Il dramma dei vicoli ciechi: sui principi costituzionali come causa di esclusione dell’illecito internazionale
Lorenzo Acconciamessa (Università degli Studi di Palermo, Université Paris 1; Membro della Redazione)
1. Il diritto internazionale e il diritto interno disciplinano, ciascuno per propria parte, le loro interazioni che, tutt’altro che armoniose, prendono «la forme d’un enchaînement de petites ‘batailles’, voire d’une ‘guerre’ entre les deux systèmes qui a ses gagnants et ses perdants»(Malenovsky, p. 292). In questo continuo duello per la supremazia (Palombino), in cui solitamente il diritto internazionale ha la meglio, gli ordinamenti interni reclamano la possibilità di far prevalere i principi costituzionali supremi o fondamentali rispetto ad obblighi internazionali con essi incompatibili. Siamo solitamente abituati a guardare tale questione dalla prospettiva degli ordinamenti interni e dei contro-limiti che questi pongono all’ingresso di norme di diritto internazionale, quando ritenute in contrasto con valori irrinunciabili dell’ordinamento costituzionale. Ciò che occorre chiarire, capovolgendo la visuale, è se il diritto internazionale sia disposto a cedere, adattandosi e conformandosi ad esse, alle pretese del diritto interno. Tale adattamento si concretizzerebbe in una temporanea e condizionata rinuncia, da parte del diritto internazionale, alla propria supremazia, riconoscendo la giustificabilità o scusabilità di un atto pur in contrasto con degli obblighi internazionali.
Il tema di ricerca è in genere (ma, come si vedrà, a torto) ritenuto tipicamente italiano. Nella dottrina italiana, in ogni caso, è stato principalmente Conforti a sostenere che «non è del tutto azzardata la tesi secondo cui l’illiceità sia esclusa quando l’osservanza di una norma internazionale […] urti contro principi fondamentali della Costituzione dello Stato» (Diritto internazionale, Editoriale Scientifica, Napoli, 2014, p. 402). Tale possibilità viene solitamente contestata in quanto implicante un’attribuzione agli Stati della facoltà di violare à la carte i propri obblighi internazionali, minandone l’effettività (Bartolini, p. 1319). Tuttavia, se soggetta a condizioni rigorose (come, d’altronde, tutte le cause di esclusione dell’illecito) potrebbe comporre alcuni dei conflitti inter-ordinamentali, contribuendo anche allo sviluppo del diritto internazionale verso una più ampia tutela di valori (quelli relativi alla tutela dei diritti umani) che quest’ultimo tende ancora a far soccombere rispetto ad altri interessi.
Poste tali premesse, bisogna riconoscere che ragionare sulla questione porta inevitabilmente a scontrarsi con una serie di vicoli ciechi, chiusi da muri probabilmente insormontabili. Quando Giulio Diena, nel 1901, si chiedeva se il diritto interno potesse implicare delle limitazioni degli obblighi internazionali degli Stati (v. Introduzione), non tutte le strade per giustificare tale affermazione erano, momentaneamente (o definitivamente?), sbarrate. È vero, il principio di non invocabilità del diritto interno (o di supremazia del diritto internazionale) era già stato sancito nel lodo arbitrale Montijo del 1870, secondo cui «a treaty is superior to the Constitution, which the latter must give away» e ripreso nel lodo del 14 settembre 1872 nel caso Alabama. Ma esso è stato poi riaffermato nell’opinione consultiva resa dalla Corte permanente di giustizia internazionale (CPGI), il 31 luglio 1930, nel caso Greco-Bulgarian Communities («the provisions of municipal law cannot prevail over those of the treaty») e, con specifico riferimento al diritto costituzionale, nell’opinione della stessa Corte del 4 febbraio 1932 sul Treatment of Polish Nationals, il cui celebre par. 62 afferma che «a State cannot adduce as against another State its own Constitution with a view to evading obligations incumbent upon it under international law». Peraltro, se già nel 1957 Sir Gerald Fitzmaurice affermava che quello della non invocabilità costituisce «one of the great principles of international law, informing the whole system and applying to every branch of it» (1957, p. 85), esso sarebbe stato anche successivamente codificato, dapprima, nell’art. 27 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969 e, più di recente, negli artt. 3 e 32 del Progetto di articoli del 2001 sulla responsabilità dello Stato per atti internazionalmente illeciti, elaborato dalla Commissione del diritto internazionale (CDI).
