Le violazioni dei diritti umani nello Xinjiang: tra la reazione della Cina e il lento risveglio della comunità internazionale
Francesca Capone, Scuola Superiore Sant’Anna
Introduzione: cosa sta succedendo nella regione dello Xinjiang?
Dal 2017 in poi le prove di violazioni dei diritti umani commesse dal governo Cinese ai danni delle minoranze musulmane e turcofone che popolano la regione dello Xinjiang, in particolare la minoranza uigura, hanno iniziato a moltiplicarsi, al punto che non è più stato possibile, nemmeno per Pechino, continuare ad ignorarle. La popolazione uigura viene descritta dal governo centrale di Pechino come uno dei 56 gruppi etnici all’interno di uno Stato multiculturale. La Cina, infatti, ha sempre ignorato le istanze di autodeterminazione degli uiguri, rifiutandosi di riconoscere a questo gruppo lo status di popolazione indigena e ponendo in essere, praticamente da sempre, una politica di repressione. Tale situazione ultimamente si è intensificata e ha trovato una giustificazione anche sul piano internazionale grazie all’inserimento nel 2002 dell’ East Turkestan Islamic Movement (ETIM), un gruppo separatista attivo nella regione, tra i destinatari delle sanzioni imposte dal Consiglio di Sicurezza ONU a individui ed entità che supportano Al-Qaida e l’ISIS.
Da quel momento in poi, l’argomento relativo alla stabilizzazione di una regione di cruciale importanza dal punto di vista economico – basti pensare al fatto che lo Xinjiang è attraversato da tre dei cinque corridoi economici che caratterizzano la componente infrastrutturale della Belt and Road Initiative − è stato utilizzato per porre in essere gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani. Nello specifico, la lotta al terrorismo di matrice jihadista ha fornito al governo una ragione per motivare la creazione dei “campi di rieducazione” per gli uiguri (e per alcuni esponenti delle minoranze kazache e kirghise che risiedono nella regione), in cui hanno transitato fino a due milioni di persone. Oltre ai campi di rieducazione, è utile menzionare l’imposizione dei lavori forzati a chi completa il periodo di detenzione e viene ricollocato altrove, spesso fuori dalla regione, per lavorare in fabbriche designate dal governo, e il programma “Pair Up and Become Family” con cui alle famiglie uigure (spesso rimaste prive della figura maschile) viene imposta la convivenza con un membro del Partito Comunista Cinese. In particolare quest’ultima iniziativa di monitoraggio orwelliano dei nuclei familiari è funzionale al compimento di sistematiche violenze sessuali nei confronti delle donne uigure. Altre tipologie di violazioni riportate da più fonti includono: violenze contro le donne basate sul genere, inter alia sterilizzazioni e aborti forzati, separazione di minori dalla famiglia, torture e trattamenti inumani e degradanti ai danni di minori uiguri accusati di professare la religione dei propri genitori.
Un recente parere legale pubblicato da Essex Court Chambers su richiesta di alcuni attori, tra cui Global Legal Action Network, the World Uyghur Congress e Uyghur Human Rights Project, ha messo in luce le azioni del governo cinese e concluso che le prove esistenti consentono di affermare che «there is a very credible case that acts carried out by the Chinese government against the Uyghur people in XUAR amount to crimes against humanity and the crime of genocide» (par. 1). In particolare, il parere legale, utilizzando la prospettiva del diritto internazionale penale e facendo quindi riferimento alla tassonomia dello Statuto di Roma (di cui la Cina non è parte), chiarisce che i crimini contro l’umanità commessi, in modo esteso e sistematico, ai danni della minoranza uigura includono tutti i reati previsti dall’Art. 7(1)(c) all’Art. 7(1)(i) (par. 4), e altresì il crimine di genocidio, con particolare riferimento agli atti di cui all’Art. 6(c), (d) e (e). Si contesta al governo cinese anche la distruzione sistematica del patrimonio culturale degli uiguri attraverso il danneggiamento di moschee, siti e simboli religiosi. Le immagini satellitari, sempre secondo il parere legale, hanno rivelato che le moschee distrutte finora sono circa 16.000 (par. 60-64) e che quelle ancora in piedi sono state danneggiate e “de-radicalizzate”. Anche se da un punto di vista giuridico non è possibile parlare di “genocidio culturale” (Caligiuri 2015), rileva notare come l’intenzionale distruzione di un bene culturale dal grande valore religioso o identitario possa tradursi in un atto di persecuzione nei confronti di una minoranza, costituendo una prova per ricostruire la mens rea nel crimine di genocidio, un approccio avallato dalla giurisprudenza del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia (The Prosecutor v. Dario Kordić and Mario Čerkez, Judgment, ICTY, IT-95-14/2-T, 26 febbraio 2001, par. 207; si veda Baroncini, a cura di, 2019, p. 67).
