Stickydiritto dell'Unione europea

LA CORTE DI GIUSTIZIA DICHIARA L’UNGHERIA INADEMPIENTE PER LA LEGISLAZIONE «STOP SOROS»: MA È DAVVERO L’UNICA RESPONSABILE?

Chiara Scissa (Scuola Superiore Sant’Anna)

1. Il 16 novembre scorso, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (Grande Sezione) ha, nuovamente, «condannato» l’Ungheria per violazioni del diritto dell’Unione in materia di migrazione e asilo. Il caso (C‑821/19) muove da un ricorso proposto dalla Commissione europea in esito a una procedura di infrazione avviata contro il governo ungherese nel luglio 2018 a causa delle modifiche introdotte nella legislazione nazionale sul diritto d’asilo nel corso dello stesso anno. Tali modifiche sono altresì conosciute come legislazione «Stop Soros», in quanto approvate all’indomani di una campagna denigratoria nei confronti di George Soros, cittadino americano di origine ungherese e fondatore della organizzazione non-governativa Open Society Foundation, accusato dal Presidente Orbán di incoraggiare l’immigrazione massiccia e irregolare in Ungheria.

La Corte ha trovato la legislazione ungherese in violazione della direttiva 2013/32 (cd. direttiva procedure), nonché della direttiva 2013/33 (cd. direttiva accoglienza) per tre ordini di motivi. Innanzitutto, l’Ungheria ha introdotto un nuovo motivo di inammissibilità delle domande di protezione internazionale, che si aggiunge ai motivi tassativamente previsti dalla direttiva 2013/32; in secondo luogo, ha criminalizzato qualsivoglia attività di assistenza ai richiedenti protezione; e, infine, ha previsto misure restrittive nei confronti delle persone condannate o anche semplicemente accusate del reato di assistenza umanitaria, con conseguenze giuridiche che si riverberano anche sulla tutela dei diritti fondamentali dei richiedenti protezione internazionale.

2. Effettivamente, la nuova versione dell’art. 51, par. 2, lett. f), della legge n. LXXX del 2007 sul diritto di asilo inserisce un nuovo motivo di inammissibilità delle domande di asilo secondo cui una domanda è inammissibile qualora il richiedente sia arrivato in Ungheria attraversando un Paese terzo in cui non è esposto a persecuzioni ovvero al rischio di subire un danno grave o in cui è garantito un adeguato livello di protezione. Deve trattarsi, quindi, di un Paese in cui il richiedente avrebbe potuto (e dovuto, secondo l’interpretazione ungherese) chiedere protezione. L’Ungheria ha sostenuto che l’art. 33 della direttiva 2013/32, disciplinante i criteri di inammissibilità, non affrontasse adeguatamente il problema posto dal sovraccarico del sistema d’asilo causato dalle domande ingiustificate. Secondo l’Ungheria, il motivo di inammissibilità introdotto sarebbe sussumibile nella presunzione di sicurezza del Paese terzo già contenuta nella direttiva procedure, limitandosi ad adattarla al contesto dell’afflusso massiccio mediante la previsione di un link ulteriore derivante dal mero attraversamento delle frontiere di un Paese terzo nel tragitto migratorio che conduce in territorio europeo. A tal riguardo, la Corte ha rinnovato quanto già affermato in due precedenti pronunce (disponibili qui e qui) sulla conformità al diritto dell’Unione dell’art. 51, par. 2, lett. f), ossia che la direttiva procedure fornisce un elenco tassativo di motivi sulla cui base una domanda di protezione internazionale può essere giudicata inammissibile. Contrariamente a quanto affermato dal governo ungherese, la disposizione in oggetto non è assimilabile al criterio di inammissibilità del Paese terzo sicuro, in quanto questo prevede l’esistenza di un legame tra il richiedente e il Paese di transito secondo il quale sarebbe ragionevole per detta persona recarsi in tale Paese; legame che non può essere ricostruito a partire dal mero attraversamento dello stesso. La Corte ha dichiarato pertanto la violazione dell’art. 33, par. 2, della direttiva 2013/32 da parte dell’Ungheria.