È opportuno ricordare brevemente che il principio di non invocabilità può essere guardato da una duplice prospettiva: (1) sotto il profilo dei rapporti tra ordinamenti, prescrive la superiorità o prevalenza del diritto internazionale sul diritto interno; (2) sotto il profilo della responsabilità internazionale, comporta che uno Stato non possa invocare il proprio diritto interno per giustificare o scusare la violazione di un obbligo internazionale. Sul piano interno, esso sarà certamente libero di far prevalere il proprio diritto, ma di ciò dovrà rispondere sul piano internazionale (Fitzmaurice, The Law and Procedure of the International Court of Justice, Vol. 2, Cambridge University Press, Cambridge, 1986, p. 590). Su tale secondo aspetto si concentrerà questo breve scritto. O meglio, sulle strade che possono essere percorse per provare ad aggirarlo e, come già detto, sui vicoli ciechi che inevitabilmente incontra chi tenti di farlo.
Sullo sfondo resterà la domanda che, a titolo puramente retorico, poneva Conforti: «non è questa [la non invocabilità dei principi costituzionali] una posizione estremamente rigida – anche se radicata in un’opinione antica e diffusa – che è da rivedere alla luce di una moderna e realistica visione del diritto internazionale che contemperi i valori internazionalistici con quelli interni?» (cit., p. 403). Il punto di partenza, dunque, è l’abbandono di una logica di rigida separazione, tale per cui possa dirsi che diritto interno e diritto internazionale, «having no common field» sarebbero ciascuno supremo nella propria sfera e, certamente, il diritto internazionale sarebbe «supreme in the international field» (Fitzmarice, 1957, op. cit., p. 79).
2. Il primo sentiero è quello relativo alla possibile formazione di una specifica norma consuetudinaria che riconosca l’invocabilità dei principi fondamentali della Costituzione come causa di esclusione dell’illecito internazionale. Chi scrive ha tentato di percorrere tale strada, ricollegandosi a chi, come De Sena, nel commentare la sentenza n. 238/2014 della Corte costituzionale italiana, si chiedeva «if the judgment at issue is also to be deemed a significant contribution to the progressive development of a regional customary rule, according to which European States may invoke constitutional provisions on access to justice, as a circumstance capable of precluding the wrongfulness of their failure to comply with conflicting international legal duties» (p. 31, corsivo in originale; si veda anche Pisillo Mazzeschi, p. 28). Al riguardo, un orientamento è certamente riscontrabile. Bisogna però riconoscere che, pur volendo estendere l’esame a prassi non riguardante esclusivamente il diritto di accesso alla giustizia, non sembra ancora possibile concludere per l’esistenza di una norma consuetudinaria, per almeno quattro ordini di ragioni.
In primo luogo, e se a trainare detto orientamento vuole porsi l’Italia, bisogna considerare che la sentenza 238/2014 rinuncia espressamente a incidere sul diritto internazionale auspicando, de jure condendo, che sia la norma primaria (sull’immunità) a modificarsi, in futuro (si vedano Gradoni e… Gradoni). In secondo luogo, la prassi esistente, nella forma di pronunce di giudici interni, risulta troppo scarsa e contraddittoria per ritenere che essa sia «general» e cioè «sufficiently widespread and representative, as well as consistent», come richiesto dalla Conclusion 8 delle Draft conclusions on the identification of customary international law della CDI (o, se si vuole seguire la strada della consuetudine regionale, dal par. 2 della Conclusion 16). Non potendo ripercorrere interamente tale prassi in questa sede, basti considerare che il recente volume di Palombino, che si è occupato del tema, conclude che la formazione di detta norma sarebbe «anything but implausible» ma che, per il momento, non risulta esistente (op. cit., pp. 404-405). In terzo luogo, salve rare eccezioni, l’opinio che emerge dalle pronunce non è quella di considerare che la prevalenza dei principi costituzionali sugli obblighi internazionali sia giustificata o scusata sul piano internazionale. I giudici