L’“ADATTAMENTO” DEL DIRITTO INTERNAZIONALE AI PRINCIPI COMUNI AGLI ORDINAMENTI INTERNI E I SUOI LIMITI
Donato Greco (Università di Napoli “Federico II”)
1.Queste pagine raccolgono alcune riflessioni preliminari sui principi generali di diritto sollecitate dalla progressiva pubblicazione dei lavori che la Commissione del diritto internazionale (CDI) ha deciso di dedicare a tale fonte giuridica, e alle incertezze che ancora l’avvolgono. Il seminario su «Adattamento del diritto internazionale al diritto interno?» è stato l’occasione per restringere il campo d’indagine su di uno specifico punto emerso, con particolare evidenza, nel secondo rapporto del Relatore speciale Vazquez-Bermúdez. Ci si riferisce all’idea per cui la trasposizione dei principi comuni ai sistemi giuridici interni nel diritto internazionale incontri un limite nella compatibilità con i principi fondamentali di questo ordinamento (cfr. conclusione n. 6).
Consci della difficoltà di trattare un tema attorno al quale è fiorita una produzione sconfinata nello spazio di un blog post, ci si limiterà qui ad offrire alcuni spunti per una rilettura dell’art. 38, par. 1, lett. c), dello Statuto della Corte internazionale di giustizia (CIG) in chiave di norma di «adattamento» del diritto internazionale agli ordinamenti interni, per poi mettere in luce natura e limiti di tale relazione. Nonostante i lavori della CDI, invero non senza difficoltà, cerchino di ricondurre nel campo di applicazione di questa disposizione anche i principi generali sorti nell’ordinamento internazionale (cfr. conclusione n. 3), l’analisi si incentrerà esclusivamente sui principi comuni in foro domestico, poiché in tale categoria è implicita l’idea di un’integrazione del diritto internazionale da parte dei sistemi giuridici interni (Bjorge, p. 534).
2. Domandarsi se esistano ipotesi in cui il diritto internazionale si “adatti” al diritto interno potrebbe forse sembrare un interrogativo insolito, il quale, in realtà, sottende una prospettiva d’indagine “rovesciata” sui rapporti tra i due ordinamenti in parte già percorsa in studi più risalenti. La dottrina del primo Novecento, infatti, aveva evidenziato che il diritto internazionale, al pari degli altri sistemi giuridici, non abbraccia una visione solipsistica, laddove, invece, variamente mostra di “riferirsi” e “prendere in considerazione” l’esistenza degli ordinamenti statali. Per descrivere tale relazione, tuttavia, al concetto di “adattamento” sono stati tradizionalmente preferiti, di volta in volta, quelli di “delegazione”, “rinvio” o “presupposizione” (rispettivamente: Kelsen, General Theory of Law and State, Harvard University Press, Cambridge, 1945, p. 348 ss.; Anzilotti, Corso di diritto internazionale (Ad uso degli studenti dell’Università di Roma), I. Introduzione – Teorie generali [1912], Roma, Athenaeum, 19283, pp. 56-61; Romano, Corso di diritto internazionale [1926], Cedam, Padova, 19292, p. 46). Questa scelta terminologica, in favore di categorie diverse da quella di “adattamento”, in sé non inficia la possibilità di ricorrere a tale nozione, ma può essere letta come un indice della non perfetta simmetria tra il modo in cui il diritto internazionale si rivolge agli ordinamenti interi e l’ipotesi inversa.
Pertanto, di adattamento del diritto internazionale al diritto interno crediamo possa legittimamente parlarsi in questa sede, tenendo però conto della non piena reciprocità che caratterizza il rapporto tra i due ordinamenti. La proposta di rileggere l’art. 38, par. 1, lett. c), dello Statuto della CIG si muoverà entro questo preciso orizzonte.
3. La natura dell’art. 38, par. 1, lett. c), ha nel tempo alimentato un fervido dibattito. Sotto l’influenza della dottrina internazional-privatistica, coltivata dalla maggioranza dei pubblicisti (in particolar modo italiani), per la quale il coordinamento tra ordinamenti giuridici costituisce una questione identitaria, in letteratura, talvolta, è stata avanzata la tesi secondo cui la disposizione configuri un rinvio agli ordinamenti interni. Non essendo possibile discutere analiticamente in questa sede le diverse soluzioni prospettate, ci si limita a segnalare quelle più rappresentative.