Le conclusioni tracciate dal parere legale dovrebbero di per sé suscitare reazioni molto forti da parte della comunità internazionale; si tratta, in fin dei conti, di violazioni di obblighi erga omnes (Picone 2015; Cannizzaro, Diritto Internazionale, Torino, 2020 p. 256) che legittimano, come è noto e come ci insegnano gli Articles on State Responsibility for Internationally Wrongful Acts (ARSIWA), una reazione individuale o collettiva degli Stati non specificatamente lesi dall’illecito, i quali possono invocare la responsabilità della Cina e richiedere la riparazione nell’interesse dei beneficiari delle norme violate (Gaja, “The Position of Individuals in International Law: An ILC Perspective” in European Journal of International Law, 2010, p. 11 ss.). Interessante, e degno di nota, anche il ruolo ascrivibile al Kazakhstan e al Kirghizistan in quanto Stati di origine delle minoranze altresì perseguitate dal governo centrale cinese, i quali al di là dello status, secondo una parte della dottrina, di Stati particolarmente lesi ai sensi degli ARSIWA (Buscemi, 2017, p. 98) possono comunque ricorrere all’istituto della protezione diplomatica, considerata peraltro l’applicabilità nel caso di specie dell’Art. 19 del Progetto della Commissione di diritto internazionale.
Finora però non solo ciò non è avvenuto, ma le gravi accuse esplicitate nel parere legale sembrano non aver minimamente scalfito l’approccio negazionista del governo cinese.
La reazione di Pechino
Per la prima volta lo scorso 22 febbraio il Ministro degli Esteri Cinese si è rivolto al Consiglio dei Diritti Umani, organo intergovernativo, lo ricordiamo, creato per promuovere il rispetto universale e la protezione dei diritti umani di cui fanno parte 47 Stati, tra cui la Cina, eletti dalla maggioranza dell’Assemblea Generale con voto segreto nonostante l’affermazione che «members elected to the Council shall uphold the highest standards in the promotion and protection of human rights» (Assemblea Generale ONU, Ris. A/RES/60/251, par. 9).
Nel suo discorso il Ministro Wang Yi ha prima pronunciato una accorata difesa della rilettura cinese del concetto di diritti umani, spiegando che «people’s sense of gains, happiness and security is the fundamental pursuit of human rights as well as the ultimate goal of national governance»e sottolineando la centralità dei diritti economici, sociali e culturali (non sorprende, quindi, la mancata ratifica del Patto per i diritti civili e politici da parte della Cina). Il Ministro ha poi accusato un non meglio identificato «small number of States» di ricorrere ai diritti umani per interferire negli affari interni delle potenze che non si piegano ad un’interpretazione univoca del concetto, ribadendo l’inefficacia della pressione esercitata.
Nella seconda parte del discorso il Ministro si è concentrato sulle violazioni commesse ai danni della popolazione uigura e, partendo dal presupposto che le politiche implementate nella regione sono state adottate nel rispetto del piano delle Nazioni Unite per prevenire l’estremismo violento e della strategia globale delle Nazioni Unite contro il terrorismo, ha negato la commissione di un genocidio ai danni degli uiguri («between 2010 and 2018, the Uyghur population in Xinjiang increased by nearly 2.55 million»), e ha rigettato le accuse di lavoro forzato («workers of all ethnic groups in Xinjiang can choose professions based on their own will, and enjoy labor rights and interests») e oppressione religiosa («there are more than 24,000 mosques in Xinjiang, and that’s one mosque for every 530 Muslims on average»). Il discorso si è concluso con un invito, rivolto esplicitamente all’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, a visitare la regione.
E le Nazioni Unite? E gli omnes?
