La reazione della Polonia alla condotta bielorussa: il rimedio peggio del male?
Aurora Rasi (Sapienza Università di Roma)
Più volte, negli ultimi mesi, la presidente della Commissione europea ha dichiarato che l’Unione è vittima di un attacco «ibrido» da parte della Bielorussia: quest’ultima attirerebbe sul proprio territorio, e poi al confine con la Polonia, vale a dire con l’Unione, persone desiderose di ottenere protezione in detto Stato, quindi le spingerebbe ad entrare in territorio polacco, con l’intenzione di creare un danno alla Polonia ed all’Unione nel suo insieme. La condotta bielorussa, ha specificato la presidente von der Leyen, materializzerebbe «a challenge to the whole of the EU» e, più precisamente, «the attempt of an authoritarian regime to try to destabilise its democratic neighbours».
La stampa e le organizzazioni internazionali intanto documentano la presenza di centinaia di migranti sul territorio bielorusso, al confine con la Polonia, schiacciati tra i due fronti: la Polonia non lascia che entrino, la Bielorussia non consente loro di allontanarsi dal confine. Documentata è pure la morte di diverse persone, provocata dalle severe condizioni climatiche nelle foreste al confine polacco-bielorusso, dalla mancanza di generi alimentari e, evidentemente, dalla insufficiente assistenza sanitaria. Per queste ed altre ragioni le Nazioni Unite chiedono a Bielorussia e Polonia di porre fine a questa situazione.
Pur rigettando l’accusa di invitare, per così dire, migranti sul proprio territorio, il presidente bielorusso ha detto assolutamente possibile («absolutely possibile») l’eventualità che l’esercito aiuti i migranti che già si trovino sul territorio bielorusso a raggiungere il confine con la Polonia: «[w]e are Slavs. We have hearts», ha invero sottolineato Lukashenko. Egli ha inoltre specificato che neppure in futuro la Bielorussia ostacolerà il passaggio dei migranti, rectius dei potenziali titolari del diritto alla protezione internazionale, che desiderino raggiungere l’Unione.
Dal canto suo la Polonia sta adottando misure assai drastiche. A settembre ha dichiarato lo stato di emergenza e, a tutt’oggi, continua ad ostacolare l’accesso al confine con la Bielorussia non solo ai media ed alle ONG, ma anche ai membri del Parlamento europeo e delle Nazioni Unite. Il 14 ottobre 2021 ha poi stabilito, per legge, la possibilità per la polizia di frontiera di respingere, sic et simpliciter, chiunque abbia attraversato illegalmente il confine, nonché la possibilità che le richieste di protezione presentate da chi sia entrato illegalmente in Polonia non siano neppure esaminate. Coerentemente, la Polonia continua ad impedire con molti mezzi, tra cui l’utilizzo di cannoni ad acqua e gas lacrimogeni, l’accesso al suo territorio, ed a respingere i migranti che fossero riusciti a raggiungerlo.
Non è agevole accertare i fatti, soprattutto nel pieno della crisi. E tuttavia le accuse formulate avverso la Bielorussia paiono verosimili. La stampa internazionale riporta varie testimonianze relative alle azioni di agenti bielorussi tese a indurre persone che si trovavano in Siria o in Iraq a dirigersi verso la Bielorussa quale tappa intermedia per accedere al territorio degli Stati membri dell’Unione, ed a supportarne il trasferimento financo avvalendosi della collaborazione di organizzazioni criminali dedite al traffico di esseri umani.
È difficile negare il carattere illecito di tali condotte.
Anzi tutto le condotte bielorusse, se provate sia fattualmente che con riguardo al loro elemento soggettivo, ben potrebbero ricadere tra quelle proibite dalla United Nations Convention against Transnational Organized Crime e, in particolar modo, dal suo Protocol against the Smuggling of Migrants by Land, Sea and Air, ambedue vincolanti per la Bielorussia. Non sembra invero possibile ritenere che l’obbligo per gli Stati di prevenire e reprimere penalmente lo smuggling dei migranti – ossia, ai sensi dell’art. 3 del protocollo, «the procurement, in order to obtain, directly or indirectly, a financial or other material benefit, of the illegal entry of a person into a State Party of which the person is not a national or a permanent resident» – da parte di privati non comporti, a maggior ragione, il divieto, per gli stessi Stati, di operare tali condotte attraverso i propri organi, per ottenere un qualche beneficio non necessariamente economico, ovvero di avvalersi dell’opera di trafficanti privati incrementando, così, i loro profitti economici. Come ha stabilito la Corte internazionale di giustizia in un caso riguardante peraltro la Convenzione sul genocidio, «[i]t would be paradoxical if States were […] under an obligation to prevent, so far as within their power, commission of [certain acts] by persons over whom they have a certain influence, but were not forbidden to commit such acts […]. In short, the obligation to prevent [a certain act] necessarily implies the prohibition of the commission of [the same act]».