In questo quadro un primo gruppo di autori ha fatto ricorso al modello del rinvio materiale (o ricettizio): l’art. 38, par. 1, lett. c), autorizzerebbe il giudice a recepire i principi comuni in foro domestico, di cui intendesse fare applicazione, direttamente nella sentenza internazionale, la quale, pertanto, acquisirebbe carattere dispositivo più che dichiarativo del diritto esistente (Anzilotti, op. cit., p. 107; Morelli, op. cit., p. 46; Brierly, pp. 77-78; Heller, Die Souveränität. Ein Beitrag zur Theorie des Staats- und Völkerrechts, de Gruyter, Berlin-Leipzig, 1927, p. 139; Sereni, Principî generali di diritto e processo internazionale, Giuffrè, Milano, 1955, pp. 8-10). In alternativa, ma sempre nell’ambito dello stesso modello, è stata avanzata l’idea per cui tali principi sarebbero stati recepiti «in blocco» nella disposizione dello Statuto che li evoca (Salvioli, “La Corte permanente di giustizia internazionale”, in Rivista di diritto internazionale, 1923, p. 11 ss., p. 450 ss. e 1924, p. 272 ss., p. 283, nt. 1). Se tale accorgimento ha il merito di riconoscere i principi come fonte formale, in via generale e preventiva rispetto all’emanazione della sentenza, è capace di far ciò al costo di assorbirli nella norma (convenzionale) di rinvio, circoscrivendone pertanto l’efficacia alle parti che hanno ratificato lo Statuto della CIG.
Più di recente vi è chi ha letto nell’art. 38, par. 1, lett. c), un rinvio formale, in virtù del quale una fonte normativa estranea all’ordinamento acquisisce al suo interno un rilievo giuridico che altrimenti non avrebbe (Rasi, “Lo sviluppo dei principi generali di diritto nel tempo”, in Rivista di diritto internazionale, 2020, p. 959 ss., p. 987). Nonostante, a nostro avviso, questa costruzione rappresenti la forma più evoluta di rinvio, un duplice ordine di ragioni ci impedisce di aderirvi. In primo luogo, vale la constatazione che un principio comune in foro domestico, per definizione, non è attribuibile ad un ordinamento «nella giuridicità ad esso inerente», come il modello del rinvio formale richiederebbe, ma al «patrimonio giuridico comune» (Weil, p. 146) ai sistemi giuridici nazionali, il quale, in sé, non rappresenta un ordinamento giuridico, essendo invece concepibile solo per astrazione. Inoltre, non bisogna dimenticare che il principio generale di diritto è frutto di un’analisi comparativa che seleziona e ricombina materiale normativo proveniente dagli ordinamenti interni, fino a plasmare un denominatore comune anche molto diverso dal principio vigente, nella sua integrità, in ciascun ordinamento statale separatamente considerato. Si tratta, dunque, di un’unità normativa minima che assume la forma del valore più che quella della regola e, come tale, non si presta ad essere recepita mediante rinvio.
4.«The law common to peoples, and the law between the peoples, the one as the reflection of the other». Con queste parole O’Connell descriveva la relazione tra diritto internazionale e ordinamenti interni implicita dietro la categoria dei principi comuni in foro domestico (International Law [1965], Stevens, London, 19702, p. 10). Contro la teoria del rinvio milita infatti un’altra parte della dottrina che considera i principi generali di diritto comuni agli ordinamenti interni come fonte del diritto internazionale non solo autonoma, ma anche originaria: «veri principi di diritto internazionale» (Quadri, Diritto internazionale pubblico [1949], Liguori, Napoli, 19685, p. 126; così anche Pellet, Müller, par. 268). Tale ordinamento «non accoglie già come norme proprie quei principi […] di altri ordinamenti, ma soltanto attribuisce al fatto che essi esistano in altri ordinamenti […] il valore di un fatto produttivo di determinate conseguenze giuridiche internazionali» (Balladore Pallieri, I “principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili” nell’art. 38 dello Statuto della Corte permanente di giustizia internazionale, Istituto giuridico della R. Università, Torino, 1931, pp. 86-87; Sperduti, Lezioni di diritto internazionale, Giuffrè, Milano, 1958, p. 80).
