Cineforum non conveniens: quale diritto internazionale cercare nel cinema e quale no
Lorenzo Gradoni, Max Planck Institute Luxembourg for Procedural Law
Ho letto questo testo il 30 novembre 2020 in occasione dell’incontro inaugurale del gruppo di interesse «Cinema e diritto internazionale» della Società italiana di Diritto internazionale e di Diritto dell’Unione europea. La versione qui pubblicata ripristina alcuni brani tagliati, conserva nei limiti del possibile il ritmo dell’originale ed è corredata da una nota bibliografica. Ringrazio Micaela Frulli e Chiara Vitucci per l’invito a riflettere sul tema.
Il mio intervento è in due parti. La prima, più estesa, è sul metodo. Dirò tra poco perché mi è sembrato giusto discuterne all’inaugurazione del Gruppo di interesse SIDI «Cinema e diritto internazionale». La seconda parte, dove esamino il film proiettato stasera, Broken di Mohammed Alatar, è una concreta applicazione del metodo che mi appresto a enunciare, inizialmente in forma polemica, quindi in termini costruttivi. Con un caveat. Quanto sto per dire non riguarda l’uso del cinema a scopi didattici, che è un modo intelligente di introdurre allo studio del diritto internazionale. Questa considerazione, però, non vale per chi è già “introdotto”, quindi non ci riguarda in quanto ricercatori: se la cinematografia può essere utile come ausilio didattico, non è detto che funzioni anche come materiale per la ricerca. Il manifesto del Gruppo di interesse mette l’accento sulla didattica, è vero. Mi sembra tuttavia indispensabile domandarsi se abbia senso fare ricerca su “cinema e diritto internazionale”.
I. Comincio da un semplice assioma: il pensiero di una produzione scientifica sul tema e l’idea stessa di costituire il Gruppo hanno senso se e solo se c’è ragione di credere che il cinema possa dirci qualcosa di interessante sul diritto internazionale. Dirlo a noi, non agli studenti. (Se invece si vuole praticare una cinefilia a soli scopi didattici, allora forse sarebbe meglio farlo nel quadro di un gruppo di interesse sull’insegnamento del diritto internazionale). La domanda, in breve, è: può il cinema aiutarci a scoprire qualcosa sul diritto internazionale? A prima vista, no. Per una ragione che, temo, i promotori del Gruppo troveranno al contempo banale e oltraggiosa. La ragione è che il cinema — che di diritto internazionale si occupa di rado e non necessariamente in modo competente — è per definizione in svantaggio rispetto alle nostre abituali fonti di cognizione: risoluzioni e sentenze, la nostra straripante produzione scientifica o, restando nell’ambito del filmico, lo streaming di un’udienza della Corte, la Corte, quella che si vede nel film. Mi spiego con un esempio. Se vogliamo imparare qualcosa sull’attribuzione del fatto illecito, compitiamo Palchetti, mica ci spaparanziamo davanti a un James Bond sforzandoci di capire se 007 è un organo de iure o de facto di Sua Maestà.
L’impresa che il Gruppo promuove richiede insomma una giustificazione e mi pare che nella letteratura esistente, pochissima sin qui, questa giustificazione manchi. Manca, cioè, una riflessione convincente sul metodo. E infatti l’impresa, nonostante i livelli altissimi di entusiasmo e di impegno, sin qui, secondo me, è fallita. Alludo in particolare a un volume unico nel suo genere e noto a molti di voi: Du droit international au cinema, a cura di Olivier Corten et François Dubuisson, uscito nel 2015 per i tipi di Pedone. Io credo, per andare diritto al punto, che il Gruppo di interesse «Cinema e diritto internazionale» dovrebbe imparare dagli errori di quel volume, senza naturalmente disconoscergli il carattere pionieristico che i suoi curatori a giusto titolo rivendicano («L’objectif est ici […] de tenter de défricher un terrain pratiquement encore vierge»). Chi tra noi, aprendo quel libro, non ha pensato che si sarebbe divertito un mondo leggendolo? Io l’ho pensato, ma l’entusiasmo è svanito molto prima di venire a capo della sue 400 pagine. Nonostante la sapienza e il talento degli autori, il connubio tra dottrina e binge-watching che il libro mette in scena provoca ben presto una sensazione di imbarazzo e noia. Qualcosa è andato storto. Cosa?
Lo stacco. Lo stacco, come si sa, è uno dei sintagmi del montaggio: lo stacco di inquadratura. Il problema sta tutto in come si stacca. Il libro a cura di Corten e Dubuisson stacca… senza veramente staccare. Da cosa? Dalle nostre consuete inquadrature del diritto internazionale. Parto dal presupposto che “diritto internazionale”, nell’accezione più ampia, denota una complessa forma di vita, della quale noi, gli esperti del settore, inquadriamo solo una parte, cruciale, ma pur sempre una parte, cioè il suo aspetto di prassi discorsiva dalle inflessioni normative, quindi, in concreto: lo Statuto della Corte internazionale di giustizia cade nell’inquadratura, il Palazzo della Pace, con le sua soluzioni architettoniche e i suoi emblemi, no; un verdetto della Corte cade nell’inquadratura, i paramenti e il contegno dei giudici, dei suoi ministri del culto, no; un’opinione dissenziente cade nell’inquadratura, l’espressione che si disegna sul volto di un giudice, no. Si noti, però, che ciò che includiamo nelle nostre inquadrature letteralmente non potrebbe esistere senza ciò che escludiamo. L’esclusione, insomma, è impossibile. Ciò che non inquadriamo è sempre e comunque fuoricampo, quindi in qualche modo presente e persino incombente.
