Possono i capi di governo recedere dai trattati senza coinvolgere i parlamenti nazionali?
Deborah Russo (Università di Firenze)
Nell’ottica dei governi sovranisti o nazionalisti, il recesso dai trattati rappresenta uno strumento chiave della strategia di recupero della sovranità ceduta. Così, negli ultimi anni è divenuto una scelta «di tendenza»: basti menzionare, per limitarsi a qualche esempio, al recesso da vari trattati di rilevante valore politico deciso dal presidente americano Trump, al recesso del Regno Unito dall’Unione europea (noto come Brexit), alle varie denunce che hanno interessato lo Statuto della Corte penale internazionale nonché al recesso dalla Convenzione di Istanbul deciso solo qualche settimana fa dal Presidente turco Erdogan (v. qui per alcune reazioni).
Al di là delle ragioni politiche sottese a ciascuna iniziativa, ciò che le accomuna è il loro trarre fondamento in decisioni assunte dai capi di governo senza coinvolgere i rispettivi parlamenti nazionali. Questa prassi, oltre a determinare tensioni nei rapporti interni tra poteri dello Stato, nell’ottica del diritto internazionale suscita la questione delle conseguenze dell’eventuale incostituzionalità del recesso sugli effetti del trattato per lo Stato recedente (Nesi, «Diritto internazionale e diritto interno nel recesso unilaterale dai trattati», in Rivista di diritto internazionale, 2019, p. 978; Helfer, «Taking Stock of Three Generations of Research on Treaty Exit», in Israel Law Review, 2019, p. 106 ss., nonché Russo).
Se infatti alla domanda se i capi di governo possano recedere dai trattati senza coinvolgere i rispettivi parlamenti rispondono le disposizioni delle Costituzioni nazionali, non è altrettanto evidente quali regole internazionali si applichino qualora il recesso violi le norme costituzionali sulla competenza nel caso in cui queste ultime – come spesso avviene – prevedano il coinvolgimento parlamentare. E ciò perché la Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati (d’ora in poi CdV), mentre ha previsto, all’art. 46, che la violazione delle norme di importanza fondamentale – quindi incluse le norme costituzionali – sulla competenza a concludere i trattati possa incidere sulla validità del trattato, nulla ha disposto riguardo alla violazione delle norme costituzionali sulla competenza a recedere, né i relativi lavori di codificazione offrono indicazioni al riguardo. Probabilmente la scelta dei redattori della CdV è dipesa dall’assenza di una prassi rilevante in materia.
Negli ultimi anni, tuttavia, la questione della legittimità costituzionale del recesso è venuta in rilievo in alcuni casi significativi. In particolare, nel 2019, l’Alta Corte del Nord Gauteng, in Sudafrica, ha dichiarato incostituzionale il recesso dallo Statuto di Roma deciso dal Governo sudafricano senza prima richiedere l’autorizzazione del Parlamento. Questa sentenza ha fatto leva sulla norma della Costituzione sudafricana che richiede l’autorizzazione del Parlamento per la ratifica dei trattati, la quale, secondo l’Alta Corte del Nord Gauetng, si deve applicare anche al recesso, in ossequio al principio della separazione dei poteri dello Stato e a tutela delle prerogative della rappresentanza popolare. Sul fronte degli effetti del trattato, la sentenza ha imposto al governo del Sudafrica di revocare il recesso, in applicazione dell’art. 68 della CdV. Sull’onda dell’esperienza sudafricana, un ampio gruppo di parlamentari delle Filippine ha sollevato un’analoga questione di legittimità costituzionale rispetto al recesso dallo Statuto di Roma che era stato deciso dal Presidente filippino Duterte senza coinvolgere il parlamento, ricavandone, però, solo una declaratoria di incompetenza da parte della Corte Suprema.
A conclusioni simili a quelle relative al caso sudafricano è giunta invece la Corte Suprema del Regno Unito a proposito della legittimità costituzionale della Brexit (v. qui). Essa ha infatti confermato la sentenza pronunciata dalla High Court of England and Wales che ha ricavato dal principio costituzionale della Parliamentary Sovereignty l’esigenza che il recesso deciso dall’allora premier Theresa May fosse autorizzato dal parlamento.
Qualche mese fa, tensioni istituzionali hanno circondato il recesso degli USA dal Trattato Open Skyes, proposto dal presidente Trump senza rispettare le condizioni previste da una legge federale che chiedeva, tra l’altro, che la decisione sul recesso da quel trattato venisse prima notificata al Congresso. La scelta di Trump di violare questa disposizione è stata duramente contestata dalla Commissione degli affari esteri del Congresso, che in una lettera al Presidente ha definito il recesso, tra l’altro, contrario alla Costituzione, evidenziando così uno scenario conflittuale che potrebbe evolvere nella proposizione di una causa davanti alla Corte Suprema degli Stati Uniti (cfr. De Sanger).