interni, spesso invocando i controlimiti, ritengono che sia a livello interno che tali principi prevalgono, impregiudicate le conseguenze su quello internazionale. Nella sentenza del 15 dicembre 2015 della Corte costituzionale tedesca, addirittura, si riconosce espressamente che la sentenza stessa, illecita secondo il diritto internazionale, potrà far sorgere la responsabilità internazionale della Germania. In quarto luogo, bisogna considerare che, in alcuni dei casi in ipotesi inquadrabili in tale orientamento, le pronunce interne hanno suscitato reazioni e proteste, che non possono non considerarsi nel procedimento di identificazione della consuetudine. Ad esempio, quanto all’asserita prevalenza del diritto alla tutela giurisdizionale dei diritti fondamentali sull’immunità degli Stati, non può non notarsi che alla sentenza 238/2014 ha fatto seguito una nota verbale inviata dalla Germania all’Italia, la quale afferma che «[i]l principio dell’immunità degli Stati non può essere limitato dal diritto interno di uno Stato, nemmeno dai principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale nazionale». Ma si consideri anche la reazione suscitata dagli ostacoli frapposti dalla Russia all’esecuzione delle sentenze della Corte europea dei diritti umani (Corte EDU). Già nel 2016 la Commissione di Venezia ha duramente contestato la riforma costituzionale che consente alla Corte costituzionale russa di pronunciarsi sull’eseguibilità delle pronunce della Corte EDU. Quando, poi, la sentenza resa da quest’ultima sull’equa soddisfazione dovuta nel caso Yukos è stata dichiarata non eseguibile dalla Corte costituzionale russa, con una sentenza del 19 gennaio 2017, il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa l’ha immediatamente contestata, affermando che «[it] threatens the very integrity and legitimacy of the system of the ECHR». Possiamo quindi ritenere che, per i quattro ordini di ragioni suesposti e almeno allo stato attuale, tale strada non sembra percorribile.
3. Vi è, però, chi ha pensato di percorrere un diverso sentiero, che porta a spostare il piano della questione dal conflitto tra ordinamenti, interno e internazionale, al conflitto tra obblighi (o meglio, valori) internazionali. Secondo Nollkaemper, ad esempio, bisogna considerare che «[d]ecisions to refrain from giving effect in domestic legal orders to international law may be based on rules of domestic law that conform to or give effect to another norm of international law» (p. 76). Chi aderisce a tale orientamento, proponendo una concezione sostanziale e funzionale del principio di supremazia, ritiene che esso non verrebbe in gioco quando i principi costituzionali invocati coincidano con, o tutelino valori cristallizzati in, norme di diritto internazionale. Come sostenuto da Sir Bethlehem, «the State must be entitled to favour and follow the formulations of its own law, broadly concordant with its international obligations, without this giving rise to a breach of international law».
Per giustificare tale affermazione si potrebbe invocare la teoria di George Scelle sul dédoublement fonctionnel. Questo a condizione che lo si faccia alla luce di una precisazione di Cassese, secondo cui per stabilire se e quando degli organi interni agiscano, da un punto di vista funzionale, come organi della comunità internazionale, non sarebbe sufficiente considerare la natura e sostanza dell’atto compiuto: «what matters is to enquire into when and why they promote metanational values or long-term, communal objectives […] or instead take action for the exclusive purpose of safeguarding national (or short-term, self-centered) interests» (p. 219). Sarebbe allora necessario distinguere, utilizzando una estrema semplificazione della classificazione di Pedersen, tra giudici interni che adottano un paradigma internista o sovranista e quelli che adottano un paradigma internazionalista pur nell’invocazione di principi costituzionali (p. 228). In questo secondo caso potrebbe dirsi che i giudici interni, operando come organi della comunità internazionale, difenderebbero l’ordinamento internazionale da sé stesso (Cataldi, p. 47).
