diritto internazionale pubblico

Dal 24 aprile 1915 al 24 aprile 2021: il riconoscimento del genocidio armeno da parte del Presidente Biden nel diritto internazionale

Emanuela Pistoia (Università di Teramo)

L’anniversario numero 106 del genocidio degli Armeni   ̶  per la precisione, l’anniversario della retata di Costantinopoli con cui ha avuto inizio la vicenda storica chiamata dagli Armeni Metz Yeghern e dai Turchi 1915 olayları  ̶  sarà ricordato come straordinario grazie alla breve dichiarazione con cui il Presidente americano Joe Biden ha espresso il proprio cordoglio riferendosi a essa con il nomen di genocidio. Come si sa, la Turchia moderna nega non gli eccidi  ̶  salvo ammetterli per un’entità inferiore a quella, pari all’incirca a un milione e mezzo di vittime, usualmente riconosciuta dagli storici non turchi  ̶  ma precisamente la loro qualificazione come genocidio. E lo fa con una protervia che ha un effetto catalizzatore per l’identità della nazione armena, essendo essa stessa profondamente legata all’identità nazionale turca (Pistoia, “Una questione di identità. La lite turco-armena sul nome “genocidio” per i massacri del 1915-1916”, in Lattanzi, pp. 107-117). A tacer d’altro per brevità, si ricordi che, in Turchia, chiamare “genocidio” le vicende del 1915-1916 può essere perseguito come reato di “vilipendio all’identità nazionale turca” (Türklük), ai sensi del codice penale. Turchia e Armenia a tutt’oggi non intrattengono relazioni diplomatiche: la ragione principale va probabilmente rintracciata nella guerra del Nagorno Karabakh, a fronte dello stretto legame politico fra Turchia e Azerbaijan che di quella regione è il sovrano territoriale; ma la controversia sul riconoscimento del genocidio armeno ha certo il suo peso.

È giuridico, oltre che politico e morale, il filo che unisce i massacri, le deportazioni, le marce della morte verso il deserto di Deir ez-Zor, gli stupri, le espropriazioni perpetrate contro il popolo armeno di Anatolia a partire dal 24 aprile 1915, alla dichiarazione del Presidente USA Joe Biden che tali fatti chiama “Armenian genocide”?

La connotazione giuridica del filo non solo esiste, ma è multiforme.

La più immediatamente evidente tra le sue possibili trame si collega alla norma imperativa sul divieto di genocidio, la quale non solo esiste ormai con certezza, così come sono certe le conseguenze particolari in termini di responsabilità statale collegata alla sua violazione (Gianelli, “Is Customary Law on the Prohibition to States to Commit Acts of Genocide Applicable to the Armenian Massacres?”, in Lattanzi, Pistoia, pp. 127-133), ma con altrettanta certezza si applica anche ai comportamenti genocidari posti in essere da Stati (mentre, come noto, la Convenzione contro il genocidio del 1948 è incentrata sull’obbligo statale di prevenire e reprimere atti di genocidio perpetrati da individui) (Lattanzi, Garanzie dei diritti dell’uomo nel diritto internazionale generale, Milano, 1983, p. 225 e, sullo stato attuale del diritto internazionale generale v. ancora Gianelli, op. cit., pp. 127-128).

Così, il “riconoscimento del genocidio” da parte di uno Stato terzo in linea di principio può costituire una conseguenza speciale della grave violazione di una norma imperativa di diritto internazionale generale qual è il divieto di genocidio: potrebbe essere valutato come rifiuto di tale Stato di riconoscere come legittima la situazione creatasi in conseguenza del genocidio, ovvero come rifiuto di prestare aiuto o assistenza nel mantenere tale situazione, in conformità con l’art. 41, par. 2 del Progetto di articoli della Commissione del diritto internazionale sulla responsabilità internazionale degli Stati. Sempre in ipotesi, il “riconoscimento del genocidio” da parte di uno Stato terzo può anche costituire una conseguenza di tale grave illecito erga omnes, potendosi applicare l’art. 48, par. 1 del Progetto. In particolare, l’art. 48, par. 2, lett. b) consente a qualsiasi Stato non qualificabile come “leso”, ai sensi dell’art. 42, di invocare l’adempimento di un obbligo di riparazione ad opera di un altro Stato per violazione di un obbligo verso la comunità internazionale nel suo insieme. È proprio questo il caso del genocidio armeno: poiché le vittime erano sudditi dell’Impero ottomano, in relazione a esso nessuno Stato risulta “leso”.