Inoltre, l’azione di uno Stato che raccolga un gran numero di migranti nei loro Paesi di origine, che li porti sul proprio territorio e che li conduca al confine, spingendoli ad entrare nello Stato confinante, pur a costo di farlo illegalmente, potrebbe violare il generale principio del rispetto dell’autorità esclusiva di governo di ciascuno Stato – dunque anche dello Stato che subisce gli ingressi “assistiti”, per dir così – sul proprio territorio.
È dunque verosimile che la Bielorussia sia responsabile di un illecito internazionale. Tale illecito sarebbe peraltro peculiare giacché realizzato mediante l’utilizzo di uno strumento, l’essere umano, che è titolare di posizioni giuridiche soggettive al cui rispetto sarebbero tenuti tanto l’autore della condotta quanto, segnatamente, l’ente che ne risulti leso.
L’esistenza di condotte internazionalmente illecite potrebbe giustificare il ricorso alle contromisure. In particolar modo, potrebbe legittimare l’azione in contromisura della Polonia. E tuttavia, è bene chiarirlo sin da ora, non sembra che le azioni intraprese sinora dalla Polonia, e supra ricordate, possano ascriversi nella figura delle contromisure. Dunque, non sembra che la Polonia abbia agito in contromisura avverso l’illecito bielorusso.
Come è noto, le contromisure debbono dirigersi contro lo Stato autore dell’illecito. Espressamente, l’art. 49 degli Articoli sulla responsabilità internazionale degli Stati prevede che la contromisura è un’azione diretta «against a State which is responsible for an internationally wrongful act». Nel relativo commentario viene peraltro chiarito che «countermeasures may only be adopted against a State which is the author of the internationally wrongful act» (corsivo aggiunto): la lesione della situazione giuridica di «other third parties» potrebbe avvenire esclusivamente «incidentally».
Le azioni della Polonia non sono però dirette contro la Bielorussia. Tale non è il divieto di accesso per i giornalisti, le ONG, i parlamentari europei ed i funzionari delle Nazioni Unite alla fascia di territorio che si trova al confine con la Bielorussia. Né diretta contro la Bielorussia – e questo è il profilo più interessante – è la normativa adottata il 14 ottobre la quale, come supra solo accennato, modifica la legislazione sull’ingresso degli stranieri inserendo, all’art. 303b, la possibilità che qualsiasi straniero trattenuto immediatamente dopo aver attraversato illegalmente la frontiera possa essere ipso facto espulso dal comandante del posto di guardia, con la sola possibilità di impugnare tale decisione – ma, è bene specificare, senza alcun effetto sospensivo – dinanzi al superiore del corpo militare, il quale però non ha alcun obbligo di approfondire l’eventuale richiesta di protezione formulata dallo straniero. A ben vedere, la Bielorussia sembra lesa solo «incidentally», quasi fosse, in un certo senso, un «other third [State]», per riprendere le parole del commentario.
Non essendo sussumibile nella categoria delle contromisure, la eventuale contrarietà della condotta polacca rispetto al diritto internazionale non sarebbe in alcun modo sanata. Ed in effetti questo sembra proprio caso, giacché le azioni della Polonia paiono porsi in contrasto con il diritto internazionale per più d’una ragione. È opportuno esaminarne qualche d’una, senza pretesa di esaustività.
Anzi tutto, l’allontanamento coatto di individui, indipendentemente dal loro status di rifugiati, il loro confinamento nelle foreste gelate pur con il rischio, spesso avverato, di loro morte, ben potrebbe configurare un trattamento inumano e degradante vietato dall’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, se non addirittura, con riferimento alle persone che in quelle foreste hanno perso la vita, come una lesione dell’art. 2 della medesima Convenzione.
In tal senso sembra rilevante la risposta della Corte europea alle numerose richieste di misure cautelari formulate da migranti che si trovano proprio sul confine polacco-bielorusso. Invocando proprio gli articoli 2 e 3 della Convenzione, essi chiedono «legal assistance, material aid (in particular sustenance, medical care and sanitation), not to be removed from Poland, and international protection». La Corte, «where the applicants claimed to be in Poland and asked not to be pushed back to Belarus, […] ruled that the applicants should not be removed from Poland».