Con il secondo motivo, la Commissione ha posto all’attenzione della Corte l’art. 353/A del codice penale ungherese che, nella sua versione attuale, reputa passibile di pena detentiva chiunque svolga attività organizzative dirette, rispettivamente, a consentire l’avvio di una procedura di asilo in Ungheria da parte di una persona che non sia, o non abbia fondato timore di essere, perseguitata per motivi di razza, cittadinanza, appartenenza a un determinato gruppo sociale, opinioni religiose e politiche; oppure ad aiutare uno straniero irregolare ad ottenere un permesso di soggiorno. La nuova formulazione prevede la reclusione fino ad un anno per chiunque svolga tali attività in modo continuativo o che fornisca risorse materiali che consentano di commettere i reati summenzionati. Ad essere suscettibile di tale pena è, altresì, chiunque svolga tali attività con l’intento di ottenere un guadagno economico, così come chiunque operi nelle vicinanze della frontiera esterna. Il codice penale ungherese individua, in maniera non esaustiva, alcune attività emblematiche passibili di pena, tra cui il monitoraggio delle frontiere e l’elaborazione o la diffusione di documenti informativi. Secondo l’Ungheria, l’obiettivo della disposizione in oggetto è quello di reprimere il favoreggiamento dell’immigrazione irregolare e il ricorso abusivo alla procedura di asilo.

Nell’analizzare la disposizione, la Corte ha rilevato che la norma si presta a punire qualunque sostegno offerto per presentare o inoltrare una domanda di protezione internazionale e non solamente i comportamenti fraudolenti (ivi, pt. 117). Le attività delle organizzazioni che forniscono diverse forme di assistenza ai richiedenti protezione richiedono, per loro natura, un certo grado di coordinamento, organizzazione operativa, risorse umane e finanziarie finalizzati alla realizzazione di un obiettivo concordato e, proprio per tali caratteristiche, possono rientrare nell’ambito di applicazione della (indeterminata) disposizione penale. Inoltre, i giudici hanno sostenuto che la criminalizzazione dell’assistenza prestata ai richiedenti comporti una compressione di numerosi diritti fondamentali, tra i quali il diritto ad avere accesso ad informazioni concernenti la procedura d’asilo, all’assistenza e rappresentanza legali in ogni fase della procedura d’asilo, così come il diritto a ricorso effettivo e a comunicare con i propri legali, con UNHCR e altre organizzazioni per la tutela dei richiedenti protezione. Pertanto, la Corte di Giustizia ha concluso che detta disposizione ha senza dubbio un effetto fortemente dissuasivo, tale da prevenire qualsivoglia sostegno ai richiedenti protezione internazionale, anche qualora tale assistenza miri unicamente a consentire l’esercizio del diritto fondamentale di richiedere asilo, quale garantito dai Trattati istitutivi dell’Unione e dal diritto derivato (ivi, pt. 108 e ss.). La Corte ha escluso, infine, che il sostegno offerto allo straniero per presentare una domanda di protezione possa essere paragonato ad un’attività di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, come altresì esplicitato nella decisione quadro 2002/946, il cui art. 6 afferma che la sua applicazione «[…] non pregiudica la protezione concessa ai rifugiati e ai richiedenti asilo conformemente al diritto internazionale relativo ai rifugiati o ad altri strumenti internazionali sui diritti dell’uomo, e in particolare l’osservanza da parte degli Stati Membri delle loro obbligazioni internazionali […]». Allo stesso modo, la direttiva 2002/90, volta a definire il favoreggiamento dell’ingresso, del transito e del soggiorno illegali, esclude la sanzione per chi presta assistenza umanitaria.

Infine, la Corte è stata chiamata a decidere sulla conformità con le norme del diritto UE dell’art. 46/F della legge n. XXXIV del 1994, la quale consente alle forze di polizia di impedire a chiunque sia sottoposto a procedimento penale, inter alia, per i reati di attraversamento illegale delle frontiere o favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, entrambi disciplinati dall’art. 353/A del codice penale, di avvicinarsi alla frontiera esterna ungherese o di imporre che tale persona lasci detta zona qualora si trovi nella stessa. La Corte ha concluso che l’art. 46/F ha l’effetto di limitare i diritti fondamentali dei richiedenti protezione internazionale in stato di trattenimento alla frontiera, impedendo loro di comunicare con le organizzazioni che offrono assistenza, dichiarando quindi l’Ungheria inadempiente per tutte e tre le infrazioni all’origine della procedura.

