Bosnia-Erzegovina, diritti di partecipazione politica e CEDU: nulla di nuovo sotto il cielo. Osservazioni sulla sentenza Pudarić della Corte europea dei diritti dell’uomo
Ivan Ingravallo, Università degli Studi di Bari Aldo Moro
La sentenza emanata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (quarta sezione) l’8 dicembre 2020 nel caso Pudarić v. Bosnia and Herzegovina (ric. 55799/18) conferma come, a 25 anni dai c.d. Accordi di Dayton (General Framework Agreement for Peace in Bosnia and Herzegovina), la situazione in questo Stato balcanico rimanga sostanzialmente improntata al mantenimento dello status quo basato sull’equilibrio etnico. Nonostante l’art. II della Costituzione bosniaca, che è uno degli allegati agli Accordi di Dayton, stabilisca la prevalenza della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) sul diritto interno, su una questione dirimente come la rappresentanza politica senza discriminazioni su base etnica, la Convenzione rimane inattuata. La sentenza Pudarić, infatti, è la quinta pronuncia della Corte di Strasburgo che condanna la Bosnia-Erzegovina per questo motivo (mi riferisco alle sentenze della Grande Camera, del 22 dicembre 2009, nel caso Sejdić and Finci v. Bosnia and Herzegovina, ric. 27996/06 e ric. 34836/06; della quarta sezione, del 15 luglio 2014, nel caso Zornić v. Bosnia and Herzegovina, ric. 3681/06; della quinta sezione, del 26 maggio 2016, nel caso Šlaku v. Bosnia and Herzegovina, ric. 56666/12, e del 6 giugno 2016, nel caso Pilav v. Bosnia and Herzegovina, ric. 41939/07), tanto che alla quarta sezione è sufficiente richiamare in maniera stringata i precedenti giurisprudenziali per confermare la violazione della CEDU. In particolare, nella sentenza Pudarić, come in Pilav, è riconosciuta la violazione dell’art. 1 del Protocollo n. 12 alla CEDU, che pone un generale divieto di discriminazione nel godimento di ogni diritto previsto dalla legge. Nelle altre sentenze richiamate la Corte aveva anche condannato lo Stato bosniaco per la violazione dell’art. 14 CEDU (relativo al divieto di discriminazione rispetto ai diritti enunciati nella CEDU) e dell’art. 3 del Protocollo n. 1 alla CEDU (sul diritto a libere elezioni).
Come accennato, la costruzione dello Stato bosniaco su basi etniche si deve agli Accordi conclusi a Dayton il 21 novembre 1995 (firmati a Parigi il 14 dicembre successivo), che posero fine al tragico conflitto in Bosnia-Erzegovina e, più in generale, alle guerre balcaniche dei primi anni ’90. Essi furono sottoscritti dalla Bosnia-Erzegovina, dalla Croazia e dall’allora Repubblica Federale di Iugoslavia, con l’assistenza dei principali attori internazionali interessati alla conclusione di quel conflitto (Francia, Germania, Regno Unito, Russia, UE, USA). Gli Accordi di Dayton si occupano di numerosi profili e includono 12 allegati, firmati dalla Repubblica bosniaca e dalle due entità separate che la compongono, la Federazione di Bosnia ed Erzegovina (rappresentativa dei popoli bosgnacco e croato) e la Repubblica Sprska (rappresentativa di quello serbo), e garantiti dalla Croazia e dalla Serbia. Quindi, come ricordato anche dalla Corte di Strasburgo nella sentenza in commento, occorre differenziare i vocaboli che qualificano i cittadini bosniaci appartenenti alle tre entità (Bosniacs, Croats, Serbs) e quelli riferiti ai cittadini dei tre Stati (Bosnians, Croatians, Serbians); si tratta di una distinzione sottile e che può prestarsi a manipolazione.
La Costituzione della Bosnia-Erzegovina costituisce l’allegato 4 agli Accordi di Dayton. Essa organizza il funzionamento dello Stato bosniaco secondo un sistema che assegna significativi poteri alle due entità separate, mentre limitati sono quelli delle autorità nazionali (Presidenza, Parlamento, Corte costituzionale, ecc.), le quali sono peraltro strutturate attorno al principio dell’equilibrio etnico tra le due entità e i tre popoli che compongono la Bosnia-Erzegovina. Ciò è a dirsi anche per gli emendamenti alla Costituzione, disciplinati dal suo art. X e contribuisce a spiegare come mai in questi 25 anni essa è rimasta sostanzialmente immutata, a causa della difficoltà dei tre popoli e delle due entità di raggiungere un’intesa capace di raccogliere la maggioranza necessaria per approvare gli emendamenti. Le regole fondate sull’equilibrio etnico, definite nel 1995 per porre fine alle ostilità, con il passare degli anni appaiono, sotto vari profili, un ostacolo all’evoluzione dello Stato bosniaco.
La Costituzione bosniaca disciplina anche la protezione dei diritti umani. L’art. II stabilisce che sia il Governo centrale, sia le due entità, assicurano «the highest level of internationally recognized human rights and fundamental freedoms» (par. 1), aggiungendo al par. 4 una generale clausola di non discriminazione; l’allegato I alla Costituzione include una lista dei principali trattati sui diritti umani ai quali lo Stato bosniaco si vincola. Un rilievo peculiare ha la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in quanto l’art. II, par. 2, della Costituzione bosniaca si riferisce specificamente alla CEDU e ai suoi protocolli, stabilendo che essi «shall apply directly» in Bosnia-Erzegovina e «shall have priority over all other law». Aggiungo che, in base al già menzionato art. X della Costituzione, è vietato qualsiasi emendamento che possa eliminare o limitare i diritti e le libertà previsti dall’art. II.