Per fare solo degli esempi, nel primo gruppo rientrerebbe la già menzionata sentenza della Corte costituzionale tedesca del 15 dicembre 2015. In quel caso i principi invocati per giustificare (sul piano interno) l’adozione di una legge incompatibile con un trattato, precedentemente concluso e debitamente ratificato, erano quelli della democrazia e della sovranità parlamentare (intesa come potere di ogni Parlamento democraticamente eletto di legiferare senza essere costretto e limitato dalle scelte delle precedenti legislature). Si tratta, evidentemente, come è stato sostenuto, di «valeurs qui sont propres à l’État et au droit allemands, mais qui ne sont pas universelles» (Malenovsky, op. cit., p. 312). O ancora, vi rientrerebbe la già citata sentenza Yukos della Corte costituzionale russa, che ha ritenuto di essere (internamente e internazionalmente) giustificata nel non dare esecuzione a una sentenza della Corte EDU, in quanto necessario per tutelare i principi costituzionali di equità e uguaglianza in tema di imposizione fiscale, poiché funzionali a consentire allo Stato di adempiere ai propri obblighi previdenziali e assistenziali nei confronti dei cittadini.
Nel secondo gruppo, invece, rientrerebbero casi in cui i giudici interni si preoccupano di sottolinearne la conformità dei principi interni a valori della comunità internazionale. Si pensi sempre alla sentenza 238/2014 e, in generale, alla prassi italiana in tema di immunità, almeno per come letta da alcuni (si vedano Guazzarotti, Palombino e Salerno, e, oltre che i summenzionati Cataldi, De Sena e Gradoni). Ma per uscire dall’Italia, si consideri il caso Görgülü deciso in tempi più risalenti dalla Corte costituzionale tedesca, che ha invocato la tutela dei diritti umani di terzi che siano lesi da una pronuncia della Corte EDU al cui giudizio non abbiano partecipato, per giustificarne la mancata o parziale esecuzione. O ancora, alla pronuncia Kadi II resa dalla Corte di giustizia dell’Unione europea (in questo caso, equiparabile a un giudice interno) il 18 luglio 2013, la quale ha precisato che l’annullamento dell’atto interno (all’Unione) di attuazione di una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite si rendeva «indispensabile per garantire il giusto equilibrio tra la preservazione della pace e della sicurezza internazionali e la tutela delle libertà e dei diritti fondamentali della persona interessata, che costituiscono valori comuni all’ONU e all’Unione». Posizioni analoghe sulla questione dell’attuazione interna delle sanzioni individuali disposte dal Comitato delle sanzioni del Consiglio di sicurezza, nell’ambito della lotta al terrorismo, sono state adottate, ad esempio, dalla Corte suprema inglese nel caso Al-Ghabra e della Corte federale canadese nel caso Abdelrazik.
Chiarita tale distinzione, si potrebbe sostenere che, nel momento in cui il giudice interno invochi principi costituzionali che tutelano interessi propri anche dell’ordinamento internazionale, il conflitto andrebbe risolto in quest’ultimo ambito. Di qui l’affermazione di coloro che, come Peters, ritengono che «conflicts between international law and constitutional law should be resolved by balancing in the concrete case, not on the basis of a normative hierarchy» (p. 42).
Ma è qui che si incontra quello che, almeno per il momento, è il secondo vicolo cieco. Per quanto i giudici interni ritengano, espressamente o implicitamente, che il bilanciamento da loro compiuto sarebbe avallato dal diritto internazionale, i giudici internazionali la pensano diversamente. E ciò almeno per quanto riguarda il principale conflitto che questi casi, ove trasposti sul piano internazionale, sollevano. Si tratta del conflitto tra il principio di sovrana eguaglianza, che sottende alle norme sulle immunità degli Stati e degli organi statali, e il principio della dignità umana, che sottende al diritto alla riparazione di gravi violazioni dei diritti umani e all’esigenza di punizione dei colpevoli. Basti pensare che il ricorso alla teoria dédoublement fonctionnel e alla tecnica del bilanciamento era stato proposto dal giudice van den Wyngaert nella sua opinione dissenziente nel caso Arrest Warrant (par. 5; ma si vedano anche l’opinione dei giudici Higgins, Kooijmans e Buergenthal nel medesimo, nonché quelle dei giudici Yusuf e Bennouna in Jurisdictional Immunities of the State). In tali pronunce, tuttavia, la Corte internazionale di giustizia (CIG) ha ritenuto (forzando la prassi) esistente una regola consuetudinaria che riconosceva, nel primo caso, l’immunità personale di un Ministro degli Affari Esteri anche in caso di crimini contro di guerra e contro l’umanità e, nel secondo, l’immunità degli Stati dalla giurisdizione anche in relazione a gravi violazioni del diritto internazionale umanitario. Al bilanciamento avrebbe potuto ricorrere ove, ritenuta inesistente la regola (come sostenuto da Gradoni e Tanzi in relazione a quella rilevante in Germania c. Italia), avesse fatto ricorso ai suddetti principi. La Corte EDU, per sua parte, ha rinunciato a compiere essa stessa un bilanciamento, adeguandosi a quello che ritiene imposto dal diritto internazionale (si vedano, in particolare, Al-Adsani, Kalogeropoulou eJones). Ma, per cambiare settore materiale, bisogna rilevare che anche i tribunali arbitrali investitore-Stato tendono ad escludere che le norme costituzionali (e internazionali) sulla tutela dei diritti umani possano prevalere sugli obblighi internazionali derivanti dai trattati bilaterali di investimento (BIT) (si veda CSM c. Argentina, par. 121, in cui è stato pretestuosamente ritenuto che, posto che la Costituzione argentina tutela il diritto di proprietà, non sussiste un contrasto con il BIT).
