie la qualità di vittima potenziale.

Nel solco di questa giurisprudenza si pone la sentenza Sejdic and Finci v. Bosnia and Herzegovina, relativa al caso di due cittadini bosniaci di origine, rispettivamente, rom ed ebraica che lamentavano una discriminazione su base etnica (art. 14 CEDU, art. 3, Prot. 1 e art. 1, Prot. 12) in ragione del fatto che la Costituzione della Bosnia-Erzegovina, allegata all’Accordo di Dayton, riserva ai soli appartenenti alle etnie bosniaca, croata e serba (definite «constituent peoples») il diritto di essere eletti alla camera alta del Parlamento e alla Presidenza dello Stato. I ricorrenti, che all’epoca dei fatti erano l’uno membro della missione OCSE in Bosnia-Erzegovina e l’altro ambasciatore della Bosnia-Erzegovina in Svizzera, facevano valere di avere un’esperienza tale da consentire loro di aspirare alle suddette cariche. La Corte, anche in questo caso pronunciatasi nella formazione della Grande Camera, ha riconosciuto che i ricorrenti potessero qualificarsi vittime della discriminazione contestata, facendo particolare riferimento alla circostanza che, in ragione della loro attiva partecipazione alla vita pubblica, «it would be entirely coherent that they would in fact consider running for the House of Peoples or the Presidency» (par. 29). Due sono, in particolare, gli elementi di questa affermazione meritevoli di essere richiamati. In primo luogo, la Corte si è limitata ad attribuire rilevanza al fatto che i ricorrenti avrebbero potuto «consider» (in francese, «envisager») l’eventualità di correre per le elezioni; in secondo luogo, questa circostanza è stata ritenuta esistente, nel caso di specie, sulla base di un criterio di coerenza, considerando meramente sufficiente l’attiva partecipazione dei ricorrenti alla vita politica del Paese. Tale passaggio è paradigmatico della misura in cui la Corte sia giunta ad ampliare notevolmente la nozione di vittima potenziale estendendola a soggetti rispetto ai quali l’esistenza della violazione si collocava ancora su un piano ipotetico e, peraltro, sarebbe dipesa da una decisione del soggetto stesso. Inoltre, nel solco di Open Door e a differenza di quanto accaduto in Burden, la Corte non ha neppure richiamato l’esistenza di un legame temporale relativamente stretto tra il momento del ricorso e quello in cui si sarebbe (eventualmente) consumata la violazione.

Prima di illustrare e commentare la decisione adottata sul caso Shortall, è altresì utile accennare brevemente alla giurisprudenza relativa al c.d. dilemma di coscienza. L’esistenza di siffatto dilemma è stata ampiamente riconosciuta dalla Corte in ipotesi in cui, a fronte del rischio di essere esposto a una sanzione (penale o disciplinare), il ricorrente si trovi costretto a scegliere tra, da un lato, l’osservanza della legge e, dall’altro, il rispetto di un elemento fondamentale della propria identità di genere (v. per tutte Dudgeon v. the United Kingdom [GC], par. 41), della propria etica professionale (Michaud v. France) o del proprio credo religioso (S.A.S. v. France [GC]; per un commento anche su questo specifico aspetto, cfr. Starita, pp. 104 ss.).