La confusione sorta attorno all’interpretazione dell’art. 38 sarebbe allora da attribuirsi alla circostanza che «la coscienza giuridica internazionale […] ha tendenza a formarsi parallelamente alla coscienza giuridica interna» e che, semplicemente, i principi in esame hanno maggiore occasione di manifestarsi in foro domestico (Quadri, op. cit., p. 126; nella stessa direzione Barile, Lezioni di diritto internazionale [1977], Cedam, Padova, 19832, p. 91; Betti, Problematica del diritto internazionale, Giuffrè, Milano, 1956, p. 46). In questa prospettiva, che a noi pare preferibile, il diritto interno verrebbe in rilievo come indizio, o fatto-prova, dello «status conscientiae degli Stati», che, quando converge in una medesima direzione, «è egualmente decisivo per l’ordinamento internazionale» (Betti, op. cit., p. 46).
Emerge, dunque, la funzione sussidiaria, nel senso più letterale di «sostegno» del sistema, che l’art. 38, par. 1, lett. c), affida agli ordinamenti statali. Riadattando una fortunata immagine, può dirsi allora che la norma funge da «trasformatore permanente» di valori normativi riconosciuti dalla comunità degli Stati in valori propri dell’ordinamento internazionale. Entro tali termini, essa svolge nell’ordinamento internazionale una funzione simile, seppur specularmente inversa, a quella che l’art. 10, co. 1, Cost. esercita in quello italiano; simile ma non identica, in quanto, al di là del rovesciamento di prospettiva, nel caso dell’art. 38, par. 1, lett. c), il raccordo tra i due ordinamenti non si esplica attraverso un meccanismo di rinvio per i motivi (e con le conseguenze) sopra indicati.
5.Se il ricorso ai principi comuni in foro domestico senz’altro testimonia un’apertura del diritto internazionale nei confronti degli ordinamenti interni, tale apertura non è però incondizionata. Quest’esigenza di coerenza è stata recentemente sintetizzata nella conclusione n. 6 del Progetto di conclusioni presentato dal Relatore speciale Vazquez-Bermúdez, secondo cui «[a] principle common to the principal legal systems of the world is transposed to the international legal system if: (a) it is compatible with fundamental principles of international law». Nel caso in cui il test consegni un esito negativo, il principio giuridico, pur generalmente riconosciuto dalla comunità degli Stati, non può essere considerato come un principio dell’ordinamento internazionale.
Si tratta di un’idea che trova riscontro in precedenti studi di dottrina. Se alcuni autori individuano un limite nell’aderenza allo «spirito» di questo ordinamento (Spiropoulos, Die allgemeinen Rechtsgrundsätze im Völkerrecht. Eine Auslegung von Art. 38/3 des Statuts des Ständigen Internationalen Gerichtshofs, Institut für Internationales Recht, Kiel, 1928, p. 35), altri considerano i principi riconosciuti nei sistemi giuridici interni applicabili nel diritto internazionale «in so far as they are applicable to relations of States» o, il che è lo stesso, nella misura in cui «[est] respectée […] la différence de structure entre l’ordre juridique national et l’ordre juridique international» (rispettivamente Oppenheim, pp. 36-37 e Simma, Paulus, Le rôle relatif des différentes sources du droit international (dont les principes généraux de droit), in Ascensio et al. (a cura di), p. 67 ss., p. 75).
Vi sono poi autori che hanno descritto questo rapporto dialettico in termini più strettamente normativi, rilevando che «[w]hen the Court finds that there is convergence in the relevant aspects of municipal laws, an additional test should concern the compatibility of the principle emerging from municipal laws with the framework of the principles and rules of international law within which the principle would have to be applied» (Gaja, p. 39). Una perfetta sintesi del modo in cui opera il limite in seno all’art. 38 è già rintracciabile nel manuale di Balladore Pallieri: «i principi di cui si tratta, per riuscire applicabili nell’ordine internazionale, non devono essere in contrasto con i più generali criteri che informano di sé gli istituti e le norme di cui questo è composto. Il limite, sebbene non esplicitamente enunciato nell’art. 38, è implicito nella funzione stessa di questi principî» (Balladore Pallieri, Diritto internazionale pubblico [1937], Giuffrè, Milano, 19628, p. 98).