4. Il tema del bilanciamento, tuttavia, suggerisce un’altra, probabilmente l’ultima, possibile strada, ancora poco battuta (forse perché anch’essa sbarrata?). Potrebbe realizzarsi, infatti, un secondo spostamento di prospettiva. Piuttosto che ragionare sul bilanciamento sul piano delle norme primarie, potrebbe invocarsi una norma secondaria che espressamente richiede un bilanciamento. Si finirebbe, quindi, in una strada parallela alla prima, tornando a trattare di esclusione dell’illecito, ma nell’ambito di una norma già presente nell’ordinamento internazionale: la necessità codificata all’art. 25 del Progetto di articoli. Essa, infatti, «is currently understood to concern a predicament resulting from a clash of interests» (Paddeu, pp. 412). Sono le sentenze gemelle del Tribunale di Firenze n. 2468 e 2469 del 6 luglio 2015 ad indicarci (indirettamente) tale direzione. In esse, dopo aver fatto riferimento alla «necessità giuridica, imposta dalla Costituzione italiana, di negare l’immunità in ossequio ai principi supremi dell’ordinamento», il giudice fiorentino ha invocato l’esimente della necessità, sia pur di diritto interno, per rigettare la domanda di manleva proposta dalla Germania nei confronti dell’Italia. Al riguardo, ha affermato che detta esimente «trova, nel caso in esame, fondamento normativo interno nell’art. 2045 c.c., essendo l’Italia stata costretta a consumare l’illecito […] dalla necessità di salvare il personalissimo diritto alla tutela, in via giurisdizionale, della dignità [dell’attore]».
Si potrebbe pertanto tentare di trasporre tale esimente dal piano interno al piano internazionale, immaginando una ipotetica Germania c. Italia n. 2, in cui la prima agisca dinnanzi alla CIG lamentando la mancata attuazione del decisum della sentenza del 2012. E si potrebbe ipotizzare che l’Italia, non potendo negare la violazione dell’art. 94 della Carta delle Nazioni Unite, invochi la necessità. Ciò richiederebbe inevitabilmente qualche forzatura, e il nostro sentiero prenderebbe le sembianze di una corsa a ostacoli. Come è noto, infatti, per una pluralità di ragioni l’art. 25 del Progetto di articoli è stato formulato in termini negativi e prevede, al par. 1, che uno Stato non possa invocare lo stato di necessità come causa di esclusione di un illecito a meno che l’atto necessitato costituisca l’unico mezzo per proteggere un interesse essenziale da un pericolo grave e imminente (lett. a) e sempre che tale atto non leda un interesse essenziale dello Stato leso o della comunità internazionale (lett. b). Il par. 2 aggiunge che la necessità non può in ogni caso essere invocata qualora l’obbligo violato lo escluda espressamente (lett. a) o lo Stato abbia contribuito a creare la situazione di necessità (lett. b).