In varie sedi e occasioni è stato invocato l’invio di una missione di fact-finding o di una commissione d’inchiesta, ma questi meccanismi, istituiti sotto l’egida delle Nazioni Unite con varie modalità e mandati, sono tutt’altro che risolutivi e necessitano, comunque, del consenso dello Stato interessato per poter operare (in autonomia?) sul suo territorio. Il Segretario-Generale delle Nazioni Unite non si è pronunciato espressamente contro le violazioni commesse dalla Cina (nonostante le sollecitazioni di Human Rights Watch, Amnesty International e svariati altri attori); mentre 5o esperti, sia a titolo individuale sia in quanto membri di gruppi di lavoro, titolari delle così dette «procedure speciali» in seno al Consiglio dei Diritti Umani, hanno apertamente denunciato il comportamento della Cina in relazione sia allo Xinjiang sia alle violente repressioni avvenute a Hong Kong.
Sul fronte omnes le notizie stanno gradualmente prendendo una piega più propositiva. Urge premettere che gli Stati “particolarmente lesi” non si sono preoccupati di agire nell’interesse dei propri cittadini, e neanche gli Stati a maggioranza musulmana, come la Malesia e l’Indonesia, hanno preso una posizione chiara in riferimento alla persecuzione, anche di matrice religiosa, contro gli uiguri. Alcuni Stati, in totale 39, guidati dalla Germania e dal Regno Unito, hanno presentato una dichiarazione di condanna delle violazioni subite dalla popolazione dello Xinjiang sia al Terzo Comitato dell’Assemblea Generale, sia al Consiglio dei Diritti Umani. Altri attori invece, i.e. l’Unione Europea e, per il momento, un esiguo numero di Stati, hanno fatto seguire a manifestazioni, più e meno forti, di condanna, l’adozione di sanzioni. Nello specifico, il Parlamento UE ha adottato due Risoluzioni, la prima il 19 dicembre 2019 e la seconda il 17 dicembre 2020, di condanna nei confronti delle gravi violazioni dei diritti umani perpetrate ai danni della popolazione uigura. Nella seconda risoluzione, il Parlamento UE ha fatto esplicitamente riferimento alla pratica del lavoro forzato e alle multinazionali che traggono vantaggio dalla situazione senza esercitare i dovuti (o meglio auspicabili) controlli sulle supply chains. Il 22 marzo scorso, l’Unione Europea, in aggiunta alle sopra menzionate risoluzioni di condanna, ha imposto sanzioni, che si traducono nel congelamento di qualsiasi attività finanziaria in Europa e in un divieto di viaggio verso l’UE, contro quattro funzionari e un’entità governativa regionale. Le sanzioni adottate, che sono state immediatamente imposte anche dal Regno Unito, sono state varate attraverso il nuovo regime sanzionatorio riservato ai paesi che violano i diritti umani, il cosiddetto EU Global Human Rights Sanctions Regime. La risposta di Pechino non si è fatta attendere e infatti nello stesso giorno il Governo cinese ha sanzionato 10 individui e quattro entità «on the EU side that severely harm China’s sovereignty and interests and maliciously spread lies and disinformation».
Per quanto riguarda le azioni decentralizzate dei pochi Stati che finora hanno preso una posizione netta contro le violazioni commesse dalla Cina, va segnalata, in prima battuta, la reazione muscolare messa in campo dagli Stati Uniti. Già nel 2020, il Congresso statunitense ha approvato l’ Uyghur Human Rights Policy Act of 2020 (un atto sostanzialmente di riprovazione per i crimini contro l’umanità compiuti contro gli uiguri e le altre minoranze), mentre l’ex Presidente Trump, sulla base del Global Magnitsky Human Rights Accountability Act, ha imposto sanzioni economiche e restrizioni di viaggio a quattro individui e un’entità governativa responsabili delle violazioni perpetrate nella regione dello Xinjiang. Sulla scia degli Stati Uniti anche il Canada e l’Olanda hanno pubblicamente e formalmente deplorato le azioni della Cina. Nel dettaglio, la Camera dei Comuni Canadese, senza il supporto dei membri dell’attuale governo, ha recentemente approvato una dichiarazione di condanna del genocidio ai danni della minoranza uigura e ha altresì votato a favore di un emendamento per richiedere formalmente al Comitato Olimpico Internazionale di spostare la sede delle Olimpiadi invernali del 2022 da Pechino ad un’altra destinazione. Il Canada, ha, inoltre, adottato sanzioni contro i medesimi individui e la medesima entità già colpiti dalle misure imposte da Stati Uniti, UE e Regno Unito.