Sul punto i lavori della CDI appaiono in linea con una prassi piuttosto consolidata. Nell’affare delle concessioni Mavrommatis a Gerusalemme (1924), ad esempio, la CPGI è stata chiamata a valutare l’ammissibilità di un’eccezione sulla giurisdizione presentata in limine litis. Riscontrando un vuoto normativo tanto nello Statuto quanto nel Regolamento, la stessa ha espressamente rivendicato il potere di ricorrere ai principi generali di diritto «which it considers […] in conformity with the fundamental principles of international law» (p. 16). Nel caso Dickson Car Wheel Company (1931) gli Stati Uniti hanno sostenuto che il Messico avesse tratto un indebito vantaggio a spese della società di propria nazionalità. Soffermandosi sull’applicabilità del principio dell’ingiusto arricchimento, la Commissione dei ricorsi generali, investita della questione, ha preliminarmente rilevato che «[t]here is no doubt that at the present time that theory is accepted and applied generally by the countries of the world», giungendo tuttavia a concludere che «[it] has not yet been transplanted to the field of international law as this is of a juridical order distinct from local or private law» (p. 676). Nel parere sulle riserve alla Convenzione sul genocidio (1951) la CIG ha dovuto chiarire se le stesse potessero mantenere la propria validità anche in presenza delle obiezioni avanzate da alcune soltanto delle altre parti contraenti. Nel rispondere al quesito, i giudici hanno preso in esame il principio – «generally ricognized» – di integrità dell’accordo, «directly inspired by the notion of contract». Postulando la necessità che l’accordo si formi in modo identico tra tutte le parti contraenti, questo avrebbe senz’altro condotto a dichiarare l’invalidità delle riserve sub iudice, ma la Corte ne ha escluso l’applicabilità nell’ordinamento internazionale (pp. 21-22), rilevando come esso contrasti con la fondamentale esigenza di flessibilità che permea il diritto dei trattati, che proprio l’istituto della riserva mira a soddisfare, e che in ultima istanza tende a conservare il consenso anche solo parzialmente raggiunto.
Nel caso relativo al Tempio di Preah Vihear (1961) la Thailandia ha tentato di negare che la propria dichiarazione del maggio 1950 costituisse una valida accettazione della giurisdizione obbligatoria della Corte, ai sensi dell’art. 36, par. 2, dello Statuto. Ad avviso del Governo thailandese, infatti, la mancanza di specifici requisiti di forma avrebbe messo il Paese in una posizione «similar to that of a man who desires to make certain testamentary dispositions, and fully intends them; nevertheless, he will not achieve his object, as a matter of law, if he fails to observe the forms and requirements prescribed by the applicable law» (p. 27). In questo contesto la CIG ha rilevato come la possibilità di ricorrere a principi comuni agli ordinamenti interni in materia di requisiti di forma incontrasse un ostacolo insuperabile nel principio sostanzialistico di libertà delle forme a cui si ispira l’ordinamento internazionale (p. 31).
Nel contenzioso relativo alla piattaforma continentale del Mare del Nord (1969) la Repubblica Federale Tedesca (RFT) ha cercato di dimostrare che la delimitazione territoriale potesse essere risolta attraverso il criterio della «quota giusta ed equa», inquadrabile, a suo avviso, come principio generalmente riconosciuto negli ordinamenti interni (memoria del 21 agosto 1967, «ICJ Pleadings», par. 30). Danimarca e Paesi Bassi, dal canto loro, obiettavano che un tale principio non fosse applicabile nell’ordinamento internazionale, poiché «incompatible with the principles on which, in the international legal system, the positive law regulating the matter is based» (controreplica comune del 30 agosto 1968, «ICJ Pleadings», par. 117). In conclusione, la CIG ha fatto propria la tesi prospettata dai due paesi, rilevando che effettivamente il principio invocato dalla RFT fosse incompatibile con il concetto stesso di piattaforma continentale, a sua volta intimamente connesso al principio di sovranità territoriale («ICJ Reports», par. 19-20).
Da ultimo, nel caso relativo a sequestro e detenzione di certi documenti e dati (2014) Timor-Est lamentava l’illegittimità della sottrazione compiuta ai suoi danni da parte dell’Australia ed è interessante constatare come, nel tentativo di dimostrare che il diritto alla riservatezza della professione legale costituisse un principio comune in foro domestico, lo Stato abbia sentito l’esigenza di specificare che esso fosse non solo compatibile, ma anche legato da un rapporto di stretta strumentalità con il principio fondamentale della risoluzione pacifica delle controversie (memoria del 28 aprile 2014, par. 6.4).