Il primo ostacolo, forse il più facilmente superabile, consisterebbe nel dimostrare che la tutela del diritto di accesso alla giustizia (o, più ampiamente, dei diritti umani) costituisca un interesse essenziale dello Stato. È in questa sede che verrebbe in rilievo il diritto costituzionale dello Stato (nel nostro ‘fanta-processo’, italiano). Il diritto interno (costituzionale) opererebbe come un mero fatto, idoneo a dimostrare il contenuto e l’essenzialità dell’interesse, in ossequio a un altro consolidato principio di diritto (del processo) internazionale, esplicitato dalla CPGI nell’opinione del 25 agosto 1925 Certain German interests in Polish Upper Silesia. Ad esempio, nel lodo Urbaser c. Argentina dell’8 dicembre 2016 un tribunale arbitrale, nel valutare l’invocabilità della necessità per giustificare la violazione di un BIT, ha riconosciuto che «the Government of Argentina [was] under an obligation, based on Constitutional Law as well as on elementary policy of protecting the population’s health, to preserve their access to drinking water» (par. 773).
Il problema riguarda il significato che si attribuisca al termine interesse e se questo possa riferirsi alla tutela di un diritto individuale. La possibilità di inquadrare la tutela dei diritti umani nell’ambito della necessità è stata esclusa da Conforti: «[n]eanche bisogna riportare ad una norma generale sulla necessità i casi in cui lo Stato agisca per difendere “diritti” e non semplici “interessi”, sia pure vitali, come è il caso dei diritti umani fondamentali che lo Stato è tenuto a osservare nei confronti della sua popolazione e che lo possono indurre, per rispettarli, a violare norme meno cogenti» (op. cit., p. 402). Tale obiezione non sembra, tuttavia, insuperabile. È stato infatti rilevato che, a seguito dell’incredibile espansione del diritto internazionale, è ben possibile che l’interesse che si intende proteggere con la condotta necessitata sia tutelato nell’ordinamento internazionale da una qualche regola o principio (Paddeu, op. cit., pp. 416-17). Peraltro, la CIG non sembra dare rilievo alla distinzione tra interesse essenziale, ma non cristallizzato in norme di diritto, e diritti che, in quanto giuridicamente protetti, non potrebbero essere invocati ai sensi dell’art. 25. Nel caso Gabćikovo-Nagymaros ha riconosciuto l’essenzialità dell’interesse alla tutela dell’ambiente (par. 53), nonostante nell’opinione consultiva sulle Nuclear Weapons avesse riconosciuto che esiste un obbligo generale di prevenzione del danno ambientale che «is now part of the corpus of international law relating to the environment» (par. 29). Anzi, così come il diritto costituzionale può dimostrare l’essenzialità dell’interesse per lo Stato, l’esistenza di norme internazionali può dimostrarne l’essenzialità per la comunità internazionale (sull’individuazione di un legal interest, l’opinione dissenziente del giudice Tanaka nel caso South-West Africa, p. 252). Ed infatti, la CDI ha specificato che l’interesse protetto dalla condotta necessitata può essere anche riferito alla comunità internazionale (Progetto di articoli, Commentario all’art. 25, par. 15).
In sintesi, l’essenzialità dell’interesse alla tutela dei diritti umani sarebbe dimostrata, per lo Stato, dal proprio diritto costituzionale e, per la comunità internazionale, dall’esistenza del diritto internazionale dei diritti umani, in quanto posto a tutela di valori fondamentali della medesima (Ryngaert, 2010, p. 84; Sloane, 2014, p. 508). La necessità è stata infatti invocata per svariati interessi e la stessa CDI ha superato l’approccio restrittivo secondo cui un interesse sarebbe essenziale solo quando riferito alla sopravvivenza dello Stato (Commentario all’art. 25, par. 14; contra, Sempra Energy c. Argentina, par. 348).
Chiarito che la tutela dei diritti umani potrebbe qualificarsi come interesse essenziale, dovrebbe dimostrarsi che quest’ultimo fosse esposto a un pericolo grave e imminente (Commentario all’art. 25, par. 15). La nozionesembra invocare una minaccia natura fisica, tangibile. Ed infatti, nei rari casi in cui la necessità è stata riconosciuta in relazione alla tutela dei diritti umani si trattava di reagire a minacce che mettevano in pericolo lo Stato, come ente, o la popolazione. Nel caso Urbaser, ad esempio, l’Argentina sosteneva che la popolazione si trovasse in una situazione di estrema vulnerabilità per ciò che concerne l’accesso all’acqua potabile (par. 698-702). Il grave pericolo era riferito, quindi, alla sopravvivenza della popolazione, nel contesto della crisi argentina e dei connessi «economic, institutional and social disturbances suffered by the country and its population» (par. 717). Tuttavia, la limitazione a un pericolo materiale (in quel caso, per la vita umana) è connaturata al distress di cui all’art. 24 del Progetto di articoli, e nulla sembra escludere che l’art. 25 prenda in considerazione una gamma più ampia di pericoli, qualificati alla luce dell’interesse rilevante.