3. A margine della sentenza in oggetto, è importante richiamare il contenuto delle manifeste violazioni del diritto UE e dei diritti umani dei richiedenti protezione internazionale da parte dell’Ungheria nel contesto di riferimento. Da un lato, infatti, tali inadempienze rientrano nella crisi dello stato di diritto in cui versa l’Ungheria, secondo Rosanò, da più di un decennio. Dall’altro, esse si inseriscono in una cornice giuridica europea, da questo punto di vista, carente che finisce per favorire, incoraggiare, o non reprimere sufficientemente tali episodi.

Effettivamente, è opportuno ricordare che il concetto di Paese terzo sicuro, osteggiato sin dalle sue origini, è ben radicato sia all’interno del diritto nazionale della maggior parte degli Stati Membri sia nel diritto UE. Introdotte nella prima direttiva procedure del 2005 e mantenute nella sua rifusione del 2013, le diverse articolazioni della nozione rischiano, come si dirà, di negare persino la valutazione nel merito della protezione internazionale e di legittimare l’allontanamento del richiedente, trasferendo quindi verso uno Stato extra-UE non solo il richiedente stesso ma anche la responsabilità della sua protezione. Questo avviene se i richiedenti provengono da uno Stato di origine presumibilmente sicuro e possono pertanto farvi ritorno (Paese di origine sicuro, art. 36 direttiva 2013/32); perché godono o possono godere di adeguata tutela in uno Stato terzo (Paese di primo asilo, art. 35 ivi); o perché, come nel caso della sentenza in oggetto, abbiano transitato in uno Stato terzo considerato sicuro verso cui possono ritornare (Paese terzo sicuro, art. 38 ivi). È quindi essenziale sottolineare che l’applicazione della presunzione del Paese terzo sicuro, nelle sue differenti accezioni, permetterebbe di spostare radicalmente il focus dalla valutazione del bisogno di protezione internazionale del richiedente alla possibilità di costui di trovare adeguata assistenza in un Paese terzo. Ai fini della suddetta nozione, in altri termini, non sembrerebbe importante stabilire se e quali cause abbiano costretto una persona a fuggire dal proprio Paese, bensì verificare se un altro Stato può prendersene carico.

4. Nello specifico, ai sensi del diritto UE, uno Stato terzo può essere considerato sicuro se, cumulativamente, non sussiste il rischio di persecuzione e di danno grave, è rispettato il principio di non respingimento ed esiste la possibilità di ricevere protezione in conformità con la Convenzione di Ginevra (art. 38 direttiva 2013/32). Pertanto, il richiedente che provenga o sia transitato per un Paese terzo presumibilmente sicuro sarà soggetto ad una procedura differente rispetto a quella ordinaria che si caratterizza, innanzitutto, per l’onere gravante sul richiedente di dover dimostrare la sussistenza di gravi motivi per ritenere che il Paese designato quale sicuro non sia tale in relazione alla sua individuale vulnerabilità. In secondo luogo, l’attraversamento di un Paese terzo sicuro sarebbe sufficiente a dichiarare l’inammissibilità della sua domanda di protezione internazionale e giustificherebbe pertanto l’applicazione della procedura accelerata in luogo di quella ordinaria, restringendo significativamente i tempi e, con essi, la possibilità di eseguire un esame approfondito del caso individuale. In virtù di tali criticità, l’utilizzo delle nozioni di Paese terzo sicuro è stato notevolmente criticato sia dalla dottrina che dalle organizzazioni preposte alla tutela dei richiedenti protezione internazionale. Quel che alcuni autori contestano a tale nozione, oltre ai punti evidenziati, è il fatto che la sicurezza di uno Stato venga misurata in base alla «safety for the majority» dei richiedenti protezione e non presti quindi attenzione ai singoli casi.  Martenson e McCarthy, ad esempio, sottolineano che «such a broad approach contains the danger of disregarding individual cases of persecution. The majority position will often fail to take account of complex human rights situations and result in the denial of any persecution through incredulity» (corsivo aggiunto). Mentre Goodwin-Gill, interrogandosi sul punto, afferma che «principles tell us that every case needs consideration on its particular facts. How can we be sufficiently sure that even the most respectable and reputable of regimes has not, just this once, produced a refugee? None of our societies is that pure» (corsivo aggiunto).