Peraltro, nel giudizio della condotta della Polonia potrebbe non avere alcun rilievo che gli individui lesi si trovassero già nel suo territorio o che stessero ancora tentando di accedervi dal fronte bielorusso. Come indica la giurisprudenza della Corte europea, una condotta posta in essere dagli organi di uno Stato parte sul proprio territorio, dunque anche nella propria zona di confine, mirante ad infliggere un trattamento vietato dalla Convenzione, sarebbe illecito pur se gli effetti della condotta venissero prodotti sul territorio di un altro Stato, parte o meno della Convenzione.
Inoltre, la condotta della Polonia pare ledere il diritto di chiedere asilo, tutelato dal diritto internazionale.
La circostanza che «[e]veryone has the right to seek […] in other countries asylum from persecution» è stabilita dall’art. 14 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.
A sostegno dell’art. 14, il Final Act of the Plenipotentiaries on the Status of Refugees and Stateless Persons, che introduce e contribuisce all’interpretazione della Convenzione sui rifugiati, raccomanda agli Stati che ne sono parte «to receive refugees in their territories». Allo stesso modo, la Dichiarazione delle Nazioni Unite sull’asilo territoriale, adottata dall’Assemblea generale con la risoluzione 2312(XXII) del 1967, prevede in via generale che i titolari del diritto di cui all’art. 14 della Dichiarazione universale non possano «be subject to measures such as rejection at the frontier or, if he has already entered the territory in which he seeks asylum, expulsion».
Indirettamente, la presenza di un diritto di chiedere asilo è confermata dal principio del non refoulement il quale, ai sensi dell’art. 33 della Convenzione sui rifugiati, proibisce di «expel or return (“refouler”) a refugee […] to the frontiers of territories where his life or freedom would be threatened on account of his race, religion, nationality, membership of a particular social group or political opinion». Per attuare tale principio è invero imprescindibile sapere se la persona che lo Stato si accingesse a respingere od espellere sia un rifugiato, vale a dire corra o meno rischi per i motivi specificati dalla normativa rilevante. Per farlo, non vi è altro modo che esaminare la sua domanda di asilo che, con tutta evidenza, egli deve poter formulare.
In tal senso è possibile interpretare il Parere sulla applicazione extraterritoriale del principio del non refoulement di cui alla Convenzione sui rifugiati rilasciato dall’UNHCR: «[t]he principle of non-refoulement as provided for in Article 33(1) of the 1951 Convention […] does mean […] that […] States will be required to grant individuals seeking international protection access to the territory and to fair and efficient asylum procedures».
Inoltre, il diritto di chiedere asilo è contemplato dalla Convenzione europea dei diritti umani. In particolare la Convenzione stabilisce l’obbligo, per gli Stati parte, di ricevere le domande di asilo allorché non vi fosse la certezza che, nello Stato verso cui stessero respingendo l’individuo, le domande di asilo vengano debitamente esaminate e sia garantito il non refoulement dei rifugiati.
Segnatamente, tale principio è stato affermato dalla Corte europea nel caso M.K. e altri c. Polonia, al termine del quale la Polonia è stata condannata in ragione dei respingimenti da questa compiuti, proprio verso la Bielorussa, senza garantire agli individui respinti l’accesso a procedure di esame delle loro richieste di asilo. In tale pronuncia la Corte, «unanimously, [recognizes] that there has been a violation of Article 3 of the Convention on account of the applicants being denied access to the asylum procedure». In particolare, gli attori, a sostegno della propria richiesta di proporre domanda di protezione alle autorità polacche, «raised arguments concerning the reasons for not considering Belarus to be a safe third country for them and why […] returning them to Belarus would put them at risk of “chain‑refoulement”». Lungi dall’essere argomenti pretestuosi, essi «were substantiated by the official statistics, which indicated that the asylum procedure in Belarus is not effective when it concerns Russian citizens». Pertanto la Corte stabiliva che «[t]he assessment of those claims should have been carried out by the Polish authorities acting in compliance with their procedural obligations under Article 3 of the Convention».
Sembra allora possibile affermare che non ci troviamo nell’ambito di un rapporto di responsabilità, composto da un atto illecito bielorusso e da una condotta polacca operata a titolo di contromisura. Ci troviamo, bensì, dinanzi a due condotte illecite e giuridicamente – sebbene non fattualmente – indipendenti. Ne consegue che non solo sarebbe possibile agire in contromisura avverso la Bielorussia, possibilità di cui si è già detto, ma che con contromisure si potrebbe agire anche avverso la Polonia.
