QUALE GENOCIDIO AL DI FUORI DELLA CONVENZIONE OMONIMA? INTRODUZIONE AL DIBATTITO
Gabriele Della Morte (Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano)
Prima di essere codificato nella Convenzione internazionale sulla prevenzione e repressione del crimine di genocidio, approvata il 9 dicembre del 1948, il termine «genocidio» fece la sua prima apparizione in una pubblicazione che Lemkin, giurista discendente da una famiglia di ebrei polacchi, preparò durante il secondo conflitto mondiale e diede alle stampe verso la fine del 1944 negli USA. Si trattava di un imponente studio di quasi 700 pagine sui soprusi contenuti nelle leggi che la Germania aveva approvato nelle varie zone di occupazione (Axis Rule in Occupied Europe: Laws of Occupation – Analysis of Government – Proposals for Redress, Washington D.C., Carnegie Endowment of International Peace, 1944). In esso si faceva tesoro di precedenti approfondimenti sugli eccidi di massa e si attribuiva al «crimine senza nome» – come lo aveva definitivo Churchill in un incontro con Roosevelt del 24 agosto 1941 –– una denominazione.
Quest’ultima era inserita nel Capitolo IX, intitolato «Genocide», del volume sopra riportatoe ilcui incipit recitava, incontrovertibilmente: «new conceptions requires new terms». Nonostante il notevole sforzo compilativo, il volume di Lemkin non convinse un giurista coevo e attento come Hersch Lauterpacht, che lo ritenne «un documento storico erudito [ma non considerabile] correttamente, come un contributo al diritto» (sui parallelismi tra la vita di Lauterpacht, promotore dei «crimini contro l’umanità», e di Lemkin, inventore del «genocidio», rimando al volume di Philippe Sands, La strada verso est, Milano, Guanda, 2016, da cui ho tratto il giudizio, p. 161). La storia gli avrebbe dato torto: nonostante sarebbero occorsi 50 anni per giungere alla prima condanna internazionale per il crimine di genocidio – ad opera del Tribunale penale internazionale per il Ruanda nel caso Akayesu – il termine continua ad esprimere una singolare unicità e rappresenta una parola-chiave nel dibattito internazionalistico. Una manifestazione di quest’ultimo è il frequente ricorso alla nozione anche al di là dell’ambito applicativo della Convenzione medesima, con riferimento a stragi e massacri occorsi in periodi antecedenti alla relativa approvazione oppure caratterizzati da elementi difformi da quelli richiesti ai sensi dell’articolo 2 della Convenzione del 1948. L’ultimo esempio in tal senso è uno statement del 24 aprile 2021 del Presidente degli Stati Uniti d’America, Biden, sul riconoscimento del genocidio armeno, mentre solo due giorni prima la Camera dei Comuni britannica aveva approvato una mozione bi-partisan, priva di forza vincolante e non avallata dall’esecutivo, che riconosce come genocidio la repressione cinese contro la minoranza musulmana degli uiguri nello Xinjiang.
È possibile immaginare degli effetti di tipo giuridico riconducibili a tali provvedimenti e, in caso di risposta, affermativa, quali? E ancora: quali conseguenze potrebbero derivarne sul piano delle relazioni internazionali? Da quest’ultima prospettiva appare rilevante osservare come la nuova Presidenza USA si sia decisamente posta in rotta di collisione rispetto alla precedente amministrazione, revocando l’Executive Order 13928 attraverso il quale Trump aveva deliberato sanzioni e restrizioni di ingresso a carico di alcuni funzionari della Corte penale internazionale.
Ma a monte di tali considerazioni persiste un interrogativo, che investe anche gli approfondimenti condotti dagli storici, sul piano dell’adoperabilità di una nozione di carattere giuridico (quella di genocidio ai sensi della Convenzione omonima) al di fuori dei limiti posti dallo strumento normativo che la definisce.
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Altrettanto interessante la questione relativa al recente riconoscimento di un genocidio – ad opera di Da’esh e nei confronti degli Yazidi – da parte di UNITAD, un team investigativo e non un organo giurisdizionale, dichiarato una settimana fa dallo Special Advisor Karim Khan.