Anche ove si volesse interpretare in termini ampi la nozione di pericolo, e almeno nel caso qui trattato, il vero ostacolo consisterebbe nel dimostrare che la violazione dell’obbligo – la mancata attuazione della sentenza della CIG – rappresentasse l’unico mezzo disponibile per proteggere l’interesse. È più che probabile che la CIG riterrebbe che degli strumenti alternativi fossero disponibili, come la riapertura dei negoziati con la Germania, suggerita del resto nella pronuncia inattuata (al par. 104) posto che nell’art. 25 del Progetto di articoli «the word “way” […] is not limited to unilateral action but may also comprise other forms of conduct available through cooperative action with other States» (Commentario all’art. 25, par. 15). O, addirittura, l’Italia avrebbe potuto precedere spontaneamente al pagamento delle riparazioni, come suggerito da Palchetti (p. 47) dato che «the plea [of necessity] is excluded if there are other (otherwise lawful) means available, even if they may be more costly or less convenient» (CDI, Progetto di articoli, Commentario all’art. 25, par. 15). Nel caso del giudizio fiorentino del 2015, ciò sarebbe stato possibile accogliendo la domanda di manleva proposta dalla Germania. Ma, a parere di chi scrive, la risposta a tale questione varia a seconda da quale sia l’interesse che si intende proteggere. A costo di formulare un giudizio inficiato da un eccessivo human-rightism, se lo scopo è garantire la tutela giurisdizionale della dignità umana (come ritenuto dal giudice fiorentino nelle sentenze gemelle), in assenza di rimedi alternativi (negati dalla Germania), allora la negazione dell’immunità era l’unico mezzo.
Ma, nel caso di specie, si porrebbero anche problemi in merito al requisito del non aver contribuito a causare la situazione di necessità. Tale condizione è stata interpretata in passato in termini particolarmente stringenti. Nel caso National Grid c. Argentina un tribunale arbitrale ha ritenuto che le misure adottate dall’Argentina per fronteggiare la crisi avessero contribuito ad aggravarla e, quindi, a causare lo stato di necessità (par. 260). Un approccio meno restrittivo è stato adottato in Urbaser, oveil tribunale ha ritenuto che al fine di accertare tale elemento sarebbe necessario valutare l’esistenza di un nesso di causalità tra la condotta dello Stato la situazione di necessità, oltre ad elementi che facciano emergere che esso sapesse o avrebbe dovuto sapere che le proprie azioni l’avrebbero causata (par. 711-14).
Arrivando, infine, al motivo per cui ci è addentrati in tale sentiero impervio, ovvero il bilanciamento espressamente richiesto dall’art. 25 del Progetto di articoli (Commentario all’art. 25, par. 17), bisogna considerare che esso è a senso unico in quanto propende per l’interesse leso dalla condotta necessitata. Ciò non esclude che si possa provare a realizzarlo. L’inquadramento della questione nell’ambito dell’art. 25 richiederebbe alla CIG quel bilanciamento che nel caso Germania c. Italia ha ritenuto di non poter compiere, avendo forzato la prassi per individuare una regola consuetudinaria asseritamente disciplinante il caso di specie. Nell’ambito della necessità, intesa come causa escludente l’illecito, invece, essa potrebbe realizzare esattamente quella valutazione in concreto tra, da un lato, il diritto sacrificato (l’immunità e il sottostante principio di sovranità) e, dall’altro, l’interesse alla tutela della dignità umana. Con ciò la CIG non starebbe ricavando una norma non scritta sulla base di principi, pur in assenza di prassi, posto che l’eventuale «prevalenza dell’interesse essenziale [tutelato dalla condotta necessitata] non esprime […] la superiorità di una corrispondente fattispecie astratta, risultando, viceversa, decretata in funzione di considerazioni etiche ed equitative, rapportate alle concrete esigenze della collettività» (Scalese, p. 117). Il giudizio di bilanciamento di cui all’art. 25, cioè, non produce una nuova regola né modifica la regola consuetudinaria suppostamene esistente. L’art. 25, espressamente, richiede che il giudice «must look at the situation as a whole and determine […] what interest ought to prevail or, what is the same, what is the lesser of two evils» (Paddeu, op. cit., p. 417), prendendo in considerazione la gravità e irreparabilità del pregiudizio che deriva all’uno e all’altro interesse e gli sforzi compiuti dagli Stati per evitare la situazione di necessità. Qui, restando nell’esempio dell’immunità, ci si scontrerebbe con l’importanza che il principio di sovranità riviste, tanto per lo Stato leso, quanto per la comunità internazionale nel suo complesso. Ma il giudizio di proporzionalità che il bilanciamento richiede potrebbe mostrare che sarebbe tanto più grave il pregiudizio reso alla dignità umana rispetto alla negazione dell’immunità, almeno nel caso concreto.