Si deve però sottolineare come il Presidente Biden non faccia alla Turchia alcuna richiesta: egli non invita, cioè, né il Presidente Erdogan, né la Repubblica turca nel suo complesso, a riconoscere che i gravissimi atti perpetrati più di un secolo fa contro gli Armeni di Anatolia avessero tutte le caratteristiche del genocidio, né tantomeno esorta la Turchia a considerare altre modalità di soddisfazione, oppure azioni di restituzione di proprietà ai legittimi proprietari, incluse congregazioni religiose o la Chiesa ortodossa ovvero cattolica armene, o ancora risarcimenti in denaro a favore dei discendenti delle vittime. Non sembra appropriato neppure considerare la dichiarazione del Presidente Biden alla stregua di una misura lecita contro la Turchia per assicurare la riparazione nell’interesse dei beneficiari dell’obbligo violato, alla stregua dell’art. 54 del Progetto. Infatti, essa non è in alcun modo rivolta contro la Turchia, tanto da puntualizzare, a scanso di equivoci: “We do this [s’intende: riconoscere le sofferenze del popolo armeno e dichiarare che le atrocità subite vanno qualificate come genocidio] not to cast blame”. Quanto alla possibilità di inquadrare la dichiarazione del Presidente Biden nell’art. 41, par. 2, con riferimento alla situazione creatasi in esito al genocidio di un secolo fa, essa non convince proprio per il lasso di tempo trascorso, nel corso del quale in quei territori si sono verificate trasformazioni profonde ben oltre quelle causate dal genocidio, oltre che per il fatto che la riunione della diaspora armena nella penisola anatolica non sembra essere in gioco. Peraltro, la dichiarazione neppure ne parla, così come non parla delle restituzioni di beni materiali.

La trama delle conseguenze particolari ricollegabili alla violazione grave del divieto imperativo di genocidio appare dunque inconsistente. Non è escluso che altri facciano valutazioni diverse, magari mancando di attribuire rilevanza giuridica alla dichiarata intenzione “not to cast blame”, così da rinvenire in modo implicito, nelle parole del Presidente Biden, l’invito alla Turchia ad ammettere che le atrocità del 1915-1916 abbiamo avuto la finalità di sterminare la nazione armena oltre ogni giustificabile forma di repressione interna dovuta alla guerra con l’Impero russo (sul mancato fondamento storico di questa giustificazione da parte turca v., per tutti, Bryce, The Treatment Of Armenians In The Ottoman Empire 1915-16, His Majesty’s Stationery Office, Miscellaneous No. 31, (A. Toynbee comp. 1916), pp. 627, 629, 631, 633).

Peraltro, la dichiarazione del Presidente Biden adopera un lessico e un fraseggio molto attenti a non prendere posizione su alcuna delle questioni giuridiche controverse che costituiscono il presupposto del ricorso agli articoli 41 e 48. Da essa non emerge, cioè, se si ritenga il divieto imperativo di genocidio già cristallizzato il 24 aprile 1915 (in senso contrario Schabas, p. 57 e Gianelli, op. cit., p. 136), né la dichiarazione contiene il minimo indizio sulla questione se, in caso contrario, faccia applicazione in via retroattiva del divieto imperativo affermatosi nel diritto internazionale generale pochi decenni dopo (possibilità negata da Gianelli, op. cit., pp. 137-138). Un’altra questione accuratamente evitata è quella del titolo per cui la Turchia moderna dovrebbe farsi carico delle conseguenze del gravissimo illecito indicato nella dichiarazione: se in quanto Stato successore dello Stato autore dell’illecito (l’Impero ottomano) che oramai si è estinto oppure, nella diversa prospettiva della continuità  tra Impero ottomano e Repubblica turca, a titolo di autore dell’illecito (sul punto v. specialmente Avedian, pp. 797-820). È possibile che questa cautela abbia motivazioni squisitamente politiche, essendo volta a limitare la prevedibile irritazione turca con l’evitare affermazioni che avrebbero scatenato puntualizzazioni avverse, peraltro con il risultato di indebolire il punto essenziale relativo al nomen.