Segni di evoluzione della prassi relativa alla competenza a recedere dai trattati si ricavano anche sul fronte delle riforme costituzionali adottate dagli Stati negli ultimi decenni, le quali riflettono la tendenza a introdurre norme costituzionali che richiedono il coinvolgimento del parlamento non solo nelle funzioni di treaty-making ma anche in quelle di treaty-terminating, per tutte o per alcune categorie di accordi internazionali. In particolare, secondo i risultati di una ricerca che ha comparato i dati di 101 Costituzioni, pubblicata nel 2018, la percentuale dei Paesi in cui il governo può recedere dai trattati in modo unilaterale è diminuita dagli anni settanta in poi, dall’89 al 72 per cento. Inoltre, in alcuni degli ordinamenti nazionali che non prevedono una disciplina costituzionale in materia, il coinvolgimento del parlamento nelle procedure del recesso è disciplinato a livello sub-costituzionale da leggi organiche, secondo una prassi che, ad esempio, è tipica dei Paesi che gravitavano nell’orbita sovietica (Verdier e Versteeg). Nell’ottica di una crescente importanza delle norme costituzionali sul treaty-terminating power che tutelano le prerogative del parlamento potrebbe essere letto anche l’art. 50 del Trattato sull’Unione europea (TUE), il quale, introdotto dal Trattato di Lisbona, subordina il potere di recesso dall’Unione al rispetto delle norme costituzionali degli Stati membri. In particolare, se si considera l’art. 50 TUE come una norma di rilievo costituzionale in un ordinamento che presenta alcuni caratteri simili a quelli di un ordinamento federale, la condizione del rispetto delle norme costituzionali nazionali sembra esprimere in sostanza l’esigenza che il ruolo dei parlamenti nazionali sia salvaguardato allorché uno Stato membro decida di recedere dall’Unione.
Considerati nel loro insieme, questi dati valorizzano il ruolo dei parlamenti nazionali nell’esercizio del potere di treaty terminating previsto in modo espresso o tacito dalla maggior parte delle costituzioni nazionali. È pur vero che in molti casi i governi violano le disposizioni costituzionali sulla competenza senza che i parlamenti o altri organi dello Stato si oppongano. Ma la acquiescenza del parlamento è tipica della natura fiduciaria dei rapporti tra governi e parlamenti negli ordinamenti democratici, che esclude nella maggioranza dei casi l’esigenza di rivendicare il rispetto delle procedure costituzionali. Ciononostante, vi possono essere casi in cui la decisione assunta da un governo di recedere da un accordo internazionale non incontri il favore del parlamento. In casi del genere – che potrebbero anche riflettere un generale processo di deterioramento delle garanzie democratiche all’interno di un ordinamento nazionale – il parlamento avrebbe il potere di rivendicare il suo ruolo. Ecco allora che entra in gioco il problema dell’incidenza dell’eventuale incostituzionalità del recesso sul diritto dei trattati.
Al riguardo, alcuni autori hanno suggerito la possibilità di un’applicazione in via analogica dell’art. 46 della CdV, che ricollega alla violazione delle norme costituzionali sulla competenza a concludere i trattati una possibile causa di invalidità del trattato. Occorre tuttavia considerare che l’eventuale accertamento dell’incostituzionalità del recesso per violazione delle prerogative parlamentari non pone in discussione la validità della partecipazione al trattato da parte dello Stato autore del recesso ma, al contrario, opera nel senso opposto di salvaguardarne la partecipazione, finalità, questa, di particolare valore rispetto ai trattati che perseguono interessi generali, come i trattati sui diritti umani o sulla tutela dell’ambiente. L’accertamento dell’incostituzionalità del recesso potrebbe allora produrre delle conseguenze sull’atto relativo al recesso perché, ad esempio, il governo potrebbe essere tenuto sulla base delle norme nazionali a revocarlo. Peraltro, se il recesso venisse ritenuto invalido anche sul piano internazionale per effetto dell’applicazione analogica dell’art. 46 della CdV, il governo potrebbe chiederne la revoca anche oltre i termini previsti dall’art. 68, salvo che le controparti non sollevino obiezioni, possibilità quest’ultima piuttosto remota nel caso dei trattati che perseguono interessi comuni, i quali condividono anche l’interesse alla continuità degli effetti del trattato.
In linea teorica, inoltre, anche gli altri Stati contraenti potrebbero contestare il recesso nel corso della procedura prevista dall’art. 65 della CdV. Infatti, questa disposizione stabilisce che entro tre mesi dalla notifica del recesso gli altri Stati parti possano sollevare obiezioni, senza che siano previste limitazioni riguardo alle ragioni che potrebbero essere addotte. Dal complesso delle disposizioni della CdV non si ricavano dunque motivi che ostano alla facoltà di uno Stato di contestare il recesso non solo per far valere, come spesso avviene, contrarietà relative al merito ma anche per sollevare questioni relative alla competenza. Gli Stati, tuttavia, tendono ad astenersi dal muovere critiche che possono interferire con aspetti considerati di domestic jurisdiction. E ciò benché la stessa disposizione dell’art. 46 della CdV suggerisce che il tema del treaty making power, inteso in senso lato come inclusivo anche del potere di recesso, appartenga a pieno titolo al campo del diritto internazionale, il quale lo disciplina operando un rinvio al diritto costituzionale di ciascuno Stato, mediante un meccanismo che potremmo definire di «adattamento alla rovescia». In quest’ottica, pare legittimo giustificare l’esistenza di meccanismi diretti a raccordare il diritto dei trattati alle disposizioni di diritto interno di importanza fondamentale.
No Comment