5. In conclusione, le possibili strade paiono al momento sbarrate, nessuna forse definitivamente e, quanto all’ultima, a seconda delle circostanze del caso concreto.
La strada della formazione in via consuetudinaria di una specifica causa di esclusione dell’illecito, probabilmente, sarà nuovamente solcata alla luce della recentissima pronuncia della Central District Court di Seul, resa l’8 gennaio 2021. In quella sede, espressamente richiamando i precedenti italiani, il giudice sud-coreano ha negato l’immunità al Giappone, condannandolo al risarcimento dei danni nei confronti di vittime delle violenze sessuali perpetrate da membri dell’esercito giapponese durante l’occupazione militare della Corea, nel corso della Seconda Guerra Mondiale (si veda Branca). Anche detta pronuncia, infatti, è stata letta come «an exemplar of constitutional rights trumping incompatible public international law norms» (Ryngaert e Kim), ma bisogna comunque considerare che, come rilevato supra, l’opinio che sembra sorreggerla non ritiene che la condotta sia giustificata sul piano del diritto internazionale.
La seconda strada, almeno nel caso dell’immunità, sembra preclusa dalla supposta esistenza di regole consuetudinarie, che esclude la possibilità di ricorrere a un bilanciamento, indipendentemente dal fatto che i principi invocati dai giudici interni tutelino valori consustanziali (condivisi tra ordinamenti interni e internazionale, per utilizzare un termine di Tzanakopoulos). Che il bilanciamento degli interessi, secondo il diritto internazionale, propenda ancora a favore dell’immunità è stato anche ritenuto nella recente pronuncia della Corte EDU del 16 marzo 2021, nel caso Hussein e altri c. Belgio. In quella sede essa ha escluso nuovamente (liquidando la questione senza troppe argomentazioni) che il diritto d’accesso alla giustizia risulti violato quando la limitazione (la chiusura di un processo per gravi crimini internazionali precedentemente instaurato sulla base del criterio della giurisdizione penale universale ‘assoluta’, e nell’ambito del quale le vittime chiedevano un risarcimento come parti civili) derivi dall’esigenza di considerare anche le regole di diritto internazionale generale in materia di immunità, in quel caso, degli organi statali. Che tale approccio sia eccessivamente tradizionalista e non più, a parere di scrive, in linea con l’attuale assetto dei valori dell’ordinamento internazionale, è un altro discorso. Ma trattarlo spingerebbe verso innumerevoli altri sentieri, e non è possibile farlo in questa sede. Quanto, infine, alla terza strada, almeno in linea di principio nulla sembra escludere che la tutela dei diritti umani possa essere inquadrata nell’ambito della necessità, e che il diritto costituzionale possa fungere da fatto idoneo a dimostrare l’essenzialità dell’interesse per lo Stato (si veda supra, il caso Urbaser). Nella specifica controversia tra Germania e Italia sarebbero gli altri stringenti requisiti della difesa in oggetto ad escluderne l’invocabilità. Ciò non toglie che, da un punto di vista generale, l’inquadrabilità della tutela dei diritti umani nell’ambito dello stato di necessità merita di essere approfondita.
No Comment