5. Al momento, 22 Stati Membri hanno adottato una propria lista di Paesi di origine sicuri, per un totale di 61 Stati sicuri, tra cui Ucraina, Turchia, Pakistan, India e Nigeria. Nonostante l’applicazione della procedura accelerata sulla base della nazionalità, come ha già chiarito la Corte, non costituisca di per sé una discriminazione, a condizione che essa sia conforme ai principi e alle garanzie stabiliti nella direttiva procedure, è importante notare la grande disomogeneità che accompagna tali criteri, la quale riguarda non solo il loro recepimento, ma anche le modalità di trasposizione così come la scelta o l’interpretazione dei criteri di selezione. A parere di chi scrive, appare evidente la natura tutt’altro che obiettiva su cui tale selezione viene operata, circostanza che, secondo Venturi, aggrava il rischio che tale selezione sia «fondata su considerazioni che non attengono alla verifica dell’effettivo rispetto dei diritti umani nei Paesi di origine, bensì a valutazioni di politica di gestione (rectius, contenimento) dei flussi migratori».

A titolo emblematico, si ricorda solamente che tra Federazione Russa e Ucraina è attualmente in corso un conflitto armato, con parte dell’Ucraina occupata dalle forze russe, per cui risulta arduo comprendere su quali basi Austria, Estonia, Francia, Grecia, Italia, Lussemburgo e Olanda abbiano fondato la loro decisione di considerare tutto il territorio ucraino come sicuro.

In questo contesto, preme ricordare che in Ilias e Ahmed c. Ungheria, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha chiarito che l’indagine circa la sicurezza dello Stato terzo in cui il richiedente protezione internazionale dovrebbe essere rinviato deve essere condotta in modo approfondito e aggiornato e deve considerare l’effettiva accessibilità e affidabilità delle procedure d’asilo nazionali anche nella prassi, non essendo sufficiente la mera esistenza di garanzie presenti a livello nazionale o derivanti da obblighi sovranazionali (ivi, par. 141, qui un commento). Recentemente, la decisione della Grecia di considerare la Turchia come Paese terzo sicuro ha sollevato molte critiche. Secondo due giudici dissenzienti del Consiglio di Stato greco, la Turchia non può considerarsi sicura per i richiedenti protezione internazionale, nel caso di specie di origine siriana, in quanto in Turchia si è verificato un colpo di Stato (ironicamente, due giorni dopo la proposta della Commissione di adottare una lista europea di Paesi terzi sicuri). Pertanto, tale Stato non offrirebbe un’adeguata protezione né de iure, in quanto mantiene la riserva geografica limitata al continente europeo ai sensi della Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato, né de facto. In questa sede si aggiunge la tensione al confine greco-turco culminata con sistematici respingimenti e sospensione della procedura di asilo in Grecia, il fallimento dell’«accordo» tra Unione europea e Turchia siglato nel 2016 e le innumerevoli condanne per gravi violazioni di diritti umani non solo verso i migranti, ma anche verso i propri cittadini.

6. Al fine di favorire l’armonizzazione nell’uso e nell’interpretazione della nozione, nella sua proposta di revisione del 2016, la Commissione proponeva innanzitutto di trasformare la direttiva procedure in un regolamento e di rendere obbligatoria l’applicazione dei criteri di Paese terzo sicuro come motivo di inammissibilità (per alcuni commenti, qui e qui). Inoltre, suggeriva di sostituire gli elenchi nazionali dei Paesi sicuri con elenchi europei (tra cui figuravano Albania, Bosnia-Erzegovina, Nord Macedonia, Kosovo, Montenegro, Serbia e Turchia). In aggiunta, la proposta di riforma del regolamento 604/2013 (cd. Dublino III) introduceva l’obbligo per gli Stati Membri di verificare l’inammissibilità di una domanda di protezione internazionale proprio in virtù della provenienza del richiedente da un Paese terzo sicuro ancora prima di applicare i criteri per determinare lo Stato Membro competente ai sensi del regolamento (ivi, art. 8, par. 5). In ultimo, non certo per importanza, la Commissione rendeva ancor meno stringenti i criteri delineanti un Paese terzo come sicuro. Se nella direttiva 2013/32 era essenziale che lo Stato in questione avesse, quantomeno, ratificato la Convenzione di Ginevra, nella proposta di modifica era semplicemente previsto che vi fosse protezione sufficiente (ivi, art. 44, par. 2), ponendo a rischio le garanzie sostanziali e procedurali del diritto d’asilo. Come sottolineato da ASGI, la proposta di regolamento configurava il semplice transito del richiedente come prova della sussistenza di un legame con un Paese terzo (art. 45, par. 3, lett. a) ed estendeva l’applicazione del concetto di Paese terzo sicuro perfino ai minori stranieri non accompagnati (ivi, par. 5).