Una significativa evoluzione di questa prassi è rappresentata dal caso Tanase v. Moldova, relativo a un politico moldavo cui la legislazione nazionale vietava, in quanto cittadino con doppia nazionalità, il diritto all’elettorato passivo per il Parlamento. Risulta particolarmente rilevante che, nonostante al momento della pronuncia della Camera il ricorrente avesse semplicemente manifestato la propria volontà di partecipare alle successive elezioni legislative, la qualità di vittima gli sia stata riconosciuta in ragione del fatto che egli avrebbe subito direttamente gli effetti della legislazione de qua. Due sono gli aspetti centrali del ragionamento svolto dalla Corte. In primo luogo, la circostanza che, a fronte di un’eventuale elezione, egli sarebbe stato costretto a una «difficult choice» (par. 70) tra la presa di servizio come deputato e la rinuncia ad una delle due nazionalità possedute. In secondo luogo, la Camera ha sottolineato che la necessità di operare questa scelta avrebbe pesato sul ricorrente fin dall’inizio della campagna elettorale e a prescindere dall’esito delle elezioni: egli, infatti, avrebbe dovuto impegnarsi al fine di perseguire un risultato cui, successivamente, si sarebbe trovato costretto a rinunciare; d’altra parte, la prospettata rinuncia al ruolo di deputato avrebbe potuto influenzare gli elettori determinando la perdita di potenziali voti. Tali aspetti hanno condotto i giudici di Strasburgo ad affermare che la tesi del governo secondo cui il ricorrente avrebbe dovuto attendere l’esito delle elezioni per presentare il ricorso fosse incompatibile con il principio di effettività dei diritti garantiti nella CEDU.

È interessante rimarcare che, a seguito di richiesta da parte del governo, il caso è stato rinviato alla Grande Camera la cui pronuncia, a differenza di quella della Camera, è stata resa quando ormai il ricorrente era già stato eletto e aveva avviato la procedura per rinunciare alla seconda nazionalità. Peraltro, nonostante la Grande Camera abbia riconosciuto la qualità di vittima diretta al ricorrente, essa ha nondimeno confermato la prospettiva precedentemente adottata dalla Camera, evidenziando che l’effetto pregiudizievole prodotto dalla legislazione contestata si era verificato, in capo al ricorrente, fin dall’inizio della campagna elettorale e ciò a prescindere dall’esito delle elezioni.

Quanto affermato dalla Camera e, successivamente, confermato dalla Grande Camera è estremamente rilevante poiché denota un significativo ampliamento della nozione di dilemma di coscienza tale da attribuire rilevanza anche al dilemma che costringa il ricorrente a rinunciare a un elemento importante per la propria persona, pur senza esporlo a conseguenze sanzionatorie.

3. Un ruolo fondamentale nel ragionamento svolto dalla Corte nella decisione sul caso Shortall è svolto dal sopra citato test della reasonable and convincing evidence relativa alla probabilità che si realizzi una violazione dei diritti del ricorrente. L’applicazione del suddetto test ha condotto i giudici di Strasburgo a valutare se i ricorrenti possedessero i requisiti richiesti dalla Costituzione irlandese per l’accesso alla carica di Presidente e di membro del Consiglio di Stato. Nel caso di specie, tutti i ricorrenti, a eccezione di uno, sono affermati politici, membri – in taluni casi da molti anni – del Parlamento o candidati, pur senza successo, alle passate elezioni per la Presidenza della Repubblica.

Per quanto concerne la possibilità per i ricorrenti di essere nominati membri del Consiglio di Stato, la Corte ha ritenuto non soddisfatto il test sopra menzionato. Occorre ricordare che, nell’ordinamento irlandese il Consiglio di Stato, incaricato di funzioni consultive rispetto all’esercizio dei poteri presidenziali, si compone, oltre che di alcuni membri d’ufficio, di sette membri nominati dal Presidente della Repubblica «in his absolute discretion». Nonostante – come richiamato dalla stessa Corte – alcuni dei ricorrenti avessero dichiarato di avere l’esperienza richiesta per diventare membri del Consiglio, la natura meramente discrezionale della scelta operata dal Presidente non ha consentito di affermare che essi avessero la realistica possibilità di essere nominati e, dunque, di essere esposti al rischio di dover rendere la dichiarazione contestata.