I fatti di cui alla sentenza in commento risultano alquanto banali e, come accennato, ripetitivi rispetto a ciò che è accaduto in passato e in merito al quale la Corte EDU ha già condannato lo Stato bosniaco: il 25 maggio 2018, il sig. Svetozar Pudarić, un cittadino serbo-bosniaco residente nella Federazione di Bosnia ed Erzegovina (il ricorrente è deceduto nel corso del giudizio, che è stato portato avanti dalla sua vedova) chiede di candidarsi come indipendente alle elezioni per la presidenza di questa entità; la Commissione elettorale centrale dell’entità respinge la sua candidatura, sulla base delle norme nazionali concernenti l’affiliazione etnica e il luogo di residenza come requisiti per la candidatura, al pari della Corte della stessa Federazione e si rivolge alla Corte costituzionale dello Stato bosniaco. Questa, pur richiamando la giurisprudenza con cui la Corte EDU ha condannato la Bosnia-Erzegovina e ha «unambiguously ruled that it is necessary to amend the Constitution», e ritenendo necessario «to end the current incompatibility» della Costituzione con la CEDU, afferma che si tratta di una competenza che appartiene alle istituzioni politiche dello Stato bosniaco, non avendo la Corte costituzionale «either constitution-making or legislative competence». La Corte EDU liquida con poche parole il tentativo dello Stato convenuto di giustificare la violazione affermando che «the political environment […] was not yet conductive for such changes [delle norme nazionali a carattere discriminatorio poc’anzi richiamate] to be adopted» (par. 24) e, rifacendosi alla propria (ricordata) consolidata giurisprudenza relativa alla Bosnia-Erzegovina, ribadisce che «has not found any fact or argument capable of persuading it to reach a different conclusion on the merits of this complaint».
L’elemento preoccupante della sentenza in commento è che, a distanza di 11 anni dalla sentenza Sejdić and Finci, nulla è cambiato. Ciò non è una buona notizia per lo Stato bosniaco, specie per la sua reputazione – l’inadempimento delle sentenze della Corte EDU è rimarcata sia nelle raccomandazioni e conclusioni del Gruppo di lavoro nell’ambito della Revisione periodica universale del Consiglio dei diritti umani dell’ONU, che per la Bosnia-Erzegovina ha avuto luogo nel 2019, sia nei rapporti periodici dell’Alto rappresentante per la Bosnia-Erzegovina, ultimo in ordine di tempo quello di ottobre 2020 – e per le sue prospettive di avvicinamento all’Unione europea (v. da ultimo il rapporto del 6 ottobre 2020 relativo allo Stato bosniaco, che accompagna la più recente comunicazione della Commissione europea in materia di allargamento dell’Unione). Ma non è una buona notizia neanche per la Corte EDU, perché rappresenta un ulteriore caso in cui uno Stato parte alla CEDU non applica la sua giurisprudenza, il che è preoccupante in termini di effettività della tutela da essa apprestata. A mio avviso, considerata l’esistenza di un «problema strutturale o sistemico» dovuto allo stallo realizzatosi e all’incapacità di rispettare la CEDU, la Corte avrebbe potuto applicare nei confronti della Bosnia-Erzegovina la procedura della sentenza pilota, di cui all’art. 61 del suo Regolamento di procedura. Sarebbe stato un segnale forte al fine di tentare di superare lo status quo che da troppi anni paralizza lo Stato bosniaco. Secondo il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa (1383a riunione, 29 settembre-1 ottobre 2020), infatti «[n]otwithstanding the Committee’s interventions and the extensive support offered to the authorities by both the Council of Europe and the EU, the Committee has noted with profound concern that three general elections have been held under discriminatory rules, in 2010, 2014 and 2018». Lo stesso Comitato dei ministri ha, in precedenza, riconosciuto che la Bosnia-Erzegovina sta violando manifestamente la CEDU e ha sollecitato le autorità bosniache a porre termine a questa violazione entro ottobre 2021, per consentire uno svolgimento delle elezioni previste nel 2022 non più caratterizzato dalla discriminazione su base etnica (v. il par. 18 della sentenza in comento). L’impressione è che, affinché le autorità bosniache si risolvano a modificare questa situazione, occorra un rinnovato e maggiore impegno della comunità internazionale, cui anche la Corte di Strasburgo potrebbe contribuire. In fondo, la Bosnia-Erzegovina è un Paese piccolo (poco più di 3,4 milioni di abitanti, in diminuzione a causa di una forte emigrazione giovanile, su un territorio di circa 52000 km2), che a 25 anni dagli Accordi di Dayton continua a essere lacerato da divisioni interne, in parte dovute all’intervento di Stati stranieri, confinanti e non. Rimuovere le regole che disciplinano la rappresentanza politica su base etnica, che furono necessarie a raggiungere quegli Accordi, ma mostrano oggi il loro anacronismo, sarebbe il modo migliore di celebrarne l’anniversario.
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