Come è stato opportunamente sottolineato in dottrina, anche la giurisprudenza del Tribunale penale internazionale per l’ex Iugoslavia conferma che «les principes généraux du droit international […] devraient s’analyser comme limite à la transposition des principes d’origine interne au plan international» (Gradoni, “L’exploitation des principes généraux de droit dans la jurisprudence des Tribunaux pénaux internationaux”, in Fronza, Manacorda (a cura di), p. 10 ss., pp. 34-35; così anche Caligiuri, pp. 1093-1094).
In Blaškić (1997), infatti, la Camera d’appello ha esplicitato le ragioni per cui le differenze strutturali tra l’ordinamento internazionale e quello interno sono in grado di limitare l’applicabilità, nel primo, di principi generalmente riconosciuti nei secondi. In relazione all’istituto domestico della «ripeness doctrine», con cui la Camera di primo grado aveva giustificato il potere di non pronunciarsi su questioni ritenute non ancora «mature», i giudici d’appello hanno concluso che fosse «inapposite to transpose it into international criminal proceedings», precisando che «domestic judicial views or approaches should be handled with the greatest caution at the international level, lest one should fail to make due allowance for the unique characteristics of international criminal proceedings» (par. 22-23; corsivo aggiunto). Un secondo aspetto oggetto del giudizio di gravame riguardava poi il ricorso alla «domestic analogy», con cui la Camera di primo grado aveva legittimato il proprio potere di indirizzare ordini vincolanti nei confronti di ufficiali di Stato, come negli ordinamenti interni sono autorizzate a fare le corti nazionali. In termini piuttosto eloquenti, la Camera d’appello ha rilevato come quella tesi finisse irrimediabilmente per collidere con i principi di sovranità, eguaglianza sovrana e dominio riservato, e pertanto dovesse essere respinta (par. 40-41). Non sorprende, allora, che nell’opinione dissenziente alla sentenza d’appello resa in Erdemović (1997, par. 5) il Presidente Cassese abbia sentito l’esigenza di reiterare in termini più generali un invito alla cautela nel ricorso ai principi comuni in foro domestico, influenzando in tal modo la successiva giurisprudenza del Tribunale (Furundžija, par. 177-178; Delalić et al., par. 402-405).
6.Con riguardo ai principi fondamentali del diritto internazionale, capaci di operare come limiti, bisogna innanzitutto precisare che la categoria ricomprende quei principi giuridici che riflettono l’intrinseca «struttura» dell’ordinamento giuridico internazionale (Schwarzenberger, p. 207; Mosler, p. 148 ss.). In essi, sulla dimensione strettamente prescrittivo-valutativa, prevale quella descrittiva: non fungono direttamente da schemi qualificativi, ma sanciscono valori che esprimono l’identità assiologica dell’ordinamento giuridico, al quale, pertanto, conferiscono unità (Sperduti, op. cit., p. 83 ss.; Viñuales, p. 9; opinione separata del giudice Cançado Trindade in cartiere sul Fiume Uruguay, par. 201).
In letteratura sussiste attualmente un diffuso consenso sul fatto che in tale categoria vadano ricondotti il principio di sovranità, la nozione di sovranità territoriale, la piattaforma continentale come titolo giuridico acquisitivo della sovranità sulla relativa area marina, il fondamento consensualistico della giurisdizione internazionale, nonché alcuni principi enunciati nella Carta delle Nazioni Uniti, in particolare i sette solennemente riaffermati nella Dichiarazione del 1970 sulle relazioni amichevoli e la cooperazione tra Stati (Luzzatto, Il diritto internazionale generale e le sue fonti, in Carbone et al., pp. 73-76; Viñuales, passim; M. Vázquez-Bermúdez, par. 83). Altri autori vi aggiungono anche i principi del diritto internazionale umanitario e quelli corrispondenti a diritti umani fondamentali (Strozzi, “I ‘principi’ dell’ordinamento internazionale”, in La Comunità Internazionale, 1992, p. 162 ss., pp. 183-184).