7. Tali proposte di revisione sono state ulteriormente modificate dal pacchetto di riforme che compongono il Nuovo Patto sulla Migrazione e l’Asilo, lanciato dalla Commissione il 23 settembre 2020. La proposta modificata di regolamento che stabilisce una procedura comune di protezione internazionale nell’Unione e abroga la direttiva 2013/32 (COM(2020) 611 final) prevede un’unica procedura di asilo e di rimpatrio da effettuare alla frontiera esterna per valutare rapidamente l’infondatezza o l’inammissibilità di una domanda di protezione internazionale, al fine di rimpatriare prontamente chi non ha diritto a restare. La proposta di regolamento conferma la possibilità per gli Stati Membri, già prevista all’art. 43 della direttiva procedure attualmente in vigore, di imporre ai richiedenti di rimanere alla frontiera esterna o in una zona di transito durante tale valutazione. È bene ricordare che il trattamento dei richiedenti protezione in questi luoghi è stato oggetto di sentenze da parte della Corte di Giustizia. Non da ultimo, i giudici di Lussemburgo hanno «condannato» l’Ungheria per molteplici violazioni del diritto UE presso le zone di transito di Röszke e Tompa al confine con la Serbia. Unitamente alle innumerevoli evidenze sull’uso di violenza fisica e sulla perpetrazione di respingimenti abusivi alla frontiera da parte delle autorità austriache, italiane, slovene, croate, ungheresi e bulgare,  ciò conferma, come affermato da Celoria, che le frontiere dell’Unione siano «il luogo per eccellenza in cui l’attuazione di procedure (spesso accelerate) di asilo o di respingimento disciplinate dal diritto UE si confonde con il ricorso a prassi informali e prive di basi legali, che non di rado comportano il trattenimento de facto».  

Tuttavia, la procedura di frontiera si renderebbe necessaria, secondo la Commissione, per «garantire un processo decisionale efficace e di elevata qualità […]» e fornire protezione tramite «procedure più semplici, più chiare e più brevi, oltre a garanzie procedurali e a strumenti adeguati per rispondere ad eventuali usi strumentali delle procedure di asilo e impedire gli spostamenti non autorizzati». Ironicamente, è la stessa motivazione utilizzata dall’Ungheria per giustificare un’implementazione, giudicata non conforme, del concetto di Paese terzo sicuro. Si evince, pertanto, un’evidente convergenza tra l’approccio securitario alla base delle proposte legislative della Commissione nel 2016 e quello adottato dal governo ungherese nel 2018.

La Commissione sostiene, inoltre, che se il Paese di provenienza è considerato Paese di origine sicuro o Paese terzo sicuro per il richiedente, lo Stato Membro è tenuto ad applicare la procedura d’esame accelerata o la procedura di inammissibilità. In altri termini, se una domanda è rigettata perché inammissibile sulla base del concetto di Stato terzo sicuro, tale domanda non verrà esaminata nel merito. Inoltre, la proposta di regolamento aggiunge un ulteriore motivo per ricorrere alla procedura accelerata da utilizzare quando il richiedente proviene da un Paese terzo verso cui il riconoscimento di uno status di protezione è inferiore al 20% e, pertanto, è probabile che la sua domanda sia infondata.

Altresì, la proposta di regolamento che introduce accertamenti nei confronti dei cittadini di Paesi terzi alle frontiere esterne prevede che le autorità che effettuano lo screening pre-ingresso dei richiedenti tengano conto di tutti gli elementi che possano prima facie rinviarli alla procedura accelerata o di frontiera prevista dalla proposta modificata di regolamento procedure (art. 14, par. 2). Per come concepito, tale screening sembra essere esplicitamente volto a snellire la procedura ordinaria di asilo utilizzando, tuttavia, metodi tutt’altro che chiari. Come sottolineato da Vedsted-Hansen, la Commissione non specifica «[…] which types of information should be considered relevant ‘at first sight’ for referral into the various asylum procedures, nor is there any stipulation as to how such information is to be collected and verified. Against this background it is hard to avoid the impression that information may be sought, collected and reported during the pre-screening at external borders that will de facto become decisive to the examination of applicants’ need for protection despite the absence of such legal clarity and procedural safeguards».

