Adattamento ‘a rovescio’ e obblighi a realizzazione progressiva: una (possibile) lettura
Laura Magi (Università di Firenze)
1. Il legame fra obblighi a realizzazione progressiva (ORP) e adattamento del diritto internazionale al diritto interno può non apparire evidente a prima vista.
Per comprenderlo è necessario spingere lo sguardo oltre l’art. 46 della Convezione di Vienna sul diritto dei trattati, ed accogliere una nozione di adattamento che non è limitata alla «introduzione [in un ordinamento] delle variazioni imposte dalle norme di [un altro ordinamento]» (Morelli, Nozioni di diritto internazionale7, Padova, 1967, p. 85), e neppure all’ulteriore fenomeno del rinvio (ricettizio e non) del diritto internazionale al diritto interno (ibidem, p. 76 ss.). Piuttosto è necessario riferirsi alla più ampia presa in considerazione, da parte dell’ordinamento internazionale, di interessi generali dell’ordinamento interno che nel suo diritto trovano espressione, fatto che giustifica l’accostamento del concetto di adattamento a quello degli ORP.
Le caratteristiche strutturali degli ORP, il divieto di adottare misure regressive (che dei primi costituisce il rovescio della medaglia) e la natura relativa di tale divieto permettono agli Stati che sono tenuti a darvi esecuzione di tener conto di e lasciar spazio all’attuazione di norme del diritto interno che riflettono interessi statali diversi, in alcuni casi antagonisti; per questo costituiscono un esempio di adattamento ‘a rovescio’.
Quando l’adattamento ‘a rovescio’ si realizza attraverso gli ORP e al divieto, non perentorio, di regressione, gli organi di controllo garanti del loro rispetto non mancano di porre limiti alla recezione di istanze provenienti dagli ordinamenti interni. Questo accade attraverso l’elaborazione della nozione di ‘livello minimo essenziale’ di protezione da garantire ai diritti individuali corrispondenti agli ORP. Essa richiama alla mente quella di ‘contenuto essenziale’ dei diritti costituzionalmente garantiti, ma i due concetti sono simili solo in apparenza; utilizzati in ordinamenti strutturalmente diversi, producono, infatti, effetti differenti.
2. L’espressione ‘obblighi a realizzazione progressiva’ è riferita ad obblighi che impongono allo Stato di procedere all’adozione di misure di differente natura in vista di assicurare, gradualmente, l’esercizio effettivo di diritti individuali che hanno quasi esclusivamente la natura di diritti economici, sociali e culturali (ad esempio il diritto al cibo, alla salute, all’abitazione, all’istruzione, al lavoro, alla sicurezza sociale, ad un ambiente salubre e via dicendo). ORP sono contenuti, ad esempio, nel Patto sui diritti economi, sociali e culturali (da ora in avanti il Patto), nella Carta sociale europea, nel Protocollo addizionale alla Convenzione americana dei diritti dell’uomo nell’area dei diritti economici, sociali e culturali. Anche altri accordi internazionali contengono, seppur in quantità minore, ORP, ad esempio la Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, quella sui diritti delle persone con disabilità, la Convenzione contro ogni forma di discriminazione razziale, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. In alcune delle convenzioni sopra menzionate è infatti prevista una disposizione che, nel chiarire la natura degli obblighi, precisa che gli Stati hanno assunto l’impegno ad agire in vista di assicurare progressivamente il pieno esercizio dei diritti riconosciuti (art. 2, par. 1, del Patto; art. 26 della Convenzione americana dei diritti dell’uomo; art. 4 della Convenzione sui diritti del bambino, art. 4, par. 2, della Convenzione sui diritti delle persone disabili), anche se ciò non implica che tutti gli obblighi derivanti da questi accordi abbiano natura progressiva.
Gli ORP, non essendo per loro stessa natura immediatamente eseguibili, consentono agli Stati – che sono comunque obbligati ad adottare misure che mirano ad una loro progressiva realizzazione – di tener in considerazione l’esigenza di dare soddisfazione ad altri interessi rispetto a quelli protetti dalla norma internazionale e che con essi sono in competizione in termini di risorse da utilizzare per la loro realizzazione (Alston, Quinn, p. 156 ss.; Pisillo Mazzeschi,p. 179 ss.).
3. Oltre ad essere ontologicamente pensati per consentire allo Stato di perseguire contemporaneamente fini diversi, gli ORP implicano anche il divieto di adottare misure regressive. Il divieto in esame viene qui in rilievo per due distinti motivi.
In primo luogo, per darvi attuazione gli Stati non devono ridurre il livello di protezione che viene assicurata ai diritti economici, sociali e culturali dal diritto interno al momento dell’assunzione dell’obbligo di non regressione. È dunque possibile dire che per effetto dell’obbligo in esame il diritto internazionale opera quello che Morelli avrebbe definito un rinvio non recettizio del diritto internazionale al diritto interno, vale a dire quella forma di rinvio che ricorre quando le norme internazionali si riferiscono a valutazioni giuridiche che dipendono dall’ordinamento interno (ibidem, p. 81). La norma interna anteriore viene infatti recepita dalla norma internazionale che vieta di regredire e finisce per essere il parametro che quest’ultima utilizza per valutare la norma interna posteriore.
In secondo luogo, il divieto di regressione viene qui in rilevo poiché non ha natura perentoria, bensì relativa, e ciò consente un’ulteriore forma di recezione, nell’ordinamento internazionale, del diritto interno. Sull’esistenza dell’obbligo di non regressione e sul suo carattere relativo si è espresso il Comitato per i diritti economici, sociali e culturali (da ora in avanti il Comitato). Nel General Comment n. 3 relativo alla natura degli obblighi degli Stati parti del Patto, il Comitato ha osservarto che «any deliberately retrogressive measures […] would require the most careful consideration and would need to be fully justified by reference to the totality of the rights provided for in the Covenant and in the context of the full use of the maximum available resources» (par. 10). È stato osservato, correttamente, che tale dichiarazione «create[s] a presumption that ‘deliberately retrogressive measures’ constitute a prima facie violation of the Covenant», presunzione che non ne esclude la liceità, ma sposta l’onere di provarla a carico degli Stati che hanno adottato tali misure (Nolan, Luisian, Courtis, p. 125 s.). Non sarà certo facile dimostrare che l’adozione di misure regressive soddisfa le condizioni poc’anzi ricordate, ma non v’è dubbio che una ‘via d’accesso’ all’ingresso di altri interessi statali venga lasciata aperta. La stessa ammissione nel citato General Comment dell’esistenza, per ogni diritto che le Parti si impegnano a garantire, di un ‘minimum essential level’ da realizzare (par. 11) costituisce un’ulteriore indiretta conferma dell’ammissibilità di misure regressive e, al tempo stesso, comporta l’individuazione di un limite oltre il quale la loro adozione darà origine ad un illecito internazionale. In altri General Comments (si veda, ad esempio, GC n. 19, par. 42, GC n. 18, par. 21, GC n. 17, par. 27) il Comitato ha anche raccomandato agli Stati di dare «the most careful consideration [to] all the alternative [measures]», confermando la liceità di misure regressive in circostanze eccezionali, e individuando un ulteriore limite dal cui rispetto dipende la loro liceità.
Seguendo l’indirizzo tracciato dal Comitato, la Corte inter-americana dei diritti dell’uomo ha ritenuto che dall’art. 26 della Convenzione americana derivi il divieto di adottare misure regressive, ma ha comunque chiarito che tali misure non sono in assoluto vietate bensì ammissibili se «justified by strong reasons» (Acevedo Buendía et al. v. Peru, par. 103; già in questo senso National Association of Ex-Employees of the Peruvian Social Security Institute et al. v. Peru, paragrafi 140-147).
4. Malgrado gli ORP figurino in più accordi, è in particolare nell’ambito del Patto sui diritti economici, sociali e culturali che il loro contenuto – come quello del divieto di adottare misure regressive – sono stati meglio chiariti. Non è dunque un caso che sia stata la reazione dell’omonimo Comitato alle misure di austerity adottate da alcuni Stati in occasione di crisi economiche severe a ben esemplificare un caso di adattamento del Patto a provvedimenti legislativi interni, adottati per reagire a tali crisi.
Il Comitato ha preso una chiara posizione nei confronti dell’adozione di siffatte misure, che hanno frequentemente provocato tagli a quella parte della spesa pubblica destinata all’adozione di provvedimenti volti a garantire il godimento di alcuni diritti sociali. Se in passato, in più occasioni, aveva espresso comprensione per le difficoltà incontrare dagli Stati nell’esecuzione degli obblighi derivanti dal Patto a causa di condizioni economiche avverse (cfr., ad esempio, Concluding Observations (CO) sulla Giordania (par. 27), sulla Mongolia (par. 9)), con la crisi finanziaria iniziata nel 2008, il Comitato ha precisato e sistematizzato la sua posizione sul tema (già in questo senso la lettera del Presidente del Comitato adottato a nome dell’organo collegiale nel 2012).
Ha infatti riconosciuto che resources constraints possano giustificare l’adozione di misure regressive, ed ha individuato con maggiore chiarezza (e in alcuni casi ribadito) le condizioni – anche in linea con quelle individuate dalle corti costituzionali di alcuni Stati – che ne determinano la liceità.
Secondo il Comitato, se misure regressive sono inevitabili, esse devono comunque avere una durata limitata nel tempo e non produrre effetti discriminatori (così anche la Corte costituzionale portoghese, che con le sentenze 353/2012 e 187/2013 ha dichiarato incostituzionali alcune disposizioni delle leggi di bilancio del 2012 e 2013 giudicate in contrasto con il principio di uguaglianza sancito dall’art. 13 della Costituzione; in dottrina Mola e Cisotta, Gallo).
Ha poi affermato – confermando quanto già precisato in alcuni GC sopra richiamati – che deve trattarsi di misure necessarie e proporzionate nel senso che l’adozione di ogni altra misura o l’assenza di interventi sarebbero più dannosi per i diritti economici e sociali.
Ha anche ripetuto che la loro adozione debba essere accompagnata da provvedimenti atti a mitigare le diseguaglianze generate o acuite della crisi economica.
È stato infine ribadito che gli Stati non possono sottrarsi al rispetto del ‘minimum core content’ degli ORP previsti dal Patto, devono cioè rispettare gli impegni assunti per garantire ai diritti protetti dal Patto il ‘livello minimo essenziale’ di attuazione (in misura simile il Consiglio di stato greco ha ritenuto essere contrarie al diritto al minimo vitale − nozione vicina a quella di ‘livello minimo essenziale’ − una disposizione di legge che riduceva gli stipendi e le pensioni del personale delle forze armate e di polizia: cfr. le sentenze dalla n. 2192/2014 alla n. 2196/2014 del 13 luglio 2014).
Tra il 2016 e il 2018 il Comitato ha ribadito tale posizione nelle CO sulla Spagna, sull’Argentina e sull’Equador. In questi documenti ha in aggiunta precisato che a seguito dell’adozione di siffatte misure lo Stato ha l’obbligo di monitorarne attentamente gli effetti, specialmente quelli prodotti a danno delle categorie più svantaggiate e marginalizzate, e di consultarsi con i rappresentati di tali categorie, per valutare la necessità di ritirarle.
Sulle orme del Comitato, anche un altro organo di controllo, il Comitato europeo per i diritti sociali, ha individuato quali condizioni di liceità delle misure di austerity adottate dagli Stati parti della Carta sociale europea alcune di quelle poc’anzi ricordate (GENOP-DEI and ADEDY v. Greece, par. 47; per un commento Mola).
In sintesi, la natura relativa del divieto di misure regressive ha consentito al diritto internazionale di tener conto di istanze provenienti dal diritto interno. Non solo. Lo stesso divieto di adottare misure regressive è stato chiarito tenendo conto sia del contenuto dei provvedimenti legislativi che gli Stati avevano adottato per contenere l’aumento del debito pubblico che dei parametri che la giurisprudenza costituzionale di alcuni Stati aveva elaborato per limitare l’adozione di leggi aventi effetti negativi sul grado di protezione di alcuni diritti sociali fino a quel momento garantito. Infine, nei casi in cui i provvedimenti interni produttivi di effetti regressivi erano stati adottati in esecuzione di obblighi internazionali, il diritto interno è divenuto l’involucro per mezzo del quale obblighi apparentemente in conflitto con il Patto sono stati in parte coordinati con quelli derivanti dal medesimo accordo.
5. Fra i parametri individuati quali condizioni di liceità delle misure regressive quello del rispetto del ‘minimum core content’ degli ORP previsti dal Patto e, specularmente, del ‘livello minimo essenziale’ di protezione da garantire ai corrispondenti diritti individuali richiama alla mente il concetto di ‘contenuto essenziale’ dei diritti inviolabili costituzionalmente protetti che, in alcuni ordinamenti, opera quale parametro utilizzabile dal giudice costituzionale nel sindacato sulle leggi. Così, ad esempio, l’art. 19, c. 2, della Legge fondamentale tedesca secondo il quale in nessun caso un diritto fondamentale può essere leso nel suo contenuto essenziale. Formule simili si rinvengono nella Costituzione spagnola (art. 53, c. 1) e in quella portoghese (art. 18, c. 3). La Costituzione italiana non contiene una disposizione che espressamente richiama il ‘contenuto essenziale’ dei diritti fondamentali, ma il concetto è stato comunque enucleato della Corte costituzionale nella sua giurisprudenza – prevalentemente relativa ai diritti sociali – quale parametro di costituzionalità delle leggi (Messineo, La garanzia del “contenuto essenziale” dei diritti fondamentali. Dalla tutela della dignità umana ai livelli essenziali delle prestazioni, Torino, 2012). Anche l’ordinamento dell’UE contiene una disposizione sul ‘contenuto essenziale’, l’art. 52, par. 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’UE (Ferraro, Lazzerini, Art. 52, in Mastroianni et al).
Nei suoi General Comments (cfr. ad esempio GC n. 18, par. 31; GC n. 19, par. 59) il Comitato per i diritti economici sociali e culturali è solito definire in astratto il contenuto del ‘livello minimo essenziale’ dei singoli diritti protetti dal Patto; per questo motivo il concetto si avvicina alla cd. concezione assoluta del parametro del ‘contenuto essenziale’ elaborata dalla dottrina costituzionalistica, la quale individua in ogni diritto «un nucleo sostanziale che è considerato come qualcosa di aprioristicamente identificabile o di operante come limite assoluto e invalicabile» (Baldassarre, p. 96), «un quid necessario che non può essere compresso senza stravolgere il senso generalmente riconosciuto a quel medesimo diritto» (Massa Pinto, La discrezionalità politica del legislatore tra tutela del contenuto essenziale e tutela ordinaria caso per caso dei diritti nella più recente giurisprudenza della Corte costituzionale, in Giurisprudenza costituzionale 1998, p. 1312).
Malgrado la somiglianza fra il concetto di ‘livello minimo essenziale’ dei diritti protetti dal Patto e quello di ‘contenuto essenziale’ dei diritti inviolabili e delle libertà fondamentali costituzionalmente garantiti, i due parametri servono interessi in parte differenti. Nell’ordinamento internazionale il concetto di ‘livello minimo essenziale’ protegge i diritti economici, sociali e culturali non solo da altre norme del medesimo ordinamento, ma anche (e soprattutto) da norme di altri ordinamenti, anzitutto quelli interni (non necessariamente attuative di accordi internazionali). Negli ordinamenti interni, invece, il concetto di ‘contenuto essenziale’ altro non è che un modo diverso «di chiamare il problema dell’ammissibilità costituzionale dei limiti legislativi ai diritti fondamentali» (Chessa, Brevi note sul “contenuto essenziale” (dei diritti inviolabili) come parametro del giudizio di costituzionalità, in Pitruzzella et al, p. 288). Trattasi, in altre parole, di uno strumento di difesa dei diritti inviolabili e delle libertà fondamentali contro i limiti imposti da norme prodotte dallo stesso ordinamento. Non a caso in alcuni ordinamenti interni viene utilizzato il distinto concetto di controlimite per individuare una barriera a difesa dei principi costituzionali fondamentali quando questi rischiano di essere pregiudicati da norme di produzione esterna. La differenza può sembrare solo apparente se il controlimite viene ritenuto sussumere il ‘contenuto essenziale’ (così, ad esempio, Castelli). In verità ‘controlimite’ e ‘contenuto essenziale’ sembrano avere una loro autonomia formale poiché producono effetti differenti, e questo conferma la distinzione sopra tracciata fra i parametri del ‘contenuto essenziale’ e del ‘livello minimo essenziale’. La violazione del ‘contenuto essenziale’ comporta infatti l’incostituzionalità della legge con essi in conflitto. La violazione del controlimite, invece, produce, rispetto a fonti pattizie, la dichiarazione di illegittimità costituzionale parziale o totale della legge di adattamento che la sent. 238/2014 ha equiparato ad un «impedimento all’ingresso nel nostro ordinamento della norma convenzionale» (par. 4.1 delle Considerazioni in diritto) e, rispetto alla consuetudine, il mancato rinvio del diritto interno al diritto internazionale.
Una seconda differenza fra il parametro del ‘contenuto essenziale’ e quello del ‘livello minimo essenziale’ risiede negli effetti che si producono a seguito di una loro violazione. Se, come appena detto, la violazione del primo parametro causa l’incostituzionalità della legge, l’adozione da parte dello Stato di provvedimenti normativi interni che comportano una riduzione delle risorse destinate a garantire il godimento del ‘livello minimo essenziale’ di alcuni diritti economici e sociali fa sorgere la responsabilità internazionale dello Stato. L’osservazione dei diversi effetti prodotti da due parametri apparentemente identici riflette la differente natura degli ordinamenti nei quali si trovano ad operare, tra cui, in particolare, l’assenza nell’ordinamento internazionale di un organo giudiziario a presidio di valori ‘costituzionali’. La ‘passeggiata lungo l’altra sponda del fiume’ rivela, in conclusione, che le caratteristiche di ogni ordinamento influenzano tanto le modalità attraverso le quali vengono recepite le norme di un altro ordinamento quanto gli effetti prodotti dai limiti che ogni ordinamento erige a presidio dei propri valori. Inoltre, camminando sulla sponda opposta è possibile osservare che le forme ‘spurie’ di adattamento del diritto internazionale al diritto interno – come sono quelle analizzate in questo post – non producono espressioni di supremazia di un ordinamento sull’altro ma forme di coordinamento più o meno eque per i titolari dei diritti che di volta in volta vengono compressi.
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