Tuttavia proprio tali omissioni, unitamente all’attenta considerazione del testo della storica dichiarazione, rendono preferibile una diversa valutazione giuridica. Infatti, tra gli ormai numerosi riconoscimenti del genocidio armeno operati da vari Stati, quello del presidente americano ha la sua cifra nella preoccupazione di prevenire futuri atti del genere, che ne costituisce causa e finalità. Questo l’esordio: «Each year on this day, we remember the lives of all those who died in the Ottoman-era Armenian genocide and recommit ourselves to preventing such an atrocity from ever again occurring» (corsivo mio). Poche righe dopo, la precisazione che «we remember so that we remain ever-vigilant against the corrosive influence of hate in all its forms», e ancora «[w]e do this … to ensure that what happened is never repeated», per infine solennemente affermare «Let us renew our shared resolve to prevent future atrocities from occurring anywhere in the world». Si è ipotizzato che negare un genocidio storicamente provato costituisca una violazione dell’obbligo di prevenire il genocidio (sul punto, per quanto specificamente concerne il genocidio armeno, Dadrian, pp. 327-328). Le parole del Presidente Biden sembrano incanalarsi in questa visione. La decisa presa di distanza dalla condotta duramente negazionista della Turchia non vuole colpire questo Paese, ma scongiurare la ripetibilità delle politiche genocidarie ovunque e da qualunque Stato perpetrate. Per questo la sua valenza giuridica appartiene non alle norme secondarie della responsabilità, ma a quelle primarie: in particolare, all’obbligo di diritto internazionale generale di prevenire il genocidio, il cui contenuto contribuisce appunto a individuare.

Il filo giuridico che lega vicende remote nel tempo a una dichiarazione dei nostri giorni disegna anche un’altra trama. Chiamare “genocidio” i fatti del 1915-1916 risponde all’interesse sensibilissimo di rendere giustizia alle vittime, ai loro discendenti e al popolo armeno nel suo insieme, nella logica di assicurare quel diritto alla memoria e alla verità ormai riconosciuto nel quadro delle Nazioni unite anche sulla scia della pioneristica prassi della Corte interamericana dei diritti dell’uomo (Latino, “The Armenian Massacres and the Price of Memory: Impossible to Forget, Forbidden to Remember”, in Lattanzi, Pistoia, op. cit., pp. 199-204). La dichiarazione del Presidente Biden ha certamente avuto questo effetto, come testimoniano le reazioni commosse che ha suscitato nelle comunità armene di tutto il mondo. Si è osservato che in diritto internazionale il diritto alla memoria ha una doppia anima poiché, oltre a trovare tutela nelle norme secondarie che costituiscono il contenuto della responsabilità aggravata per violazione grave di una norma imperativa, di cui si diceva, è anche oggetto di un obbligo primario (ibidem, p. 226). Il riconoscimento del genocidio ad opera di uno Stato terzo dimostra che quest’obbligo primario esiste e si applica a tutti i soggetti della comunità internazionale.  Anche nella prospettiva della memoria e della verità a beneficio delle vittime e dei loro discendenti la dichiarazione del Presidente Biden va ricondotta pertanto a una norma primaria di diritto internazionale generale piuttosto che alle norme secondarie sulla responsabilità degli Stati.

Da ultimo, la questione delle questioni: si attaglia il nomen “genocidio” ai massacri armeni sistematicamente condotti a partire dal 24 aprile 1915? Talvolta si dice ancora che gli eventi storici necessitino di una più accurata valutazione, e il Presidente Erdogan non ha perso l’occasione di riprendere l’argomentazione. Una commissione di riconciliazione turco-armena ha operato tra il 2002 e il 2004 con l’incarico di studiare i fatti e sviluppare il dialogo tra le parti, senza però avere successo. Non si è invece mai arrivati all’istituzione della commissione storica bipartisan prevista nel secondo dei due Protocolli firmati da Armenia e Turchia nel 2009 e mai ratificati.Per la verità, i fatti storici appaiono accertati con un notevole grado di approfondimento, grazie alla monumentale documentazione emersa già nell’immediatezza dei fatti e resa disponibile in misura sempre maggiore in tempi recenti (come ad esempio Vartui Karakhanian, Viganò, La Santa Sede e lo sterminio degli Armeni nell’Impero ottomano. Dai documenti dell’Archivio Segreto Vaticano e dell’Archivio Storico della Segreteria di Stato, Milano, 2016. Tra le opere più significative, Akçam, Bloxham, e Flores). Soprattutto, è stato dimostrato che quanto accaduto al popolo armeno di Anatolia a partire dal 24 aprile 1915 corrisponde alla definizione moderna di genocidio quale applicata dai Tribunali penali internazionali per il Rwanda e per la ex-Yugoslavia: in particolare, con riferimento agli eventi verificatisi fino grossomodo alla metà del 1916, è ricostruibile lo specifico intento di sterminare la nazione armena (così, diffusamente, Lattanzi, “The Armenian Massacres as the Murder of a Nation?”, in Lattanzi, Pistoia, op. cit., pp. 43-73). Nei limiti di una sintetica dichiarazione di tenore politico, e nonostante la mancata distinzione tra crimine individuale e crimine dello Stato, le nette parole del Presidente Biden testimoniano questa raggiunta consapevolezza.

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