Con riguardo alla dichiarazione richiesta per la carica presidenziale, la Corte ha innanzitutto ribadito che, a differenza dei ricorrenti della sopra menzionata sentenza Sejdic and Finci, in Shortall i ricorrenti non si vedevano precluso ex lege il diritto di partecipare alle elezioni, ma lamentavano una violazione che si sarebbe verificata successivamente ad esse. Ne consegue – ha osservato la Corte – che la categoria di vittime oggetto della possibile violazione risulta particolarmente ristretta. Tuttavia, ad avviso dei giudici di Strasburgo, i ricorrenti nel caso Shortall non avevano presentato una «reasonable and convincing evidence» circa l’esistenza della loro reale intenzione di partecipare alle elezioni presidenziali e il possesso di effettive prospettive di vittoria (par. 53). Più specificamente, secondo la Corte, tale test non è stato soddisfatto poiché nessuno dei ricorrenti aveva dimostrato, non tanto di poter essere eletto presidente, bensì di poter essere candidato: essi avrebbero dovuto, in particolare, provare di essere in grado di avere l’appoggio di almeno venti membri delle due camere del Parlamento o di almeno quattro consigli di contea, essendo questa la condizione richiesta dalla Costituzione irlandese per potersi candidare alla carica presidenziale.

La Corte ha, inoltre, respinto l’argomentazione dei ricorrenti secondo cui la presentazione di una loro candidatura sarebbe stata inutile e avrebbe avuto l’unica finalità di giustificare un successivo ricorso a Strasburgo. Come da essi evidenziato, infatti, nell’eventualità in cui fossero stati eletti, non sarebbero stati disposti a rendere la dichiarazione richiesta per la presa di servizio e, con ogni probabilità, informando gli elettori di tale eventualità, qualsiasi possibilità di elezione sarebbe stata loro preclusa. Pur riscuotendo «some sympathy» (par. 58), questa argomentazione non è stata accolta in ragione del fatto che i ricorrenti non avevano cercato di dimostrare la possibilità di ottenere l’appoggio richiesto per candidarsi alla carica presidenziale. Alla luce di tali considerazioni, la Corte è giunta a escludere che i ricorrenti stessero per patire un dilemma di coscienza «immediate or imminent», distinguendo il caso in esame da quello oggetto delle sentenze S.A.S. e Michaud (par. 58).

Da ultimo, la Corte ha fondato la propria conclusione circa il mancato possesso dello status di vittima in capo ai ricorrenti richiamando la dottrina del margine di apprezzamento, in forza della quale l’assenza di un approccio omogeneo tra gli Stati parte della CEDU, circa la regolamentazione del fenomeno religioso all’interno del proprio ordinamento, implica il riconoscimento di un’ampia discrezionalità nazionale in materia.

4. Se la conclusione adottata dalla Corte con riguardo all’assenza della qualità di vittima in relazione alla violazione che deriverebbe dalla dichiarazione richiesta ai membri del Consiglio di Stato appare condivisibile, sorge invece qualche dubbio relativamente a quanto affermato in riferimento alla dichiarazione necessaria per la carica presidenziale. Il ragionamento con cui la Corte è giunta a negare ai ricorrenti lo status di vittima per quanto concerne questo secondo aspetto presenta, infatti, tre profili di criticità.

La prima criticità attiene alle modalità con cui è stato applicato il test della reasonable and convincing evidence. Certamente, come rilevato dalla Corte, a differenza del caso Sejdic and Finci, in Shortall la partecipazione alle elezioni da parte dei non credenti non era esclusa ex lege ed è, al tempo stesso, evidente che le persone candidabili alla carica presidenziale costituiscono una categoria ristretta e ‘qualificata’; tuttavia, la conclusione cui sono pervenuti i giudici di Strasburgo non risulta pienamente condivisibile.