Non unicamente gli Stati, avverso la condotta polacca potrebbe agire anche l’Unione europea: se non in contromisura ai sensi del diritto internazionale – ipotesi che implicherebbe un’analisi dei limiti del potere delle organizzazioni internazionali di agire in contromisura pure nei confronti dei propri Stati membri, la quale esula dall’oggetto del presente lavoro –, di sicuro ai sensi del diritto europeo.
L’art. 78 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea stabilisce la competenza dell’Unione in materia di asilo e include, tra i suoi obiettivi, il rispetto della Convenzione sui rifugiati. Espressamente, la disposizione prevede che «l’Unione sviluppa una politica comune in materia di asilo, di protezione sussidiaria e di protezione temporanea», e che «[d]etta politica deve essere conforme alla convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 e al protocollo del 31 gennaio 1967 relativi allo status dei rifugiati, e agli altri trattati pertinenti». In attuazione dell’art. 78 è stata adottata la direttiva 2011/95 la quale, come indicato nel preambolo, mira a garantire il rispetto, da parte degli Stati membri, della Convenzione sui rifugiati.
Lungi dal relegarla ad un ruolo marginale, la Corte di giustizia ha più volte garantito massima efficacia alla direttiva 2011/95. Ciò emerge, ad esempio, dal recente caso M., nel quale la Corte ha chiarito che nel sistema istituito dalla direttiva «la qualità di “rifugiato” […] dell’articolo 1, sezione A, della Convenzione di Ginevra, non dipende dal riconoscimento formale di tale qualità mediante la concessione dello “status di rifugiato”». Pertanto, chi soddisfacesse i requisiti materiali stabiliti dall’art. 1 della Convenzione sui rifugiati, cioè chi, «owing to well-founded fear of being persecuted […], is outside the country of his nationality and is unable or […] unwilling to avail himself of the protection of that country», andrebbe considerato, dagli Stati membri dell’Unione europea, un rifugiato finanche prima di varcare i confini della stessa Unione. Ed allora, prima ancora che questi entri nel territorio dell’Unione europea, in forza del diritto dell’Unione gli Stati membri sarebbero tenuti, nei loro eventuali rapporti con il rifugiato, a garantirgli il godimento di tutte le posizioni giuridiche che gli deriverebbero dal riconoscimento formale del relativo status tra cui, ad esempio, quelle derivanti dal principio del non refoulement. Va da sé che quelli che si instaurano ai confini esterni degli Stati dell’Unione sono proprio casi emblematici di tali eventuali rapporti.
Conseguenza di ciò è che dal diritto dell’Unione europea, ed in particolare dall’art. 78 del Trattato sul funzionamento e dalla direttiva 2011/95, deriverebbe il dovere degli Stati membri di consentire al presunto rifugiato di chiedere il riconoscimento formale del suo status, anche solo al fine di stabilire se egli abbia o meno diritto alle tutele che il diritto europeo gli accorderebbe.
Un’analoga argomentazione può essere formulata con riferimento agli individui che, in base alla direttiva 2011/95 ed alle normative nazionali che a questa danno attuazione, hanno diritto alla protezione sussidiaria. Invero, ai sensi dell’art. 2, lett. f), della direttiva, gli Stati membri debbono concedere protezione sussidiaria agli individui che non soddisfano i requisiti indicati dalla Convenzione sui rifugiati per potersi dire, appunto, rifugiati, ma nei cui confronti, nondimeno, «sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse[ro] nel paese di origine, […] correrebbe[ro] un rischio effettivo di subire un grave danno» come ad esempio, ai sensi dell’art. 15, «la condanna o l’esecuzione della pena di morte», «la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante».
Emerge dalla giurisprudenza della Corte di giustizia che lo status di avente diritto alla protezione sussidiaria, similmente allo status di rifugiato, prescinde dal suo riconoscimento formale (si vedano, ex multis, le sentenze M., Bundesrepublik Deutschland (Notion de “menaces graves et individuelles”) e Bilali). Ciò significa, in altre parole, che l’individuo avrebbe diritto alla protezione sussidiaria, ovunque si trovi, per il sol fatto di possedere i requisiti stabiliti dall’art. 2 della direttiva 2011/95, e non perché, o dal momento che, uno Stato membro li accerti.
Ne consegue che, per non violare l’obbligo di garantire la protezione sussidiaria a coloro che ne hanno diritto, derivante dall’art. 78 del Trattato sul funzionamento e dalla direttiva 2011/95, gli Stati membri debbono prima di tutto consentire, a tutti gli individui che lo vogliano, di presentare domanda di protezione sussidiaria. Solo in tal modo essi potranno discernere coloro i quali ricadono nella fattispecie di cui agli articoli 2, lett. f), e 15 della direttiva, da coloro i quali non siano invece in essa sussumibili.