Torniamo al libro. Nel titolo — Du droit international au cinéma — «diritto internazionale» è una metonimia, sta per internazionalista, quello che apparentemente stacca e va al cinema. Quivi si rilassa, si emoziona, si abbuffa di popcorn, eppure non riesce a toglierselo dalla mente, il diritto internazionale: lo cerca in quel che i personaggi dicono o lasciano intendere e si irrita se non lo trova o se non ce n’è abbastanza. Lo studioso di diritto internazionale che il libro mette involontariamente in scena si diverte come un bambino, certo, ma in verità, lo ripeto, non stacca affatto dal suo diritto internazionale e si intestardisce a cercarlo dove non dovrebbe: tanto vale che torni a spulciare le sue carte! Cosa importa constatare — e sono spigolature del volume — che i comportamenti ultra vires di 007 sono comunque ascrivibili al Regno Unito, che in una pellicola sul conflitto israelo-palestinese lo status di Gerusalemme è discusso senza riferimenti alle pertinenti risoluzioni del Consiglio di sicurezza, o che in un film di guerra i personaggi travisano i principi del diritto umanitario? E perché mai dovrebbe colpirci che Rambo strapazza la nozione di genocidio o si infischia della sovranità del Vietnam? Può darsi che Woody Allen abbia girato Il dittatore dello Stato libero di Bananas avendo in mente anche il principio di non intervento, ma non è, questo, un sospetto futile? Infine, è il caso di rimproverare a Klaatu, l’alieno dal volto umano che sbarca sul nostro pianeta in Ultimatum alla Terra, una concezione abusiva della legittima difesa? E se Klaatu eccepisse una carenza di jurisdiction to prescribe dei terrestri? Spostandoci ora su un altro piano: abbiamo davvero bisogno di analizzare un film per scoprire che, e cito, «l’applicazione del diritto è resa illusoria dai rapporti di forza», o che «il diritto internazionale non sembra in grado di fornire un linguaggio comune utile al superamento del conflitto», o che è «il diritto del più forte a prevalere»? Queste amare verità possono farci andare i popcorn di traverso ma perché riferirne in un saggio di 50 pagine? Finché il materiale cinematografico è esaminato con queste lenti, il “miglior cinema” resterà, per noi, quello delle aule giudiziarie, le aule vere. Cinemino? No, grazie, oggi pomeriggio c’è Gambia contro Myanmar.
Questa impasse si deve al modo in cui i pionieri del genere si sono rapportati al linguaggio cinematografico. Nel libro si legge, per esempio, che l’esigenza di privilegiare una narrazione attenta alla «umana esperienza», propria del cinema, ostacolerebbe l’analisi degli aspetti giuridici, cioè l’adozione di un approccio «più tecnico». Come se il diritto non fosse anch’esso stesso narrazione (dimenticando, di fatto, almeno James Boyd White e Robert Cover); e come se la narrazione cinematografica non fosse anch’essa altamente tecnica ma ispirata a un’indistinta poetica dell’umano. L’equivoco riguarda dunque entrambi i linguaggi chiamati in causa dall’impresa interdisciplinare che “cinema e diritto” non può non essere.
Prima di parlare del torto che così si fa al cinema, che è l’aspetto che mi preme di più, vorrei dire una parola su come, paradossalmente, anche la “coscienza giuridica”, a queste condizioni, esce impoverita dall’incontro con il cinema. L’internazionalista, nello sforzo di rettificare le letture erronee che questo o quel film dà della sua disciplina, è spinto, più di quanto normalmente farebbe, ad arroccarsi su posizioni ortodosse, certe, come qualcuno che si trovi a dover difendere il vero dal falso: sguaina il manuale! E mentre si rifugia nelle sue illusorie certezze, si perde i “segni” che giungono dall’altra sponda del rapporto interdisciplinare. Il linguaggio cinematografico è a tal punto trascurato, come subito vedremo, che temo si debba parlare di un rapporto interdisciplinare mancato per cannibalizzazione della controparte: il film, cioè qualcosa di estraneo ai nostri consueti oggetti di indagine, è interrogato e compreso solo nella misura in cui parla un linguaggio a noi familiare. Ciò traspare, in particolare, dal modo in cui il materiale cinematografico è esaminato.
Sulla scala del singolo film, l’analisi è iperselettiva ed è condotta principalmente estraendo brani di sceneggiatura, quindi concentrando lo sguardo sugli aspetti esplicitamente discorsivi dell’opera, perché assomigliano di più ai materiali con cui di solito lavoriamo. I saggi si aprono in genere con la descrizione di una scena ritenuta esemplare, una specie di teaser (o di estesa epigrafe) per passare subito a un altro film (o ad altro tout court). Chi legge è sballottato da ripetuti fast-forward in cerca del giuridicamente saliente, delle «scene di diritto». E poiché queste sono poche, e nel complesso deludenti, basta un cenno al diritto internazionale et voilà, l’internazionalista attacca bottone sulla sua materia, mette a tacere l’interlocutore — il povero, singolo film — e rammenta ad adjuvandum i rudimenti della disciplina… abbiamo capito. Più difficile è capire a profitto di chi si eseguono queste derapate dottrinali (i segni di pneumatico si vedono nelle note a piè di pagina). Profani? Cineasti?
La pratica del fast-forward è in un certo senso imposta da un’altra discutibile scelta metodologica: a livello del singolo capitolo, i film sono esaminati in massa, cumulativamente, a dozzine, quasi fossero… sentenze o “istanze” della prassi! Alcuni autori si preoccupano persino di dimostrare che la base induttiva da cui ricavano le loro ipotesi è ampia abbastanza. Lo è, non c’è dubbio, ma a che fine tali sforzi? Lo scopo principale del volume, nel suo complesso, sembra essere quello di censire, ed eventualmente censurare, i modi in cui il cinema ritrae il diritto internazionale, supponendo che vi sia un rapporto tra tali rappresentazioni e credenze popolari, opinioni diffuse che il cinema, specialmente quello di massa, può sia rispecchiare sia plasmare. Direi soprattutto plasmare: il cinema è il prodotto di un’élite (se si vuole capire come il diritto internazionale si rifrange negli abissi del folklore, più che andare al cinema, bisognerebbe fare cinema col metodo sperimentato da Pasolini nei Comizi d’amore). Ma a parte ciò, l’equivoco alla base di questa attività censitaria e censoria consiste nel pensare che tra le élite cineproduttrici e le masse cineconsumatrici sia in atto una conversazione sul diritto internazionale (ne dubito!), in cui l’internazionalista dovrebbe intromettersi per chiarire le idee ad entrambe le parti, quando invece — poiché il suo linguaggio resta disciplinare quindi introverso — i suoi interlocutori, altri internazionalisti, sono giusto una manciata. E la sanno altrettanto lunga.
Ed è così che, tra binge-watching e fast-forward in cerca di sprazzi di familiare idioletto, l’internazionalista si perde le inquadrature, i piani-sequenza, i fuoricampo, il montaggio, stacchi e dissolvenze, insomma tutto ciò che è specifico del linguaggio cinematografico. Tanto basta per la pars destruens, che è stata un po’ lunga: segno che Corten & Co. hanno costruito molto, forse nel posto sbagliato ma comunque destinato a rimanere luogo di culto per gli appassionati del genere.
E ora, qualche spunto costruttivo. La questione fondamentale è la seguente: perché dovremmo prestare attenzione al linguaggio cinematografico? Cosa potremmo mai ricavarne, sotto il profilo (come si suol dire) del diritto internazionale? La risposta è semplice. Certe cose, certi aspetti della forma di vita “diritto internazionale”, il linguaggio del cinema li coglie meglio — o li coglie a differenza — del linguaggio dei nostri consueti materiali d’indagine. L’uno include — inquadra — ciò che l’altro esclude: la quiete dell’Aja, città sacra al diritto internazionale; il tenebroso Palazzo di Vetro; l’enigmatica apparizione, all’Aja, della statua di Grozio, ma non era a Delft? Sulla questione dovremo tornare. Peter Goodrich vede nell’emblematica giuridica, tema per certi versi attiguo al nostro, un archivio di «obiter depicta». Per analogia, noi potremmo chiamare «obiter filmata» tutto ciò che, marginalizzato o escluso dai nostri discorsi, resta invece impresso nella pellicola. Se interrogati, gli obiter filmata possono suggerire qualcosa di interessante — persino sorprendente — a proposito del diritto internazionale. Il cinema, però, risponde solo se lo si interroga nel suo linguaggio, perché quel che ci dice nel nostro sarà quasi sempre banale, deludente. Insomma, per fare “cinema e diritto internazionale” il dopolavoro non è sufficiente; è necessario, invece, lavorare sul cinema. L’internazionalista deve farsi un po’ critico cinematografico, quel poco che basta a nutrire il rapporto interdisciplinare. Se invece ci precipitiamo al cinema, «Cinema e diritto internazionale» — il nome del Gruppo di interesse, che felicemente prepone il cinema — rischia di rovesciarsi in “diritto internazionale al cinema”, anche lì! Francamente, preferiremmo staccare.
Staccare davvero dal diritto internazionale, per poterlo ri-vedere da angolazioni inconsuete, cinematografiche. Quali lenti inforcare allo scopo? Quelle delle semiotica del cinema, per esempio, se non altro perché la riuscita dell’operazione dipende dalla nostra capacità di captare i segni provenienti dall’altro capo del nesso interdisciplinare. Sguardo sulla semiosi volontaria o autoriale, dunque, ma anche — direi soprattutto — sulla semiosi involontaria o oggettiva, quella che accade nel contesto, nell’intrico della semiosfera, come direbbe Lotman. Da ciò possono ricavarsi quattro massime metodologiche.
In primo luogo, si dovrebbe praticare un vedere e rivedere minuzioso: il segno può giungere inatteso o presentarsi celato. In ciò il giurista, esperto di cavilli, dovrebbe essere un complice naturale del cineasta maniaco del dettaglio. No, quindi, al fast-forward, alla ricerca rapida della “scena di diritto”; attendere, invece, il diritto che qualsiasi scena può dire. In secondo luogo — e in parte di conseguenza — bisognerebbe prediligere un approccio idiografico, concentrato sulla singola opera, rispetto all’approccio nomotetico che conduce agli eccessi del binge-watching. Ciò non escluderebbe indagini panoramiche (su un genere, un’epoca, una scuola, un regista ecc.) con lo scopo di illuminare questo o quel plesso dell’immaginario collettivo. Queste indagini, tuttavia, non condonerebbero l’abominevole smania per la “scena di diritto”. Dovrebbero cioè comunque rispettare la prima massima. In terzo luogo, è essenziale controbilanciare l’inevitabile tendenza a scegliere pellicole che “parlano” di diritto internazionale, magari addirittura ex professo, con una generosa disponibilità all’incontro fortuito.
Nei nostri bloc-notes dovremmo registrare non tanto il minuto d’inizio della “scena di diritto”, un po’ come si farebbe con il paragrafo di una sentenza, quanto i segni che, inattesi, provengono dal Mondo del Cinema. Arrival di Denis Villeneuve, un film di fantascienza appartenente al sotto-genere del contatto con l’alieno, non spende una sola parola sul diritto internazionale e gli dedica appena un’immagine: a un certo punto, sullo sfondo, si intravede una cerimonia diplomatica. Ciò nonostante, la pellicola nel suo complesso racconta, per semiosi oggettiva, un affascinante apologo sulla natura del diritto internazionale (e non specialmente sul diritto degli spazi cosmici). Poiché per discuterne ci vorrebbe un altro cineforum, qui mi limito a notare che in Arrival il nesso tra significante cinematografico e significato internazionalistico è indiretto, tortuoso, allegorico. Benché non fosse intenzione del regista stabilirlo, il nesso sussiste nella regione della semiosfera dove cinema e diritto internazionale si incontrano, perlopiù all’insaputa di entrambi. È operando in questa zona misteriosa che l’internazionalista può contribuire ad arricchire il patrimonio conoscitivo della sua disciplina, patrimonio che resterebbe invece invariato, se ci si limitasse alla critica delle “scene di diritto”, della loro inadeguatezza, tendenziosità o inverosimiglianza.
La quarta e ultima massima è un corollario della precedente e consiste nell’invito ad applicare, nell’esame del materiale cinematografico, una presunzione (altro arnese caro al giurista) di antirealismo. Che valga, dunque, un favor allegoriae: le immagini, al cinema come nei sogni, dicono una cosa e parlan d’altro. Qualche anno fa, Julian Fernandez, rinomato esperto di diritto internazionale penale, ha conferito agli scritti in onore di Serge Sur (la cui cinefilia è nota) un’appassionata recensione di The Ghost Writer, pellicola di Roman Polanski che mette in scena la Corte penale internazionale. Il film, secondo Fernandez, ritrarrebbe la Corte senza verosimiglianza, attribuendole più potere e risolutezza di quanti ne possieda in realtà. Ma siamo sicuri che la Corte di Polanski sia quella sita al numero 10 di Oude Waalsdorperweg? Non è più ragionevole ipotizzare che sia un fantasma (tutte le immagini, del resto, lo sono), una poetica esteriorizzazione del senso di colpa del protagonista che, per inciso, si dice sia un alter ego di Tony Blair? È in questo modo indiretto — e non per mezzo di una documentaristica mimesi della vera Corte — che il cinema può suggerirci qualcosa di inatteso, di suo, sulla vita del diritto internazionale. L’effetto-realtà del cinema è tenace. È parte integrante del suo linguaggio e il cinema stesso ci chiede di tenerne conto. Come? Mantenendo sempre attivi i canali di accesso alla dimensione simbolico-allegorica.
II. Il favor allegoriae dovrebbe valere anche per il documentario, genere cui appartiene il film di oggi. Giunto alla seconda parte dell’intervento, devo indugiare un instante sugli speciali problemi metodologici che il film pone. Il sottotitolo di Broken — Un viaggio palestinese attraverso il diritto internazionale — chiarisce in partenza che non occorrerà cercare il diritto internazionale negli interstizi della narrazione, o coglierlo per speculum in aenigmate, e nemmeno di premere fast-forward in cerca di qualche “scena di diritto”. Il diritto internazionale, in Broken, è un po’ dappertutto. Ma quale diritto internazionale? Quello che regola il procedimento consultivo davanti alla Corte internazionale di giustizia — che sembra essere il soggetto principale del film — o quello sacro ed escatologico, per così dire, che serpeggia soprattutto nell’ultimo tratto della pellicola?
È impossibile decidere senza prima distinguere tre possibili usi del documentario. Impiegato a scopi didattici, Broken richiederebbe frequenti interventi del docente: non fast-forward, ma pausa, e ancora pausa, per darsi il tempo di spiegare le innumerevoli questioni giuridiche che il film appena sfiora. Al termine della seduta, il docente avrebbe aggiunto alla narrazione un commento tanto voluminoso da subissarla. Broken, in secondo luogo, può essere impiegato a scopi seminariali. Asserzioni come quella dell’ex-giudice Buergenthal — secondo cui la salvezza del diritto internazionale starebbe nel suo uso parsimonioso — sembrano concepite per stimolare dispute filosofiche. Anche in questo caso, però, la prevalenza dell’hors-film sarebbe schiacciante: colto lo spunto, accantonato il film. Resterebbe da scoprire se il film stesso, fruito senza interruzioni o digressioni, abbia qualcosa da dirci sul diritto internazionale che già non sappiamo o che desidereremmo approfondire. In ciò consisterebbe il terzo possibile impiego, l’impiego a scopo di ricerca.
Broken documenta una vicenda il cui fulcro è la pronuncia del parere della Corte internazionale di giustizia sulla costruzione del muro israeliano nel territorio palestinese occupato. L’intervista è il suo principale strumento di indagine. All’inizio del film la cinepresa si accende sul colonnello israeliano Danny Tirza, prima a sua insaputa, poi avvisandolo che «si gira»: un pizzico di spontanea esposizione alla macchina ed è subito effetto-realtà. Qualche istante dopo, però, veniamo a sapere che Yasser Arafat chiamava Tirza «papà panzana». Al di là della patina documentaristica, io ho visto, sin dal principio, un dramma religioso. Di questa intuizione ho diffidato a lungo, finché gli indizi a conferma non si sono moltiplicati in modo imbarazzante.
Notiamo anzitutto la distanza siderale dell’Aja dai luoghi del potere, dal Palazzo di Vetro, dove la domanda di giustizia del popolo palestinese si infrange nel veto della potenza egemone [1]. Il veto non è diritto ma ingiustizia. È un gesto violento, arbitrario, un lugubre saluto. La distanza dell’Aja dal luogo dell’ingiustizia è sottolineata sia dal commento fuoricampo («migliaia di miglia») sia dalla soggettiva a bordo della navetta, che evoca un viaggio iperspaziale [2]. Eppure…
Eppure, l’Aja fu scelta come «capitale del mondo» (un problema che i cosmopolitisti dell’epoca si ponevano seriamente) anche perché più vicina alle rotte transatlantiche rispetto alle sue concorrenti: Bruxelles, Ginevra, Parigi e Strasburgo. Benché all’epoca non fosse ancora possibile immaginare di collocare la capitale fuori dall’Europa, l’esigenza di prossimità all’altra sponda dell’Atlantico annunciava la translatio imperii. Dopo il secondo conflitto mondiale, la decisone di mantenere la sola “capitale giudiziaria” all’Aja — città che, a cavallo dei due secoli, era stata con le sue conferenze internazionali anche “capitale politica” — costituisce uno sfondo ideale per sviluppare una drammaturgia del conflitto tra politica internazionale e diritto. Ed è ciò che Broken fa. L’Aja del documentario è una città sublime, dove urbanesimo e natura si intrecciano armoniosamente per il ristoro di un’élite cosmopolita (da notare anche l’edificante commento sonoro) [3]. Eppure, nel velenoso ritratto primonovecentesco di un promotore della candidatura di Bruxelles, l’Aja era «un sonnacchioso villaggio campestre, infestato dalla malaria, lontano da Parigi — la città del desiderio — privo dello spirito internazionalista e capoluogo di una specie di Siberia acquitrinosa, dove sarebbe crudele esiliare l’élite dell’umanità». Broken presenta l’Aja come «luogo di nascita del diritto internazionale». Ma in che senso lo sarebbe? A commento di questa asserzione il regista mette in scena Grozio, quasi fosse il diritto internazionale fattosi carne e sangue. Il Grozio di Broken, però, è un impostore. Grozio non è nato all’Aja ma a Delft. La statua su cui la cinepresa indugia, infatti, è a Delft [4]. Grozio, inoltre, non è un autore cinquecentesco, come stranamente afferma il docente olandese intervistato. Ora, se l’esercizio fosse didattico (o se facessimo diritto internazionale al cinema) dovremmo censurare tutti questi errori ed esagerazioni. Nella prospettiva sopra delineata, invece, questo idillio posticcio rappresenta un varco d’accesso al registro allegorico dell’opera. È uno specchio da attraversare.
L’Aja, insomma, è la culla del diritto internazionale. È una Betlemme, il luogo dove il diritto internazionale — che è Dio, il Verbo — si incarna. Fuor di metafora: si applica, si realizza per opera della Corte internazionale di giustizia, i cui verdetti sono eventi messianici. Il Palazzo della Pace è una Basilica della Natività. In effetti, per coloro che agli inizi del Novecento ne promossero la costruzione, il Palazzo doveva essere, letteralmente, un luogo santo [5, 6]. Prima di diventare il principale finanziatore dell’opera, Andrew Carnegie aveva a lungo resistito alle pressioni dei più esaltati tra i suoi amici internazionalisti, preoccupato com’era che esibizioni di chiesastica pompa potessero nuocere alla causa della pace. Carnegie fu infine tra coloro che amavano dire «Tempio» invece di «Palazzo» (idem una parte della stampa dell’epoca). Andrew Dickson White, diplomatico americano e suo amico fraterno, lo aveva blandito scrivendogli di come quel luogo santo («holy place») sarebbe stato «meta di pellegrinaggi da tutti gli angoli del mondo civilizzato», un «tempio le cui porte, a differenza di quelle del tempio di Giano, sarebbero state aperte in tempo di pace» [7]. A erigerlo fu chiamato Louis Marie Cordonnier, uno dei principali esponenti dell’architettura sacra dell’epoca, il cui piano, più sontuoso di quello infine realizzato, prevalse sia su progetti di intonazione più esplicitamente religiosa (e stravaganti) sia sulla grandiosa architettura civile di Saarinen père. E fu così che il culto del diritto internazionale, un culto che, professato da élite imbevute di positivismo evoluzionistico, esitava a ritenersi tale, ebbe comunque il suo luogo sacro. Inaugurato undici mesi prima dell’inizio della Grande Guerra — e non senza attrarre lo scherno di una parte dell’opinione pubblica — il Tempio dovette attendere i suoi sacerdoti, i primi giudici della Corte permanente di giustizia internazionale, sino al 1921. Durante la guerra, una versione alterata della cartolina commemorativa dell’apertura del Tempio includeva l’avviso «affittasi o vendesi: anche per acquartieramento truppe». Vi giunsero invece uomini in abito talare, depositari di un’incerta teologia e detentori di un’autorità pontificale precaria (giurisdizione volontaria, valore relativo delle sentenze, pareri non vincolanti), che pure resiste da circa un secolo. Il documentario offre una singolare rappresentazione di quanto accaduto nel Tempio a circa novant’anni dalla sua fondazione. La Palestina, rappresentata da giuristi illustri e attorniata da Stati amici (nessun contraddittorio ha luogo durante l’udienza), è protagonista assoluta del rito, mentre Israele è escluso dal Tempio. La sua gente manifesta in strada contro l’iniquo processo, dà vita a una sorta di intifada [8], mentre la Palestina si arrocca nell’istituzione [9], che è il principale organo giurisdizionale di un’organizzazione che le rifiuta lo status di Membro. Questo rovesciamento delle parti prelude a un secondo rovesciamento. Inquadrature e montaggio trasformano il rito del procedimento consultivo in un processo penale. Vaughan Lowe e James Crawford rappresentano la procura [10, 11]. L’imputato è Buergenthal, il solo giudice parzialmente dissenziente, ebreo americano sopravvissuto al campo di concentramento [12].
Le inquadrature distinguono Buergenthal dal resto della Corte: il suo è un atteggiamento sin troppo grave, colpevole si direbbe. Perché l’eloquenza di Lowe e Crawford non strappa anche a lui un cenno di approvazione, come accade invece con il collega Rezek? [13] Il montaggio, inoltre, è scandito in modo tale che Crawford sembra rimproverare a Buergenthal un atto che, in quel momento, egli non ha ancora compiuto: sostenere, come farà in una dichiarazione allegata al parere, che la Corte avrebbe dovuto rinunciare a pronunciarsi per carenza di prove. Si sa che, per un ebreo, le prove dell’avvento del Messia non sono mai abbastanza. Broken mette così in scena un rovesciamento del processo a Gesù, dove l’imputato questa volta è Caifa, il capo del Sinedrio.
Terminata l’udienza, il racconto del processo riprende con la lettura del verdetto a cura del Presidente della Corte Shi [14]. Nel bel mezzo di questo solenne atto, il montaggio stacca sul Palazzo di Vetro, che è ripreso in volo, dalla sponda opposta dell’East River [15]. Tutto ciò — attenzione — mantenendo la voce di Shi fuoricampo, voce che a questo punto non solo ingiunge ma aleggia e incombe: l’effetto Verbo di Dio è potente. Se l’Aja è Betlemme, New York è Gerusalemme: non, però, la città sacra alle religioni abramitiche ma l’avamposto dell’impero, come nel Vangelo. La torma diplomatica [16], che a tratti appare in attesa di un segno numinoso [17], sembra consolidare il trionfo giudiziario — con evidenza tabulare, si direbbe [18] — ma si tratta di un’illusione: dopo giorni di estenuante dibattito, il Presidente dell’Assemblea, Julian Hunte di Saint Lucia, chiude i lavori con una battuta spiritosa e… tutti a ridere! [19] Il rappresentate israeliano — lo abbiamo sentito — dopo il voto ringrazia «Dio, perché il destino di Israele e del popolo ebraico non si decide in quest’aula» [20]. E ha ragione: l’Assemblea ha appena adottato un atto non vincolante che invita ad attuare un altro atto non vincolante, il Parere della Corte. Questa carenza di vincolatività, così come il diritto di veto, è parte integrante del diritto internazionale. È una componente del Verbo che è Dio.
Per il rappresentate palestinese, al contrario, l’indiscussa autoritevolezza della Corte compenserebbe tale carenza. E non è il solo a crederlo nel quadro della disputa che prende corpo in senso all’Assemblea e la cui intonazione teologica è manifesta. Lo si evince dalle minute della seduta, testo “supplementare” cui il film rimanda. «La Corte ha parlato», la sua è «l’ultima parola», il parere «ha la forza del diritto», «è, puramente e semplicemente, diritto», si ode in assemblea. Il parere della Corte, verrebbe da dire, è della stessa sostanza del diritto internazionale. Per Israele, invece, tutto ciò è illusione, una «realtà virtuale», un film, con la Corte nel ruolo del falso profeta. Israele non sfida il diritto internazionale; lo interpreta con il metodo prescritto dalla Torah: «Avrete cura di mettere in pratica tutte le cose che vi comando; non vi aggiungerai nulla e nulla toglierai da esse» (Deuteronomio, 13:1). Ritenere un parere consultivo “diritto” è, per chi respinge il culto della Corte, un’inammissibile aggiunta. Sacri sono il diritto e le autorità che istituisce, non le bolle della chiesa hagiense o i decreti assembleari approvati da maggioranze tanto ampie quanto incapaci di agire in modo conseguente. La debolezza formale delle une e degli altri non è fortuita. Israele — dichiara infine il suo rappresentante — rispetta scrupolosamente il diritto internazionale, secondo l’interpretazione vincolante che ne dà la Corte suprema israeliana. Ed è così che il parere muore a New York, come Gesù a Gerusalemme. È l’impero a ucciderlo, l’impero e il suo diritto. John Dugard, intervistato dal regista, dice proprio «killed the opinion» [21].
Motivi religiosi affiorano anche nell’ultima parte del documentario, dedicata a un amaro bilancio a oltre un decennio dalla pronuncia del parere. Buergenthal, che ha lasciato la Corte nel 2010, rivela al regista la radice profonda del suo dissenso, inesprimibile in veste di giudice: sottoponendo il caso del muro alla Corte nella consapevolezza che un verdetto favorevole sarebbe rimasto lettera morta, i Palestinesi hanno finito per esibire la debolezza del diritto internazionale [22]. La Corte, che ne è il custode, non avrebbe dovuto assecondarli. Anche per Buergenthal il diritto internazionale è Dio. E il nome di Dio non è da pronunciare invano. Bruno Simma, invece, da buon cristiano rivendica il suo apostolato: «we had to speak up as lawyers!», protesta [23]. Il giudice della Corte come profeta o come pastore: Simma esorta i Palestinesi ad avere «un’immensa pazienza col diritto internazionale», nell’attesa, presumo, di una seconda venuta, forse di un altro parere. Le immagini con cui il regista commenta questa esortazione sono eloquenti [24]. Infine, per Al-Kidwa, l’ex-rappresentante palestinese, quel che la Corte ha detto «è dopo tutto il diritto internazionale, non cambia, non invecchia» [25]. Una coranica definitività che, al termine del documentario, si ricongiunge con l’antica saggezza ebraica: il muro è, per entrambe, provvisorio. Il colonnello Danny Tirza mostra gli «holes of hope», quei fori nel cemento armato utili a una rapida rimozione del muro [26]. Lo spettatore, forse, ha ancora in mente altri buchi, quelli infernali del quotidiano transito del lavoratori palestinesi [27].
Senza dubbio utile a scopi didattici, Broken è interessante anche a scopi di ricerca. Non perché indugia su una vicenda giudiziaria per noi arcinota, ma per l’inconsueta inquadratura del diritto internazionale che vi si può scorgere. Nel mito di Vestfalia il diritto internazionale sopravviene alle guerre di religione, si manifesta anche come negazione-superamento o “addomesticamento” della religione. Ciò nonostante, il suo ri-sorgere a cavallo tra Otto e Novecento è accompagnato da un sentimento religioso strisciante, a malapena represso e assai tenace: oggi come allora, la forma di vita “diritto internazionale” è attraversata da tensioni trascendenti. Broken ce lo mostra, perlopiù involontariamente credo, ma poco importa, se l’effetto è comunque straniante, se la visione destabilizza i nostri schemi percettivi e interpretativi, se ci fa avvertire il “fuoricampo”. Nel cinema non dovremmo ricercare altro.
Nota bibliografica — Il “cameo” di Paolo Palchetti si giustifica soprattutto con il suo L’organo di fatto dello Stato nel diritto internazionale, Giuffrè, Milano, 2007. L’introduzione metodologica con cui si apre O. Corten e F. Dubuisson (a cura di), Du droit international au cinéma, Pedone, Paris, 2015, p. 16, firmata da Corten, esclude espressamente «la prise en compte d’évaluations plus spécifiquement cinématographiques, intégrant des considérations artistiques ou esthétiques, que l’on retrouvera plus fréquemment sous la plume de professionnels du cinéma». Serge Sur, invitato a concludere il volume, in controtendenza rispetto a quest’ultimo osserva, giustamente, che «le cinéma […] et le droit international ont en commun l’imaginaire et la dramaturgie» e che compito dell’internazionalista interessato al cinema sarebbe mettere a confron tali drammaturgie. Questa intuizione è però vanificata dall’associazione puramente metaforica tra drammaturgia e vicende della norma: «La dramaturgie impliquant le droit met en cause des conflits de normes, soit de normes de même categorie, soit de catégories différentes» (S. Sur, “Conclusions: présentations et représentations du droit international dans les films et les séries télévisées”, ibid., pp. 377-379). Il giurista non ha bisogno del cinema per esperire la tragedia dell’antinomia o la commedia del combinato disposto. Del volume qui criticato è attesa, per maggio, un’edizione in lingua inglese ampiamente rimaneggiata, più breve (un capitolo in meno) ma con quattro nuovi contributi: O. Corten, F. Dubuisson e M. Falkowska-Clarys (a cura di), Cinematic Perspectives on International Law, MUP, Manchester, 2021. Nel testo ipotizzo che curatori e autori del volume già pubblicato non abbiano tenuto conto di classici come J. Boyd White, The Legal Imagination, University of Chicago Press, Chicago, 1973. R.M. Cover, “Foreword: Nomos and Narrative”, Harvard Law Review, 1983-84, pp. 4-68. Sulla narratività del discorso giuridico internazionale è prezioso, anche per la bibliografia, A. Bianchi, International Law Theories: An Inquiry Into Different Ways of Thinking, OUP, Oxford, 2016, pp. 287-310. La difficoltà di saldare un rapporto interdisciplinare soddisfacente, che attende al varco chiunque voglia occuparsi di cinema e diritto internazionale, è già ampiamente diagnosticata negli studi di “diritto e letteratura”. Si veda, ad es., C.O. Franck, “Narrative and Law”, in K. Dolin (a cura di), Law and Literature, CUP, Cambridge, 2018, p. 42, dove si depreca «a nominal interdisciplinarity that brings the two fields together largely to confirm their respective identities». Prima di… andare al cinema, consiglio perciò di dare una scorsa a J.M. Lotman, Semiotica del cinema e lineamenti di cine-estetica, a cura di L. Ponzio, Mimesis, Udine-Milano, 2020. Utile anche D. MacDougall, The Looking Machine: Essays on Cinema, Anthropology and Documentary Filmmaking, MUP, Manchester, 2019. Essenziale P. Goodrich, Legal Emblems and the Art of Law: Obiter Depicta as the Vision of Governance, CUP, Cambridge, 2013. Il saggio sul film di Polanski è J. Fernandez, “Puissance fictive et puissance réelle de la Cour pénale internationale: The Ghost Writer de Roman Polanski”, in Liber Amicorum en l’honneur de Serge Sur, Pedone, Paris, 2014, pp. 335-346. Le notizie sul Palazzo della Pace sono tratte sopratutto dallo straordinario A. Eyffinger, The Peace Palace: Residence for Justice, Domicile of Learning, Carnegie Foundation, The Hague, 1988; oltre che da due reportage d’epoca, entrambi anonimi: “The Temple of Peace at the Hague”, Advocate of Peace, 1913, n. 9, pp. 200-201; “A Glimpse of the Palace of Peace, Just Dedicated” (New York Times, 7 settembre 1913). L’episodio del ritocco della cartolina commemorativa è riferito in D.D. Caron, “War and International Adjudication: Reflections on the 1899 Peace Conference”, American Journal of International Law, 2000, p. 22. Secondo Y. Dinstein, “International Law as a Primitive Legal System”, New York University Journal of International Law and Politics, 1986, p. 18, «[t]he present development of international law is devoid of any religious content». Invece, D. Kennedy “Losing Faith in the Secular: Law, Religion and the Culture of International Governance”, Graven Images: A Journal of Culture, Law, and the Sacred, 1998, p. 141, racconta: «I attended a conference in which the world’s great ethical traditions Christianity, Judaism, Islam, Confucianism and (puzzlingly I though) International Law were invited». Sul vasto tema del nesso tra diritto internazionale e religione ho tratto spunto, oltre che dal saggio appena citato, splendido e poco noto, dalle osservazioni dello stesso Kennedy in “Religion and International Law”, Proceedings of the American Society of International Law, 1988, pp. 198-205; e inoltre da J.H.H. Weiler, “The Idea of the Holy: Nomos as Holiness”, in H.P. Hestermayer et al. (a cura di), Coexistence, Cooperation and Solidarity. Liber Amicorum Rüdiger Wolfrum, Nijhoff, Leiden-Boston, 2012, vol. II, pp. 2165-2173; J.H.H. Weiler, “Abraham, Jesus, and the Western Culture of Justice”, in U. Fastenrath et al. (a cura di), From Bilateralism to Community Interest. Essays in Honor of Judge Bruno Simma, OUP, Oxford, 2011, pp. 1318-1322; J.H.H. Weiler, “Entrenchment—Human and Divine: A Reflection on Deuteronomy 13:1-6”, in M.H. Arsanjani et al. (a cura di), Looking into the Future. Essays on International Law in Honor of W. Michael Reisman, Nijhoff, Leiden-Boston, 2011, pp. 355-361; N. Bentwich, The Religious Foundations of Internationalism. A Study in International Relations through the Ages, Routledge, London, 2017 [1959]; S. Rosenne, “The Influence of Judaism on the Development of International Law: A Preliminary Assessment”, Nederlands Tijdschrift voor Internationaal Recht, 1958, pp. 119-149. Le notizie sul dibattito presso l’Assemblea generale sono ricavate dalle minute delle riunioni (24°, 25°, 26° e 27°) della Decima sessione speciale di emergenza tenutesi tra il 16 e il 20 luglio 2004. Della battuta spiritosa del Presidente dell’Assemblea naturalmente non resta traccia nelle minute, che si concludono con un consueto «I should like to thank all members…». In “locandina” Margherita Caruso, interprete della giovane Maria ne Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini.
No Comment