Le diverse posizioni dei singoli ricorrenti non sembrano, infatti, essere state tenute in adeguata considerazione. A tale riguardo, è utile richiamare la situazione di alcuni di loro: Ms Shortall è membro della camera bassa del Parlamento irlandese da 28 anni; Mr Brady è un affermato politico a livello locale, attualmente al suo secondo mandato presso la camera bassa del Parlamento; infine, Mr Norris è membro dal 1987 della camera alta del Parlamento irlandese e ha corso alle elezioni presidenziali del 2011, avendo all’epoca ottenuto l’appoggio di almeno quattro consigli di contea. Risulta, quindi, particolarmente criticabile che i giudici di Strasburgo non abbiano ritenuto soddisfatto il test in ragione del fatto che i ricorrenti non avevano dimostrato la possibilità di ottenere l’appoggio di almeno venti membri delle due camere o di almeno quattro consigli di contea.

Più specificamente, la Corte (forse, invero, non pienamente sollecitata dai ricorrenti sul punto) non ha tenuto conto della circostanza che i ricorrenti appartengono a un gruppo i cui membri, in ragione di talune caratteristiche (non credenti con una consolidata esperienza politica), potrebbero vedersi applicata la disposizione all’origine della violazione contestata e subirne gli effetti pregiudizievoli. Come emerge dalla giurisprudenza sopra citata in tema di vittima potenziale (v. in particolare le donne in età procreativa di Open Door e le sorelle Burden), la Corte ha riconosciuto lo status di vittima anche a soggetti che, in ragione di determinate qualità, potrebbero rientrare nell’ambito di applicazione della disposizione contestata in un futuro remoto e finanche meramente eventuale. Occorre ricordare che l’ipotesi dell’elezione a Presidente in discussione in Shortall risulta molto diversa da quella della nomina a membro del Consiglio di Stato. Quest’ultima, infatti, dipende da una scelta altrui, di natura meramente discrezionale, e ha dunque un carattere talmente aleatorio da essere stata, giustamente, annoverata dalla Corte tra quelle ipotesi in cui il legame tra il ricorrente e l’ambito di applicazione della disposizione risulta troppo debole. Al contrario, l’ottenimento dell’appoggio richiesto per la presentazione della candidatura alla Presidenza è da considerarsi «a realistic prospect» per persone che, al pari di almeno alcuni dei ricorrenti, vantino una partecipazione consolidata nella vita politica del Paese e abbiano già ottenuto tale appoggio in passato. Sostenendo che i ricorrenti avrebbero dovuto soddisfare il test della reasonable and convincing evidence anche con specifico riguardo all’ottenimento dell’appoggio politico necessario ai fini della candidatura ed escludendo che essi avrebbero potuto ottenere tale appoggio in futuro, sulla base di un criterio di coerenza, la Corte è giunta ad applicare una nozione di vittima potenziale che appare ulteriormente circoscritta rispetto a quella enucleata in precedenza.

Occorre, in secondo luogo, considerare che la negazione dello status di vittima cui è addivenuta la Corte denota una certa sottovalutazione della circostanza che la convinzione non religiosa (o religiosa) rientrante nell’ambito di applicazione dell’art. 9 CEDU si caratterizza per avere «a certain level of cogency, seriousness, cohesion» (Campbell and Cosans v. United Kingdom, par. 36). Ciò induce a interrogarsi circa la possibilità di ravvisare un dilemma di coscienza non solo e non tanto nell’ipotesi in cui il non credente debba rendere la dichiarazione richiesta per esercitare la carica presidenziale, ma di ritenerlo piuttosto esistente fin dal momento in cui egli ricerca l’appoggio richiesto dall’ordinamento interno per presentare la propria candidatura. Il potenziale candidato non credente si troverà, in effetti, costretto a scegliere tra dichiarare fin dall’origine la propria convinzione – e dunque esporsi al rischio di non ottenere l’appoggio politico richiesto – oppure nascondere e, dunque, tradire una convinzione per lui irrinunciabile. Benché in Shortall la Corte abbia opportunamente riconosciuto, nel solco di Tanase, la possibilità di ravvisare un dilemma di coscienza a prescindere dal rischio di una sanzione, essa ha erroneamente collocato tale conflitto in un momento successivo rispetto a quello in cui effettivamente sorge.

Alla luce di tali considerazioni, e a fronte dell’argomentazione dei ricorrenti contro l’utilità del proprio ricorso, la Corte avrebbe dovuto riconoscere, seguendo fino in fondo il precedente di Tanase, che subordinare la ricevibilità del ricorso all’avvenuta elezione o anche al conseguimento dell’appoggio politico necessario alla presentazione della candidatura avrebbe reso la protezione della libertà di coscienza meramente illusoria, compromettendone significativamente l’effettività.

A questo punto – e ricollegandosi al primo profilo di criticità – delle due l’una: o si richiede ai ricorrenti di aver già ottenuto l’appoggio politico necessario alla presentazione della candidatura – ma ciò non pare percorribile alla luce di quanto appena evidenziato – oppure si ammette, come sopra suggerito, che l’attiva partecipazione politica (di alcuni) dei ricorrenti costituisca una reasonable and convincing evidence del fatto che essi, in un futuro relativamente prossimo, potrebbero ottenere l’appoggio necessario alla presentazione della candidatura e, dunque, correre il rischio di essere soggetti all’applicazione della disposizione della Costituzione irlandese all’origine della violazione contestata.

Da ultimo, sia consentito rilevare un ulteriore profilo di criticità – nonché svolgere una ottimistica considerazione – con riguardo al richiamo, operato nella decisione qui commentata, alla dottrina del margine di apprezzamento che tanta applicazione ha avuto nella prassi della Corte EDU relativa, tra l’altro, al diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Nell’ambito di questa giurisprudenza, l’ampia discrezionalità riconosciuta allo Stato convenuto in forza di tale criterio interpretativo rileva nel momento in cui la Corte esamina se, nel caso di specie, la violazione contestata risulti necessaria al perseguimento di uno degli obiettivi legittimi tassativamente indicati dall’art. 9, par. 2, CEDU. Si tratta di un esame volto ad attestare la legittimità della violazione e che, pertanto, si colloca su un piano eminentemente sostanziale. Ne consegue che il riferimento al margine di apprezzamento operato in Shortall, benché sollecitato dall’intervento di terzo presentato dall’Ordo Iuris Institute for Legal Culture, non pare coerente con la natura della decisione in punto di ricevibilità.

Ciò detto, è sicuramente da salutare con favore l’affermazione della Corte secondo cui il richiamo, operato dallo Stato convenuto, all’esistenza di determinate tradizioni «cannot relieve it [the Contracting State] of its obligation to respect the rights and freedoms enshrined in the Convention and its Protocols» (par. 60). In considerazione del fatto che la definizione di un ampio margine di apprezzamento in materia di libertà religiosa ha condotto a una limitazione de facto del sindacato della Corte (v. per tutte S.A.S. v. France, cit.; sul punto il commento di Parolari), i riferimenti operati in Shortall al permanere degli obblighi convenzionali e alla centralità della supervisione della Corte sono particolarmente apprezzabili. In conclusione – e tornando al profilo su cui ci si è focalizzati in questa sede –, con la pronuncia Shortall la Corte sembra aver dimostrato un eccessivo formalismo che l’ha condotta a una nozione di vittima potenziale maggiormente ristretta rispetto a quella che emerge dalla sua precedente giurisprudenza in materia. A questo proposito, appare peraltro opportuno chiedersi se, ferma l’inammissibilità dell’actio popularis nel sistema CEDU (v. Pascale, pp. 170 ss. e Rossi su questo istituto nei sistemi, rispettivamente, africano e interamericano), non sia opportuna una quantomeno maggiore valorizzazione, anche nella giurisprudenza in materia di vittima potenziale, dell’esistenza di «question[s] of general interest» il cui esame costituisca l’occasione per specificare e rafforzare gli standards convenzionali e assuma, quindi, rilevanza a prescindere dall’esistenza di uno specifico interesse del ricorrente.

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