Non garantendo né che i rifugiati possano presentare domanda di asilo, né che i titolari del diritto alla protezione sussidiaria possano presentare la relativa domanda, ma potendo anzi ostacolare l’esercizio di tali diritti, la normativa polacca del 14 ottobre pare allora porsi in contrasto con il diritto europeo. Ergo, la Polonia starebbe violando il diritto dell’Unione.
Come ogni violazione del diritto dell’Unione europea, anche la condotta polacca sarebbe perseguibile mediante il procedimento d’infrazione. Ai sensi degli articoli 258 e 259 del Trattato sul funzionamento, gli Stati membri e la Commissione potrebbero cioè chiedere alla Polonia di cessare la propria condotta e di conformarsi nuovamente al diritto europeo, nonché adire la Corte di giustizia domandandole di accertare l’illecito polacco. In base all’art. 260 del medesimo Trattato, oltre che appurare il carattere illecito della sua condotta, la Corte potrebbe condannare la Polonia al pagamento di una somma di denaro. Il mancato rispetto della sentenza della Corte sarebbe poi passibile di una nuova condanna per la Polonia.
Non che detta eventualità sia sconosciuta alle autorità polacche. Al contrario, nell’ambito di un diverso procedimento di infrazione, ed a fronte del mancato adempimento di una precedente pronuncia che appurava la violazione del diritto europeo in materia di indipendenza degli organi giurisdizionali e la obbligava a ripristinare una situazione conforme a diritto, la Polonia è stata invero condannata dalla Corte di giustizia al pagamento della cifra record di un milione di euro al giorno sino ad avvenuto adeguamento.
La condotta bielorussa, che, lo si ricorda, si assume essere quella descritta dalla Commissione europea, e di cui si presume il carattere illecito, sembrerebbe avere costretto la Polonia in una situazione a dir poco paradossale: condannata a scegliere se subirla o se subire le conseguenze, forse anche più gravose, della reazione ad essa.
Vero è che, in una simile situazione, lo Stato direttamente leso non può respingere direttamente l’illecito giacché, per farlo, dovrebbe sic et simpliciter respingere gli esseri umani che ne sono strumento: così facendo, però, violerebbe sia il diritto internazionale che il diritto dell’Unione europea.
Anche vero è che tale Stato si potrebbe trovare a rispondere della sua condotta dinanzi a molteplici organi giurisdizionali: la Corte di giustizia dell’Unione e la Corte europea dei diritti dell’uomo in primis, le quali potrebbero essere adite da altri Stati, dalle Istituzioni europee e finanche dagli individui che di tale condotta hanno subito le conseguenze materiali.
Da ultimo, è vero che la responsabilità dello Stato autore della prima condotta illecita sia invocabile con più difficoltà, non essendo la Bielorussia parte né dell’Unione europea né della Convenzione europea sui diritti umani.
Non è vero, però, che nulla di diverso poteva essere fatto. Non è vero, per dir meglio, che il diritto internazionale ed il diritto dell’Unione precludevano alla Polonia qualsiasi forma di reazione. Occorreva identificare delle azioni che, dirigendosi direttamente ed unicamente contro la Bielorussia, tendessero a porre i costi dell’illecito in capo a questa, e non, invece, in capo agli individui che dell’illecito erano incolpevole strumento. Azioni che avessero l’obiettivo di «to target individuals and entities organising or contributing to activities by the Lukashenko regime that facilitate illegal crossing of the EU’s external borders», per esempio. Identificarle non era un’operazione difficile. Bastava guardare alle azioni intraprese contro la Bielorussia dal Regno Unito, dagli Stati Uniti, o più semplicemente dall’Unione europea. Quest’ultima, da ultimo con il Regolamento di esecuzione 2021/2124 del 2 dicembre, ha imposto sanzioni economiche e restrizioni ai viaggi nei confronti di individui facenti parte dell’apparato statale bielorusso, tra cui comandanti del corpo di polizia di frontiera e giudici della Corte suprema, nonché di persone giuridiche ad esso fortemente collegate, come compagnie aeree ed intermediari di viaggio. Qualora non le avesse ritenute sufficienti, è ragionevole sostenere che la Polonia avrebbe potuto, in qualità di Stato direttamente leso, adottare sanzioni simili ma più severe, o di più ampia portata, sino, forse, a riuscire a neutralizzare la condotta bielorussa rendendola non più conveniente. Ma ha scelto di agire altrimenti.
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