Un ulteriore aspetto che merita particolare attenzione riguarda il titolo di prevalenza in virtù del quale, in caso di contrasto, i principi fondamentali sono in grado di impedire ai principi comuni in foro domestico di diventare fonte dell’ordinamento internazionale. Occorre subito precisare che non si tratta di un contrasto tra norme giuridiche contemporaneamente esistenti nel medesimo ordinamento, per la cui soluzione non si potrebbe che ricorrere ai consueti criteri di soluzione delle antinomie. Tale constatazione, a fortiori, esclude che possa venire in rilievo un criterio di prevalenza gerarchica, anche perché solo alcuni principi fondamentali costituiscono anche norme imperative.
Piuttosto, quello che viene a configurarsi è un conflitto assiologico che non consente all’ordinamento internazionale di considerare come proprio il principio generalmente riconosciuto negli ordinamenti interni. L’art. 38, par. 1, lett. c), dello Statuto della CIG, infatti, codifica un processo di produzione su base analogica, in virtù del quale un principio comune ai principali sistemi giuridici del mondo costituisce fonte del diritto internazionale esclusivamente nella misura in cui sussiste un’analogia tra la situazione giuridica che regola in foro domestico e quella che esso aspira a disciplinare nell’ordinamento internazionale (Barberis, pp. 36-38). L’antinomia con un principio fondamentale rompe immediatamente questo rapporto analogico, arrestando così il processo produttivo (Balladore Pallieri 1931, op. cit., p. 74; Bothe, p. 294; Lauterpacht, Private Law Sources and Analogies of International Law (with Special Reference to International Arbitration), Longmans, London, 1927, pp. 84-87; Verdross, Simma, p. 384; Cheng, General Principles of Law as applied by International Courts and Tribunals, Grotius, Cambridge, 1987, pp. 265-266; Thirlway, p. 405).
Ad ogni modo, in un ordinamento giuridico, come quello internazionale, frammentato in una pluralità di settori di diritto materiale, tanto l’individuazione dei principi fondamentali quanto il sindacato di compatibilità di cui sono oggetto quelli comuni agli ordinamenti interni non può che avvenire in modo diffuso. A tale funzione, infatti, concorre una pluralità di attori, ciascuno dei quali fornisce un apporto ermeneutico certamente radicato nel quadro normativo e valoriale in cui opera. Tra questi la Corte dell’Aia, in ragione della propria autorevolezza, senza dubbio svolge una funzione interpretativa eminente.
Prima di dedurre l’effettiva sussistenza di un’antinomia assiologica incomponibile con l’ordinamento internazionale, l’operatore giuridico deve adempiere a un «obbligo di interpretazione conforme», cercando di dare al principio comune in foro domestico, nei limiti di quanto gli consente la base normativa consegnata dall’analisi comparativa, un significato che lo renda compatibile con i principi fondamentali di questo ordinamento, «per completare e coordinare fra loro le varie norme positive internazionali […], non già per introdurvi un elemento eterogeneo e discordante» (Balladore Pallieri 1962, op. cit., p. 98. In tal senso Shahabuddeen, pp. 101-102).
7.Dall’analisi svolta sin qui emerge che il ricorso ai principi comuni in foro domestico può essere inquadrato come una forma di «adattamento» del diritto internazionale al diritto interno, nel senso che da questo il primo mutua forme e schemi qualificativi, che poi annette al proprio apparato normativo: «what results is a body of international law that is influenced by domestic law but which remains its own creation» (Bjorge, p. 539). Anche all’infuori di un modello di rinvio in senso tecnico, non vi è dubbio che l’art. 38, par. 1, lett. c), dello Statuto della CIG funga da «trasformatore permanente», nella misura in cui crea un ponte capace di consentire una circolazione di valori giuridici tra i due ordinamenti. Allo stesso tempo, però, si è avuto modo di evidenziare come l’apertura del diritto internazionale nei confronti dei sistemi giuridici statali non sia incondizionata, ma incontri dei limiti; né potrebbe essere altrimenti per un ordinamento superiorem non recognoscens. Questa continua imitazione e, insieme, rivendicazione di autonomia riflette il dato che le coscienze giuridiche del diritto internazionale e del diritto interno si compenetrino, e dell’uno e dell’altro, ancora oggi, lo Stato resti la colonna portante (Quadri, op. cit., p. 126; Betti, op. cit., p. 49).
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