8. A parere di chi scrive, da questa breve disamina è possibile cogliere come i criteri di Paese terzo sicuro e affini si prestino a contrarre i diritti fondamentali dei richiedenti protezione internazionale e come il Nuovo Patto non sembri ridurre il potenziale di tale rischio che, anzi, appare amplificarlo. Ciò si accompagna ad una politica europea d’asilo cieca di fronte alle drammatiche violazioni di diritti umani attualmente in corso tra ed entro i confini dell’Unione e di Stati Membri che derogano sempre più la responsabilità della protezione internazionale a Stati terzi (ad esempio, qui il caso danese e qui un approfondimento sui respingimenti sulla rotta balcanica). In tali circostanze, l’espressione «Un’Europa insicura circondata da Paesi sicuri» assume connotati ancora più amari.

In quest’ottica, la violazione ungherese del Sistema Europeo Comune di Asilo è certamente da condannare ma risulta ben prevedibile in quanto si inscrive perfettamente nell’ottica securitaria che l’Unione stessa ha adottato e promuove sia nel diritto vigente che nei diversi pacchetti di riforme avanzati dal 2013 ad oggi.

Prevedere una lista, seppur tassativa, di criteri per cui una domanda di protezione internazionale può essere giudicata inammissibile in assenza di un’adeguata valutazione individuale e legittimare il rimpatrio verso paesi considerati discrezionalmente sicuri da alcuni Stati Membri e non da altri in virtù di, da un lato, definizioni sommarie e poco tutelanti e, dall’altro, di motivazioni di carattere geopolitico e di interesse nazionale, non possono fare altro che alimentare quel sentimento sovranista e anti-migranti tanto caro al governo ungherese che, di conseguenza, ha tentato di trarne vantaggio. Il tentativo di rendere obbligatoria l’adozione delle nozioni di Paese terzo sicuro e l’applicazione a macchia d’olio di procedure accelerate alla frontiera mal si conciliano con il pieno rispetto e implementazione dei diritti fondamentali dei migranti, tra cui il diritto che la propria domanda di protezione internazionale venga valutata adeguatamente e tenendo in seria considerazione sia le condizioni del Paese di origine sia delle circostanze di personale vulnerabilità. In questo quadro, non sembra sufficiente ritenere semplicemente non opportuna l’accelerazione dell’esame della domanda in caso di cambiamenti significativi nel Paese terzo di provenienza (COM(2020) 611 final, p. 27), in quanto questi potrebbero di per sé dare adito alla protezione internazionale e, in aggiunta, impattare diversamente sul bisogno di protezione del singolo. Soprattutto in questi casi, quindi, si dovrebbe impedire l’applicazione della nozione di Paese terzo sicuro in quanto non conforme al diritto alla protezione internazionale così come statuito nella direttiva 2011/95.

Similmente, non appare sufficiente che la Commissione escluda l’applicabilità della procedura accelerata al richiedente appartenente ad una particolare categoria di persone (ivi, p. 22) esposte ad uno specifico rischio di persecuzione. Così facendo, infatti, potrebbe essere posta in ombra la ricerca, parimenti importante, del rischio di danno grave alla base dello status di protezione sussidiaria, così come delle particolari cause di vulnerabilità che possono contribuire a sostanziare il bisogno di protezione internazionale dei richiedenti. Inoltre, da un punto di vista procedurale, risulta arduo immaginare in che modo tali specifici rischi di persecuzione e/o di danno grave possano essere immediatamente identificati alla frontiera in assenza di un esame approfondito ed individuale delle circostanze in cui si trova il richiedente.   

Previous post

Cronaca di una decisione di inammissibilità annunciata: la petizione contro il cambiamento climatico Sacchi et al. c. Argentina et al. non supera il vaglio del Comitato sui diritti del fanciullo

Next post

La «restaurazione» del giudice penale e la «garanzia» della Consulta: in margine alle ordinanze n. 216 e n. 217 del 2021

The Author

Chiara Scissa

Chiara Scissa

No Comment

Leave a reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *