Note a margine dell’operazione “Guardiano delle mura”, parte I. Le ombre del dibattito italiano su Gaza e Sheikh Jarrah, alla luce del diritto internazionale.
Israeli Border Police officers look on during a protest against the eviction of Palestinians from their homes by Israeli settlers in the East Jerusalem neighborhood of Sheikh Jarrah,December 25, 2009.
Credits: (Oren Ziv/Activestills.org)
(fonte https://www.972mag.com/after-a-decade-evictions-set-to-return-in-sheikh-jarrah/ )
Luigi Daniele, Senior Lecturer, Nottingham Law School (NTU).
Triestino Mariniello, Reader, School of Law (Liverpool John Moores University); membro del legal team di rappresentanza delle vittime di Gaza davanti alla Corte Penale Internazionale.
«La più insensata e fallita operazione militare di sempre». Così il quotidiano Haaretz ha definito l’ultima offensiva israeliana a Gaza, “Guardiano delle mura”, accusando il Governo di Israele di aver perseguito una campagna di scarsa consistenza strategica, caratterizzata da gravi carenze dell’intelligence militare circa l’individuazione di obiettivi militari legittimi e di rilievo. Le Forze di difesa israeliane (‘IDF’) avrebbero diffuso a scopi tattici, proprio per compensare tali carenze, false informazioni ai media stranieri sull’imminente invasione della Striscia con truppe di terra. L’offensiva, secondo pareri attribuiti ad ufficiali delle stesse IDF, avrebbe indebolito il potenziale militare di Hamas in misura inferiore alle aspettative, distruggendo di converso numerose strutture civili fondamentali per la vita della popolazione di Gaza.
L’escalation militare a Gaza è stata inoltre accompagnata da una delle peggiori spirali di violenza che Israele abbia conosciuto negli ultimi decenni all’interno dei confini legali del 1967, innescatasi tra nazionalisti e minoranze arabe israeliane e culminata in episodi di linciaggio di cittadini arabi e di attacco a sinagoghe.
Tutto ciò ha contribuito al determinarsi di forti contrapposizioni non solo sul piano internazionale, ma anche nella dialettica politica e della società civile israeliana, che tuttavia non hanno destato – con poche eccezioni – l’interesse dei maggiori quotidiani italiani.
Ciò che ci preoccupa come studiosi del diritto internazionale, e che ci spinge a intervenire, sono le posizioni recentemente assunte dalle forze politiche e dalle istituzioni del nostro paese in merito ad alcune questioni cruciali del contesto israelo-palestinese.
Più precisamente, ci preoccupano gli ordini del discorso del dibattito pubblico e le posizioni non assunte in Italia e dall’Italia a proposito:
1) del diseguale impatto delle ostilità sulle due popolazioni civili vittima dell’escalation, una delle quali vessata da una delle più gravi crisi umanitarie del mondo;
2) del correlato quadro di contesto di illeciti internazionali che precedono le ostilità e permangono inalterati a seguito della momentanea cessazione delle stesse;
3) dei possibili profili di rilevanza penale internazionale dei metodi di conduzione delle ostilità, che aggiungono agli illeciti statali responsabilità individuali e da comando che la comunità internazionale ha il dovere di perseguire.
Tali illeciti e possibili crimini internazionali, oltre a trasformare i civili in bersaglio di fatto prevalente delle ostilità e ad aggravare la drammatica crisi di Gaza, perpetuano uno scenario funzionale alla ripetizione ciclica delle spirali di violenza armata che, non a caso, conta “Guardiano delle mura” come quinta operazione militare con bombardamenti su larga scala della Striscia dal 2006.
Appaiono emblematiche, a proposito delle reticenze delle istituzioni italiane anche solo a citare questi aspetti, le comunicazioni della Farnesina nelle settimane dell’offensiva.
Il Ministero degli Esteri ha dapprima preso posizione l’11 maggio, diffondendo una nota in cui si indicava generale preoccupazione per l’escalation militare, generica necessità di prevenire ulteriori vittime civili ed una ferma condanna dei lanci di razzi da Gaza verso Israele. Il Ministro degli Esteri ha poi ribadito il giorno successivo alla stampa (mentre il conteggio delle vittime saliva a 5 in Israele e più di 50 a Gaza) la condanna dell’Italia del lancio indiscriminato di razzi verso Israele.
Anche nel relazionare alla Camera il 19 maggio il Ministro Di Maio ha rinnovato “il pressante appello affinché gli attacchi missilistici dalla Striscia di Gaza [cessassero] con effetto immediato”, evidenziandone la condanna e il relativo di diritto di Israele a difendersi. Il Ministro, questa volta, ha aggiunto un generico rilievo sull’esigenza di proporzionalità della risposta militare agli attacchi, tuttavia – nonostante le stime dell’Ufficio per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA) delle Nazioni Unite (NU) indicassero già 121 vittime civili palestinesi, di cui almeno 63 tra bambini e minori – ha evitato per la terza volta qualsiasi riferimento alle conseguenze dei raid israeliani sulla popolazione civile della Striscia.
Ciò, a dire il vero, mentre l’omologo statunitense, il Segretario di Stato Blinken, interpellato nelle stesse ore dalla stampa su uno tra i più contestati bombardamenti israeliani (quello della Al-Jalaa Tower, sede delle redazioni di diverse emittenti e testate internazionali), dichiarava apertamente di non aver visionato prove che indicassero la presenza di obiettivi militari legittimi all’interno dell’edificio, non facendo mistero, inoltre, di ritenere che Israele, come “paese democratico”, fosse titolare di “oneri aggiuntivi (extra burden) di precauzione” al fine di tutelare la vita dei civili.
In questo contributo, dunque, proveremo ad argomentare le preoccupazioni indicate, proponendo alcuni elementi di inquadramento giuridico del contesto e delle ostilità.
Contesto e ostilità, giova ripeterlo, non possono analizzarsi separatamente. Lanci di razzi e bombardamenti su larga scala, infatti, fanno notizia, ma slegarne il racconto dallo scenario di sfondo equivale a occultare l’impatto permanente e quotidiano dell’occupazione e del controllo militare dei territori, tanto in Cisgiordania quanto nella Striscia di Gaza, sulla vita della popolazione civile che ne sconta maggiormente le conseguenze.
Il primo aspetto da segnalare, è che il 2021 marca il quindicesimo anno di embargo e blocco dei confini (blockade) di Gaza da parte di Israele. La popolazione di Gaza è di fatto priva di libertà di movimento, e di fuga, all’infuori dall’angusto territorio della striscia. Un territorio, vale la pena di ricordarlo, in cui circa due milioni di persone, di cui due terzi appartenenti a famiglie di profughi palestinesi del 1948, vivono in 365 chilometri quadrati, facendo di Gaza uno dei territori con la più alta densità abitativa del mondo.
Le gravi conseguenze del blocco sulle condizioni di vita e sui diritti fondamentali degli abitanti della Striscia sono state oggetto di una vasta mole di report e denunce di associazioni per i diritti dell’uomo, sia palestinesi, che internazionali ed israeliane, concordi nel designare la situazione come vera e propria catastrofe umanitaria.
Tra queste conseguenze spiccano e si cumulano diverse crisi.
Anzitutto, la crisi energetica, aggravata dai bombardamenti, che sottrare il 76% dell’energia elettrica necessaria a far fronte ai bisogni essenziali della popolazione, che può utilizzare elettricità solo per 4 – 6 ore al giorno. Accanto ad essa, la crisi dell’educazione scolastica, tra sovraffollamento e mancanza di strutture, personale e risorse, accompagnata da una crisi del benessere psicofisico della popolazione, soprattutto dei minori, testimoniata dalla gravità dei traumi infantili diffusi, con l’ONU che a settembre 2014 stimava in 373.000 il numero di bambini e minori di Gaza affetti da disordini post-traumatici e in necessità di assistenza piscologica. Si segnala, a tal proposito, la conferma da parte del Norwegian Refugee Council dell’uccisione nei bombardamenti di Gaza di dodici bambini che l’organizzazione stava assistendo in percorsi di recupero da traumi. Ancora, il collasso del settore sanitario, con enormi difficoltà di gestione della pandemia (sui doveri di lotta al COVID-19 spettanti alle potenze occupanti, v. Longobardo) e delle patologie ordinarie. Tra diversi medici, vittima dei bombardamenti assieme a 12 familiari anche il Dott. Ayman Abu al-Ouf, primario di medicina interna dell’Al-Shifa Hospital di Gaza, che aveva coordinato la risposta al COVID-19 nella Striscia.
Il tutto in un quadro di complessivo collasso economico causato del blocco, la cui pressione sull’economia di Gaza secondo la United Nation Conference on Trade and Development ammonta a 16.7 miliardi di dollari in dieci anni, e che richiederebbe 838 milioni di dollari l’anno di aiuti per sollevare la popolazione della striscia dalla soglia di povertà.
Di simile avviso il Comitato Internazionale della Croce Rossa, che fin dal 2010 denuncia l’impossibilità di fronteggiare la situazione disperata (“dire situation”) di Gaza tramite aiuti umanitari, sottolineando come l’unica soluzione sostenibile appaia la rimozione del blocco.
Sul piano giuridico, rileva notare che il Segretariato Generale dell’ONU si è espresso in diverse occasioni ed inequivocamente sull’illegalità internazionale del blocco di Gaza.
Dapprima, nel Report sulla situazione dei diritti umani nel territorio palestinese occupato del 2013, Il Segretario Generale ha affermato che appariva evidente da dichiarazioni ufficiali di funzionari israeliani che il blocco fosse stato imposto per esercitare pressioni sui gruppi armati palestinesi presenti nella Striscia. Tuttavia, si evidenziava come a pagare le conseguenze di tale politica fosse la popolazione civile, ingiustamente colpita e sottoposta a gravi privazioni (“hardships”)per atti commessi da terzi, in violazione dell’art.33 della quarta Convenzione di Ginevra del 1949 (cui corrisponde analoga norma consuetudinaria), che proibisce punizioni collettive (Report 2013, par. 22). Nell’analogo Report del marzo 2015 per la ventottesima sessione del Consiglio per i Diritti Umani, il Segretariato Generale ha dunque concluso che il blocco “contravviene al diritto internazionale”, richiedendone ad Israele la totale rimozione (“full lifting”) (Report 2015, par. 34 e 74).
Il rapporto tra blockade e status internazionale di Gaza è poi oggetto di dibattito a seguito del ritiro delle truppe israeliane dall’interno del territorio, nel 2005, con Israele che ha però mantenuto il controllo dello spazio aereo e delle acque territoriali di Gaza, nonché della quasi totalità dei confini di terra, incluso il controllo sul transito di persone e merci.
Ad un anno di distanza dal disengagement, questi profili di controllo dei confini e di esercizio de facto dell’autorità da parte di Israele sul territorio di Gaza spinsero proprio la Corte Suprema Israeliana, allora presieduta da Aharon Barak, nel cd. Targeted Killing Case, a concludere nel senso dell’applicabilità del diritto internazionale umanitario che regola l’occupazione militare alla Striscia (Public Committee against Torture v. Government of Israel – par. 18). La Corte mutò poi orientamento nel 2008, nel cd. Power Cuts Case, in cui concluse che Israele rimaneva vincolata al rispetto del diritto dei conflitti armati e ai doveri di protezione dei civili da esso stipulati, tra cui consentire il passaggio di beni essenziali ed elargire permessi di transito per questioni di necessità, anzitutto mediche. Tali obblighi, tuttavia, venivano inquadrati come spettanti ad Israele come stato parte di un conflitto armato in corso, più che come attuale potenza occupante (Jaber Al-Bassiouni Ahmed and others v. Prime Minister and Minister of Defence – par. 11 e 12).
A partire dal 2008, dunque, in letteratura si è determinato un ampio e serrato dibattito sulla possibilità di considerare Gaza ancora occupata ai sensi del diritto internazionale (v. a titolo esemplificativo Darcy e Reynolds, contra Shany). In questo dibattito si è progressivamente affermato il cd. “approccio funzionale” (v. in particolare Gross, pp. 52 ss.) al diritto internazionale dell’occupazione militare, inteso a valorizzare come elemento decisivo dell’applicabilità di tale regime giuridico il controllo effettivo delle forze straniere su un territorio, anche in assenza di truppe di terra dislocate all’interno del territorio stesso (v. Ferraro). Questa posizione ha raccolto il consenso, tra molte organizzazioni, anche del Comitato Internazionale della Croce Rossa, che nel Report del 2015 su “Diritto internazionale umanitario e sfide dei conflitti armati contemporanei” ha assunto come propria posizione il citato orientamento (pp. 11 e 12). Da ultimo, l’emergente consenso sulla persistente configurabilità di Gaza come territorio ancora occupato è stato segnalato nel 2014 dal Procuratore della Corte Penale Internazionale, nel Report ex art. 53(1) dello Statuto di Roma (‘Comoros Report’) sui possibili crimini internazionali commessi durante l’abbordaggio della Mavi Marmara da parte dell’esercito israeliano, in cui si affermava che la visione prevalente nella comunità internazionale circa l’autorità che Israele continua ad esercitare sulla Striscia supporta la conclusione che essa equivalga a controllo effettivo del territorio, soddisfacendo dunque i requisiti richiesti per la configurabilità dell’occupazione dall’art. 42 del Regolamento annesso alla IV Convenzione dell’Aia sulle leggi e gli usi della guerra terrestre (v. Comoros Report, par. 27).
Benvenisti ha recentemente sostenuto che i doveri di protezione spettanti alla potenza occupante siano insufficienti a tutelare i diritti fondamentali della popolazione di Gaza, e che dunque gli obblighi internazionali spettanti allo Stato che imponga blockades prolungate siano più ampi e si estendano ben oltre quelli discendenti dal diritto dell’occupazione.
Al netto di tali insufficienze, il regime giuridico che più nitidamente delinea le responsabilità delle forze in campo rimane il diritto internazionale umanitario, o Jus in bello, nel suo nesso col diritto penale internazionale, sia dal punto di vista delle responsabilità della potenza occupante, sia sul piano dei mezzi e dei metodi di conduzione delle ostilità.
Il diritto internazionale umanitario ha a che vedere anzitutto col casus belli dell’ultima escalation: la vicenda degli espropri forzati a danno dei palestinesi del quartiere di Gerusalemme est di Sheikh Jarrah.
E’ infatti a seguito delle tensioni e delle violenze che hanno accompagnato questi espropri, assieme a quelle verificatesi nell’area della Moschea di Al-Aqsa, che Hamas ha comunicato ad Israele l‘ultimatum precedente agli ultimi attacchi.
A tale proposito, mentre rimangono profili di discussione circa l’attribuzione ad Israele dei numerosi obblighi internazionali derivanti dal diritto dell’occupazione in relazione alla sola Gaza, nessun dubbio, invece, circonda lo status della Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est.
La comunità internazionale, è ormai noto, ha intimato la cessazione dell’occupazione e delle annessioni israeliane in questi territori. Da ultimo il Consiglio di Sicurezza, nella risoluzione n. 2334 del 2016, condannava fermamente la costruzione e l’espansione degli insediamenti e le correlate – a proposito di Sheikh Jarrah – «confische, demolizioni di abitazioni e sgomberi» di civili Palestinesi susseguitesi negli anni. La risoluzione sottolineava, inoltre, la «insostenibilità dello status quo» per la soluzione del conflitto, richiamando i paesi terzi a «distinguere, in tutti i rilevanti rapporti, tra i territori dello Stato di Israele e i territori occupati a partire dal 1967» e, soprattutto, intimando ad Israele di smantellare gli insediamenti «costruiti a partire dal marzo 2001». Politica degli insediamenti ritenuta, in linea con la Advisory Opinion della Corte Internazionale di Giustizia del 2005 sulla costruzione del muro (al par. 120), una «flagrante violazione» della Quarta Convenzione di Ginevra del 1949, «priva di valore giuridico».
La mole di risoluzioni concordanti sul tema, in effetti, semplicemente riafferma alcuni principi fondamentali del diritto internazionale dell’occupazione, tra cui l’art. 49, VI cpv. della citata Quarta Convenzione di Ginevra, che vieta alla potenza occupante di «trasferire parte della propria popolazione civile in territorio occupato». Questo divieto non solo ha natura consuetudinaria, ma la sua trasgressione è considerata:
1) una grave violazione del sistema di protezione delle Convenzioni, ai sensi dell’art. 85, par. 4, lett. a del Primo Protocollo Addizionale alle Convenzioni del 1977, e
2) un caso paradigmatico di crimine di guerra, ai sensi dell’art. 8(2)(b)(viii) dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale, consistente nel «trasferimento, diretto o indiretto, ad opera della potenza occupante, di parte della propria popolazione civile nei territori occupati o la deportazione o il trasferimento di tutta o di parte della popolazione del territorio occupato all’interno o all’esterno di tale territorio».
Anche a causa di tali premesse, è paradossale che la vicenda degli espropri di Sheikh Jarrah sia stata inquadrata da diversi quotidiani italiani come una mera “disputa” su immobili.
La vicenda è infatti risalente, ma il suo snodo fondamentale più recente si determina nell’ultimo decennio. L’organizzazione di coloni Nahalat Shimon, infatti, ha proposto nel 2008 alle autorità israeliane un piano per la distruzione delle case palestinesi, lo sgombero dei 500 palestinesi residenti nell’area e la costruzione di un quartiere ebraico di 200 unità abitative. Un progetto che – a giudizio delle organizzazioni a tutela della multietnicità e pluriconfessionalità di Gerusalemme – si inserisce nel quadro di una mobilitazione delle organizzazioni di coloni al fine di circondare di insediamenti la “città vecchia”.
Gli espropri forzati di Sheikh Jarrah, infatti, hanno suscitato dapprima la condanna dell’Alto Commissario per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, che ne ha richiesto ad Israele il blocco immediato, sottolineandone l’illegalità e la possibile rilevanza penale internazionale. Successivamente, lo stesso Segretario Generale ha esortato Israele a fermare gli espropri e le demolizioni.
In maniera ancora più articolata, la cd. ‘disputa sulle case’ ha spinto 190 organizzazioni per i diritti umani di tutto il mondo a sottoscrivere una denuncia diretta al Procuratore della CPI, chiedendo immediate indagini, nel quadro di quelle già autorizzate ed ufficialmente in corso, sugli espropri forzati di Sheikh Jarrah come condotte rilevanti di crimini di guerra ai sensi dello Statuto di Roma.
Questo trattato, così come tutta l’esperienza storica della giustizia penale internazionale contemporanea, è esclusivamente incentrato sul perseguimento di responsabilità degli individui, incluse alte cariche di Stato, ma non degli Stati in sé, profilo che – di converso – impegna il diritto internazionale generale relativo agli illeciti imputabili agli Stati come soggetti giuridici. Tuttavia, la norma dello Statuto di Roma che criminalizza il trasferimento di civili della potenza occupante in territorio occupato, cioè il citato art. 8(2)(b)(viii), si contraddistingue, rispetto a tutte le altre fattispecie di crimini di guerra, per l’espressa menzione di una condotta dello Stato occupante, rafforzando il nesso tra crimine internazionale dell’individuo e illecito statale:quella – appunto – di transfer, penalmente rilevante sia se attuata direttamente dallo Stato stesso, sia se realizzata indirettamente (v. Kearney).
Tale peculiarità spinge a ritenere che il bene giuridico tutelato da questo crimine abbia effettivamente una consistenza autonoma rispetto a quelli tutelati dalle altre fattispecie, includendo autodeterminazione, identità culturale dei gruppi e dei territori sottoposti ad occupazione straniera, ed abbracciando in definitiva la protezione dalla denazionalizzazione, come processo prodromico di colonizzazione e annessione.
La vicenda di Sheikh Jarrah, quindi, appare ancora più significativa, sia sul piano giuridico-internazionalistico, sia come emblema delle rappresentazioni altamente selettive e delle caratterizzazioni decontestualizzanti emerse nel dibattito italiano, in cui anche le pratiche più manifestamente funzionali ai processi di colonizzazione ed annessione, internazionalmente illecite e potenzialmente rilevanti come crimini internazionali, sono state narrate, come si è visto, come contese immobiliari di vicinato.
Diversi, inoltre, sono i profili di rilevanza penale internazionale di mezzi e metodi di conduzione delle ostilità nell’escalation militare in esame. Poiché tali profili richiedendo un’analisi più approfondita, ci occuperemo di essi nella seconda parte di questa riflessione.
Gli autori sono grati a Lorenzo Gradoni e Giulia Pinzauti per i preziosi commenti ricevuti a proposito dei temi discussi nel post (che rappresenta i punti di vista dei soli autori).
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