Anche il Parlamento olandese il 25 febbraio scorso ha approvato una mozione che ricalca in buona sostanza quella canadese, i.e. condanna per il genocidio e minaccia di intervento per privare Pechino dei giochi olimpici invernali. Come nel caso del Canada, anche il Parlamento olandese ha dovuto fare i conti con la reticenza dell’attuale governo che ha espresso «great concern»per la situazione, ma ritiene ancora da appurare la responsabilità delle autorità cinesi.
Per quanto riguarda la possibilità di adire un organo giurisdizionale, su tutti la Corte Internazionale di Giustizia (CIG), la prospettiva della qualificazione della situazione come genocidio ha subito innescato la speranza di un ricorso sulla falsariga di quello presentato dal Gambia contro il Myanmar (Application of the Convention on the Prevention and Punishment of the Crime of Genocide, The Gambia v. Myanmar). Peccato che la Cina abbia apposto una riserva alla ratifica della Convenzione del 9 dicembre 1948 per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio, affermando che non si considera vincolata dall’Art. IX della Convenzione, il quale appunto stabilisce la giurisdizione della CIG per tutte controversie tra le Parti contraenti. Sull’ammissibilità della riserva in questione la Corte si è già pronunciata favorevolmente, sottolineando che, anche nel caso di dispute aventi per oggetto violazioni di norme di carattere perentorio, la giurisdizione della CIG si basa sul consenso delle parti (Case concerning Armed Activities on the Territory of the Congo (New Application: 2002) Democratic Republic Of The Congo V. Rwanda, Jurisdiction of the Court and Admissibility of the Application, 3 febbraio 2006, par. 64-65). Ovviamente, le speranze che la Cina accetti la giurisdizione ad hoc della CIG sono a dir poco esigue; forse pari alla possibilità che una Risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite possa riferire, ai sensi dell’Art. 13(b) dello Statuto di Roma, la situazione nella regione dello Xinjiang alla Corte Penale Internazionale senza che la Cina stessa si avvalga del diritto di veto in seno al CdS…
Oltre le sanzioni?
In ultima analisi, è chiaro che interessi economici, politici e strategici continueranno a giocare un ruolo fondamentale e a porre un freno a reazioni collettive centralizzate. Allo stesso tempo è impensabile che 20 anni dopo gli attentati dell’11/09/2001 alcuni Stati si nascondano ancora dietro la retorica, sbagliata, della guerra globale al terrorismo per giustificare azioni qualificabili come genocidio e crimini contro l’umanità. Gli Stati, e non solo quelli che hanno condannato in maniera netta le violazioni commesse dalla Cina, possono agire sul piano internazionale ai sensi dell’Art. 48(2) degli ARSIWA ricorrendo ai canali diplomatici e legali. Sul fronte della diplomazia multilaterale, vale la pena ricordare che esiste la possibilità di sospendere, come avvenuto nel 2011 per la Libia, la partecipazione della Cina al Consiglio dei Diritti Umani. La già citata Risoluzione con cui il Consiglio è stato istituito, prevede, infatti, che l’Assemblea Generale, a maggioranza di due terzi dei suoi componenti, possa interrompere «the rights of membership in the Council of a member of the Council that commits gross and systematic violations of human rights» (Ris. A/RES/60/251, par. 8).
In relazione ai canali legali, archiviate (realisticamente) le chance di vedere la Cina, e i suoi alti funzionari, dinanzi rispettivamente alla CIG e alla CPI per rispondere di genocidio e/o crimini contro l’umanità, restano da considerare gli organismi di garanzia istituiti dai trattati in materia di diritti umani. In particolare, salta all’occhio il ruolo che potrebbe giocare il Comitato per l’eliminazione delle discriminazioni razziali (che come è noto monitora l’implementazione della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale del 1965, di cui la Cina è parte), attualmente nel periodo di massima attività sul fronte interstatale. Ai sensi degli Artt. 11-13, è possibile per qualsiasi Stato contraente attivare la procedura di ricorso interstatale e, in base all’Art. 22, in caso di mancata risoluzione della controversia sull’interpretazione o applicazione della Convenzione, sarà possibile adire la CIG.
Quello che è stato eloquentemente definito the darkest period for human rights in China dal massacro di Tienanmen del 1989 non è ancora finito; non è detto però che le prospettive qui suggerite non vengano effettivamente prese in considerazione.
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